XCI.
Costumava il Russo di passare
gran parte della bella stagione a un'amenissima villa ch'aveva tolta in fitto,
posta proprio in sul lago di Nemi, donde godeva la veduta più incantata che
l'immaginativa dell'Ariosto poté mai aver concetta. Quivi conduceva spesso
anche noi; ed allora io aveva una gran compassione alla pazzia degli uomini
ricchi, che potendo vivere nel paradiso della campagna, consumano il più della
vita fra il putrido e pestilenziale fango delle città. Era il maggio, e il
Russo non fu veduto più mettere il muso fuori della sua villa, per un gran
giocatore che egli era venuto malato di Pietroburgo, col quale egli si
dilettava di giocare dì e notte; che sapete che questi barbari giocano il
sangue, e non ha guari giocavano la libertà e si rendevano schiavi volontari di
chi vinceva loro la partita. Ma non ci ritenne già seco, perché Cammillo,
proprio a quei dì, gli copiava l'Aurora del Guercino nella villa Ludovisi, dopo
averne ottenuto a grandissimo stento la permissione: perché tutta questa marmaglia
di barbari o di bottegai forestieri, che quali uccelli di mal augurio, ogni
inverno invadono a stormo l'Italia, non si contentano di vedere i monumenti
della nostra superiorità a loro, se per rabbia barbarica non rompono statue,
non graffiano pitture, non rubano, come si conviene a vecchi ladroni, i codici
delle biblioteche; e non so chi di casa Ludovisi aveva santamente ordinato,
quello che dovrebbe ordinare ogni signore o governo italiano, che quelle
bellezze non si mostrassero che a chi provava o d'essere italiano, o di non
odiare, se non l'Italia, cosa impossibile al forestiero, almeno le creanze.
Era per tanto presso che un mese
che il Russo non era più in città, quando un dì Cammillo mi tornò a casa un
poco più maninconoso ed astratto del solito. E domandandolo io della ragione,
egli, stato un poco sopra di se, alla fine mi disse, che, quand'era uscito di
casa a buon'ora, aveva scontrato un gaglioffo di Russo che veniva di Nemi, dal
quale aveva inteso che il principe, che Dio gli avesse dato il mal dì e il mal
anno, mulinava nella sua malora nuovi viaggi, anzi divisava di correre a
rompicollo in Russia, e ch'egli oggimai, stracco di seguitare un matto, non
aveva messo tempo in mezzo d'andare a Nemi a dichiarargliene, e che essendone
il Tartaro montato in bestia, egli v'era montato più di lui, e gli aveva detto
ch'egli non era schiavo della sua gleba; e che gli aveva allora allora chiesta
licenza; e la copia dell'Aurora, già quasi finita, l'avrebbe consegnata
all'albergatore che gliene mandasse in villa; ma che intanto gli conveniva
uscire incontinente dell'albergo, ed aveva già preso in fitto un bel
quartierino da Sant'Andrea della Valle, assai ben recipiente, e fornito d'ogni
maniera di suppellettile: e che il pane non ci sarebbe mancato: che, la Dio mercè, in due anni ch'egli era dimorato in Roma, s'aveva acquistato di buoni e d'utili
amici; né v'era solo i Russi al mondo che sapessero far la debita stima del suo
pennello.
A queste parole, dettemi con
un'aria di verità che ancora mi fa stupore a pensare, io, che ne avrei dovuta
sentire l'impertinenza, m'infiammai anzi d'un verissimo sdegno contro il non
consapevole Russo. Poscia fui la prima a far fagotto della poca robicciuola
ch'avevamo, con la quale entrati in una carrettella da nolo, tirammo via difilati
a Sant'Andrea della Valle. Quivi fermato a un usciuolo ch'era proprio sulla
piazza, chiamammo un facchino ch'era alla cantonata, e caricatogli il dosso
delle nostre valige, e pagato il nolo al cocchiere, montammo su a un terzo
piano, dove Cammillo, cavatasi una grossa chiave di tasca, aperse un uscio, e
messami dentro una mediocre stanzetta, e fatta scaricare la roba, ne pagò il
viaggio al facchino e gli chiuse l'uscio dietro.
Appresso a quella era un'altra
stanzetta con un letto grande, ed assettatevi le nostre masserizie, Cammillo
uscì, e poco di poi ritornò con una di quelle vive statue di Giunone, che in
Roma domandano minenti, ancora acconce, se non fosse il chierico a partorire
quegli antichi fulmini di guerra. Questa, già prima che Cammillo parlasse, mi
gettò, con quei grandi e veramente italiani occhi che hanno, uno sguardo come
di superiorità; e tosto mi disse:
Voi mi piacete, ci resto:
Come s'ella fosse stata la
padrona ed io la fante che fossi convenuta piacerle. Così intesi ch'ella era
una donna che Cammillo m'aveva condotto acciocché mi ministrasse ne' miei
bisogni, una serva in fine; e già da gran tempo avvezza a' modi inflessibili di
quel popolo, che solo fra tutti i popoli antichi e moderni non si è curvato
innanzi alla sua sventura, non che sdegnarmene, me l'avrei anzi abbracciata e
baciata.
Acconci, dunque, quivi nel modo
che vi ho detto, Cammillo per un grosso mese non mi fiatò solamente del Russo.
Ben mi parlava spessissimo di lavori ch'egli divisava d'imprendere, d'uno
studio che voleva porre, d'un quartiere che gli era stato promesso nel palazzo
Farnese (che ricadde alla corona di Napoli, ed ora vi stanzia l'ambasceria): ed
all'ultimo un dì mi venne con una bella bozza rappresentante il popolo
napoletano che strappava e calpestava l'infame editto, col quale Pietro di
Toledo, di scellerata memoria, tentava di metter su nel regno il nefandissimo
tribunale dell'inquisizione, e dicendomi:
Vedi qui Cesare Mormile; e qui
nobili e popolani che si chiaman fratelli, e giurano il patto dell'unione
contro il comune tiranno.
Concluse che ne voleva fare un
quadro storico. E mi diceva:
Che ti pare, angelo mio? tu
m'accusi di vendere sempre il mio pennello agli oppressori. O non ti par egli
bello di consacrarlo una volta agli oppressi?
E mi guardava negli occhi, e
pareva gioire della mia gioia, che l'esser donna e reietta non mi tolse di
versare un fiume di tenerissime lacrime, qualunque volta lessi sulle tele, o
sulle carte immortali della storia, qualunque protesta del genere umano contro
quegli empi che lo vogliono loro schiavo.
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