LXXXV.
Il primo sorso dell'aura fresca
e odorosa di primavera ch'io inghiottii, e il primo bacio di Cammillo, mi
cancellarono, come per miracolo, dalla mente tutti i pensieri, e insino la
memoria, dell'ospizio. Quel dolce e carezzevole cielo mi parve il mio tetto
naturale, e Cammillo, sul cui braccio mi fui tosto appoggiata, il mio antico
compagno. O vane menti de' mortali, com'è vero che un'aura vi muta!
Noi venimmo a piedi insino alla
piazzetta di san Piero ad Aram, dove entrammo in una carrettella che ci
attendeva. Questa saettò per la Marina e per Santa Lucia, e, in meno che non è
credibile, ci trovammo a Ghiaia in sulla piazza di San Pasquale. Quivi
scendemmo a un magnifico albergo, dove Cammillo, condottami in una stanzetta
terrena, nella quale aveva raccolte tutte le sue valigie e fagotti ed altri
arnesi da viaggio, e tiratosi l'uscio dietro, mi diede mille baci: ma pure,
facendosi una gran violenza, si sciolse da me ed io da lui, perché l'ora
stringeva. E fattami rivestire in furia abiti più recipienti, quindi mi
condusse al piano nobile in una gran sala, dov'era apparecchiata la più ricca
mensa ch'io potessi mai immaginare. Quivi erano assai altri artisti, e il Russo
con la sua moglie, e signori altri grandissimi napoletani e forestieri, né di
signore era difetto. Ai quali tutti, ed al Russo specialmente, mi presentò come
sua moglie. Questi aveva una barba folta e lunga, con un certo berretto senza
falda in testa, che pareva uno di questi papassi greci, e con una
smisuratissima pipa in bocca, del cui fummo annebbiava leggiadramente la mensa,
la sala, i signori e le signore tutte che v'erano. Gli occhi gli si
riscontravano l'un l'altro angolarmente, aveva il naso camoscio, e il colore
del viso era gialleggiante, e tutto insieme rammentava i mogolli. Era, o per
meglio dire, si sforzava di essere tutto amabile e cortese; né sapeva sforzarsi
di tanto, che, per entro la larva accattata dalla Francia, non trasparissero in
istrano accordo la goffaggine e la ferocia nativa. E nondimeno signoreggiava
tutta quella brigata, ed è ineffabile la viltà con la quale i più alti
barbassori napoletani gli parlavano, non s'intende perché, come a loro
maggiore.
Il Russo mi s'appressò con un
viso che parea un lupo affamato, tanto ch'io m'arretrai d'un passo, quasi
temendo un pubblico assalto. Ma egli non volea dirmi, e non mi disse, che tre o
quattro amabilità da studente francese, ed ecco il siniscalco e gli altri suoi
schiavi ci messero a tavola, e fu mangiato saporitamente, e le lusinghe e le
piacenterie dei nobili napoletani crescevano ad ogni nuova imbandigione.
Terminato il convito, il Russo,
che, come intesi, aveva già spedito la sera innanzi le sue mule col grosso del
carriaggio e con ventiquattro schiavi, ordinò che si mandasse tosto pei
cavalli, ch'egli voleva allora allora partire in sulle poste. Quei signori
napoletani e quelle signore s'accommiatarono con assai riverenze, quasi come
pregando Iddio che prestamente questo regno, anzi Italia tutta, divenisse una
provincia russa, acciocché potessero passare più spesso di così deliziose
serate; e poco di poi s'udì giù per la corte un gran suono di campanelle.
Ecco, ritornati nella nostra
stanzetta terrena, facemmo portare i nostri arnesi nella corte. Quivi era una
carrozza, una carrettella ed un carretto. Cammillo e il siniscalco fecero
acconciare la nostra robicciuola sulla carrettella, e dodici schiavi, che
parevano le più sime pecore ch'io abbia mai viste, usciti delle stalle ove
dormivano, acconciarono quel che rimaneva del carriaggio del loro signore sul
carretto. Poco stante scese giù il Russo con la mogliera e con la pipa, che
figliuoli non avea altrimenti; ed entrati essa coppia nella carrozza, Cammillo,
il siniscalco, il segretario ed io nella carrettella, e i dodici schiavi
montati sul carretto, ed assettatisi, anzi sdraiatisi a uso bestie, sulle casse,
sui bauli e sulle ceste, di che l'avevan ben carico, facemmo partita ad un gran
suono di fruste e di campanelle, fra i più servili ossequii del locandiere e di
tutta quella sua infame canaglia5.
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