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Antonio Ranieri
Ginevra o L'orfana della Nunziata

IntraText CT - Lettura del testo

  • Parte Quarta
    • LXXVIII.
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LXXVIII.

 

Così si sciolse questo episodio della breve tragedia della mia vita. Io mi svenni, mi riebbi, mi tornai a svenire e mi tornai a riavere, mi stracciai i capelli e il viso, mi picchiai il petto e il seno, gridai, stupii, piansi e bestemmiai a posta mia. E quando ebbi ben fatto tutto ciò, ritornata in me stessa, vidi che né Paolo, né l'onore che il prete m'aveva tolto, era risuscitato. Tediata della figura umana, impetrai da madama che m'avesse lasciata insino a sera in quel gabinetto; e quando madama fu partita, ricominciato il mio verso del piangere e del picchiare, le quattro mura di quello rappresentaron la parte che la natura prende alle nostre sventure.

La sera, a ora d'andare a letto, madama venne per me, e mi disse:

Ginevrina, le leggi dell'ospizio non mi consentirebbero di porvi a dormire ed a lavorare con le altre fanciulle, che o sono, o sono tentute pulcelle. Ma l'innocenza del vostro cuore fa forza al mio; ed io ho disposto che voi siate ricevuta fra le prime compagne, al vostro proprio letto, come se nulla fosse stato della fuga.

E visto ch'io era disperatamente vergognosa degli scherni delle mie compagne:

Di scherni o di motteggi, mi disse, non accade che vi mettiate pensiero. Io ho dato ordini rigidissimi intorno a ciò; né ho lasciata indietro cura veruna acciocché la novella si spandesse per l'ospizio in un modo poco meno che onorevole per voi.

Detto ciò, mi condusse quasi per mano nella mia sala, al mio posto, nell'ora appunto che le giovani se n'andavano a letto. Ma ella non era appena fuori dell'uscio, ch'io ebbi per ricevuta uno scroscio di risa universale.

Per un savio ordinamento delle cose, le gravi sventure ci rendono insensibili alle piccole, e le reali alle immaginarie. Qualunque altra sera della vita mia io mi sarei morta di vergogna a quello sghignazzìo. Ma quella sera io non ne feci più caso che aveva fatto dei quattro muri del gabinetto stati testimoni del mio racconto e delle mie querele; e raccoltami come potetti nel mio lettuccio, l'allagai tutta la notte delle mie lacrime.

Il seguente, poco prima del desinare, fui fatta domandare da madama, che m'attendeva in quel medesimo gabinetto del davanti. Quivi era un ufficiale di corte con un suo scrivano, ch'era venuto a prendere la mia deposizione per iscritto. Io, interrogatane solennemente da lui, non senza rossore gli dissi il vero. Ma l'ufficiale non dettava mai allo scrivano quel ch'io gli diceva, e solo m'interrompeva di quando in quando, esclamando non poter l'opera stare com'io la contava. Allora io, fra noiata e sdegnosa, gli dissi con parole assai risolute, che io non aveva altra deposizione a fare, e che scrivesse quella o nessuna: ed egli cominciò, tutto svogliato, a dettare allo scrivano parole che sonavano ben altro di quello che io gli aveva detto e ripetuto più volte. Madama ed io gli dicemmo mille volte che egli non dettava il narratogli; mille volte egli racconciò la sua frase; e mille volte ne uscì un sentimento o non verace o inintelligibile. Finalmente egli si levò, gridando con un viso marmoreo, che il suo sacro ministero non gli permetteva di alterare il vero per cicalare di donne: e, voltoci il tergo, andò via minacciando.

Dopo pochi , non so qual tribunale dichiarò me consenziente al prete, e il prete, i due cagnotti e la ruffiana incolpabili; e come tale don Serafino ritornò alle sue ordinarie lezioni, che, come richiesto a corte, era stato costretto a intermettere. E benché io me gl'involassi sempre come al più velenoso e mortale serpente, nondimeno mai il demonio non me gli parò davanti, ch'egli sottocchi non sogghignasse.

 

 




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