LXXXIX. pag 134
Io vidi da Albano il sole che si
tuffava misteriosamente nell'onde, e vidi sciami infiniti di gracchianti
uccelli quasi accompagnarlo nella sua caduta. Ed io, sorvolando con loro mille
e mille anni, già quasi ne prendeva i buoni o rei augurii della vita mia. Poi
si corse furiando sul deserto lastricato, fra cento file di tronchi acquedotti
e mille rovine di sepolcri: ed io diceva: O tempo, tu dovevi perdonare alle
tombe! E mancava poco alle ventiquattro, quando fummo in sulla piazza di san
Giovanni in Laterano.
Io levai gli occhi a sinistra, e
vidi la facciata della basilica. O nomi sonori, che varcherete mille secoli, ed
ancora affaticherete gli orecchi dell'universo invidioso, quanto più grandi di
voi paiono quelle grandezze che significate, allo stupido pellegrino che
s'inurba! O Costantino, o Silvestro, quanto mi tornarono grate nella memoria
insino le vostre favole!
Valicammo una lunga via, in
fondo alla quale era il Colosseo; poi m'imbattei nella colonna Traiana; e
quindi uscimmo a Piazza di Spagna.
Quivi scendemmo a un grande
albergo, dove l'albergatore, che la facea da cavaliere col suo servidorame o
con altri più modesti viaggiatori che uscivano o entravano all'albergo, porse
la servile mano allo sportello del Russo; e quegli e la moglie balzarono giù
come due matti, e senza mutar abiti, né montar pure le scale per vedere
l'appartamento da abitare, rientrati in una carrozza da nolo dell'albergatore,
e ordinato al siniscalco che fosse loro portato da merendare nel palco a
Tordinona, si scapolarono come invasati, gridando al balordo cocchiere, che
menasse a tutta furia que' suoi balordissimi cavalloni.
Partita quella coppia, il
segretario s'inviò al teatro di malavoglia, come quegli a cui sarebbe troppo
più convenuto letto che saltatori o strioni: ma quivi l'arco dell'esilio lo
balestrava. Il siniscalco s'andò per le sue faccende nella cucine; gli schiavi
nelle stalle a sdraiarsi sullo strame; e Cammillo ed io, più felici di tutti,
ci ricoverammo in una modesta stanzetta che ci fu assegnata, in un modesto lettino,
caro segretario, e quella notte e cento e cento altre, de' nostri piaceri.
La mattina seguente fummo a far
riverenza ai due signori russi, che trovammo un poco meno invasati del dì
davanti nella loro frenesia; non però che consentissero di ragionar d'altro che
della saltatrice. E il principe in persona (ch'egli era un principe), levatosi
da sedere, cominciò a volerci far vedere materialmente come proprio la sua
eroina moveva i piedi: ed alzava le zampe, e col suo fischio s'accompagnava, e
pareva uno di questi orsi che danzano qui talvolta per la città al suono
rusticale d'una sampogna. E noi facemmo una gran prova di frenare il riso, e,
lodata la disinvoltura ond'egli imitava la sua dea, ci accommiatammo e
n'andammo a spasso.
Così cominciai a vivere i giorni
più placidi della mia vita; almeno, i più secondo natura. Io era già fuori di
tutte le illusioni della nuova età, e nondimeno conservava ancora tanta
vivacità nella fantasia e nel cuore, quanta mi bastava a godere. Quando
Cammillo usciva pe' suoi lavori, o era dentro a lavorare, io leggeva; ch'egli
non mi lasciava mai mancare di libri. E quando era scapolo, giravamo per Roma e
pe' contorni, e mille anni e mille volumi non mi basterebbero a dire il
millesimo de' piaceri, delle consolazioni, de' rapimenti di sovrumana felicità
in ch'io n'andava, contemplando tante e sì ineffabili e sempiterne bellezze. La
sera ci riducevamo di buon'ora nella nostra stanzetta, dove venivano spesso a
veglia il segretario ed il siniscalco; e l'uno co' suoi racconti di Francia mi
tornava dolcemente la memoria di suora Geltrude; l'altro mi sollazzava parlando
della schiavitù come della cosa più dolce e più desiderabile della terra, e che
non era nessun uomo più felice di lui, e che un dì il suo padrone, o fosse più
brillo o più amoroso del solito, gli aveva profferta la libertà, ch'egli aveva
ricusata come il più funesto de' doni.
Di tanto mi stimai io felice, e
questa fu l'ultima delle mie illusioni.
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