LXXVI.
Sempre, dunque, travestita di
quello strappato e sanguinoso abito da marinaio, senza che mai nessuno di que'
feroci, né anche il commessario, ai quali tutti io me n'era pietosamente
raccomandata, mi volessero fare la carità di procacciarmi una gonna qualunque,
io fui chiusa in una bussola, e da molti feroci e gendarmi accompagnata a casa
quel barbassoro. Quivi, fermata la bussola nella corte, mi fecero salire ben
cinque piani, e fummo nella colui sala. S'aspettò, io credo, un'ora,
bestemmiando gendarmi e feroci, che poi quando ci fu imposto d'essere alla
presenza di sua signoria, gli si prostrarono quasi ai piedi, come i Tibetani al
loro gran Lama.
Era costui un uomo altissimo e
grassissimo, con una pancia che pareva il panteon di Agrippa. Il naso non era
dei grandi, ma aveva le guance d'una così disonesta rotondità, che parevano
essere due parti di tutt'altro membro che il viso: avea la fronte larga e
corta, e i capelli inamidati, tutti ravviati con gran cura verso di dietro; e
la sua testa tutta insieme pareva più tosto un grandissimo cocomero che un capo
umano. Avea le mani appoggiate sulla pancia, che girando a tondo per tutta la
persona, non dava loro altro posto da giacere: ed aprendo la più sgangherata
bocca ch'io vedessi mai, con certi piccioli, neri, rotti e rarissimi denti, con
una voce e un dialetto della Ruga Catalana4:
Vedete com'è bella! vedete com'è
bella! esclamò proverbiandomi rivolto a quei feroci; vedete come m'è venuta
bella innanzi, con que' crini rabbuffati, e quegli abiti d'arlecchino tinti in
rosso! Mi vorreste insegnare a me simili sorta di bagasce? Ora vedete mo com'è
bella! Mettetela in mezzo agli sbirri e menatela alla prefettura! Alla
prefettura in mezzo agli sbirri!
E così continuava a gridare come
uomo ebbro o deliro, non guardando più nessuno, ma volgendosi intorno intorno
come un energumeno, e mettendo ormai fuori non più parole intelligibili, ma
certi urli confusi, fra i quali si distinguevano solo le voci: sbirri e
prefettura. Finalmente i feroci, guatatisi così un poco fra loro, e visto
ch'essi medesimi erano quegli sbirri in mezzo ai quali il furente baccalare
aveva loro ingiunto di pormi, mi condussero via che ancora per le scale e nella
corte s'udiva di lontano quel bocione, che rimbombava tuttavia: prefettura e
sbirri.
Richiusa nella bussola e
condotta alla prefettura, quivi fui messa, alla presenza di tutta Napoli, in
una di queste carceri, come ora si direbbe, provvisorie, e consegnata vita per
vita al carceriere. Quivi era un giovane onesto e biondo, di assai trista
sembianza e tutto a bruno; il quale era sì stanco e addolorato, che non pose al
tutto mente a me quando ci entrai, né pareva che avesse posto mente a due male
femmine che gli civettavano dappresso. Queste, appena mi videro in
quell'acconciatura, mi giudicarono una loro onesta compagna, e cominciarono a
parlarmi assai compagnevolmente delle cause che le avevano condotte a trovarsi
nella mia conversazione. Poco di poi sopraggiunse, accompagnato dal carceriere,
un uomo di mezzana statura ed assai male in arnese, di viso assai umile e
rimesso, e lasciato dal carceriere, si raccolse quivi in un canto come un
povero carcerato. Donde, levati gli occhi verso noi tutti, ma in ispezialtà
verso quel giovane, cominciò a raccontarci una sua favola della ragione del suo
essere in prigione, ed a domandarci con assai disinvoltura di quella per la
quale v'eravamo noi, dicendo il peggior male di tutti gli ufficiali grandi e
piccoli della polizia, ed invitandoci a fare il somigliante, con tanto maggior
pericolo che altri desse nella pania, quanto egli diceva il vero. Ma le male
femmine né pure intendendo quel ch'egli gracchiava, per risposta gli
domandavano se gli facesse mestiere di loro; e il giovane o non badava a
udirlo, o udendolo, gli sorrideva di pietà. Né a me, avvezza a vivere nelle
pubbliche comunità, dove le spie abbondano, poteva essere occulta l'arte assai
grossolana di quel provocante delatore; e parte avevo ancora io la mente
altrove, e non che di rispondergli, non mi curai più d'udirlo.
Sette ore fui tenuta in quel
carcere col giovane a bruno, la spia e le due meretrici. Erano, credo, le
ventidue, quando venne per me il carceriere e mi condusse su al primo piano in
una stanzetta a volta, dov'erano assai ufficiali, tutti per lo più giovanotti
azzimati e attillatuzzi, con certi baffini ch'erano una grazia, e che
mostravano in istrano innesto come il pelo può talora essere indizio di
effeminatezza. Costoro, tutta venutami considerando, già mi guardavano con
occhi cupidissimi e investigatori d'ogni mia più deplorabile miseria, quando,
sbatacchiato un grand'uscio ch'ivi era, venne fuori quel furioso della mattina,
il quale, avvedutosi che quei giovani mi consideravano un poco attentamente,
disse loro la più gran villania che mai fosse detta a nessun discolo; e di me,
dopo che m'ebbe carica di assai epiteti che la mia modestia non mi consente di
ripetere, diede ordine che fossi rimessa fra gli sbirri e ricondotta nella
presenza del governatore al Serraglio.
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