XCII.
Era quella stagione in cui è
indarno all'uomo l'essersi renduto certo che l'umana speranza è indarno; in cui
egli si pente d'essersi rassegnato al dolore, e crede d'aver errato nel suo
giudizio, e scambiando il desiderio con la cosa desiderata, osa ricredersi e
rivolere la felicità. E non la trovando nella sua conversazione, dà a quella la
colpa del suo dolore, e spera che, mutandola, sarà felice. E più quella gli
pare immutabile, e più egli se n'adira, e più agogna e fa ogni estrema prova di
mutarla, e la muta. E dopo averla mutata, ritrova non la sperata felicità, ma
un dolore più grande.
Una notte Cammillo non trovò
luogo dalla smania, e carezzandolo io assai più del consueto, e rammentandogli
quello che veramente era, che ormai io era incinta la terza volta di lui, e che
sperava, s'egli mi giurasse alla fine sull'altare quella fede già tante volte
in tante guise giuratami, che Iddio ci sarebbe pio del suo perdono, e ci
vedremmo barcollare sulle ginocchia e per casa un piccolo Cammilletto, egli,
dopo aver fatto come una gran prova di baciarmi con labbra aridissime di noia,
mi respingeva tutto tremante da se, dandomi l'amore per ispiegazione di quel
tremito, che pareva tutt'altro che amoroso.
Io attesi sempre a consolarlo
insino all'aurora, che non mi giunse mai tanto invocata. Mi levai ed apersi la
finestra, donde si scorgeva una striscia del Campidoglio e dell'Esquilie, ed
all'aria contaminata dal chiuso e dalla lucerna della notte, sottentrò un fiato
d'aura odorosa di primavera, d'aura odorosa ancora d'immortalità, e tale, in
fine, quale solo in Roma si respira. Apersi l'altra finestra, che poiché la
stanza faceva canto, non rispondeva sulla piazza, e vidi il sole che si levava
da monte Mario, e poggiando a perpendicolo della cupola di San Pietro, sembrava
come averla in protezione, e quasi godere d'indorarla de' suoi raggi. Ond'io,
già innebriata di tante maraviglie, che pur si scorgevano da uno de' più gretti
angoli di Roma, dissi:
Deh vieni, Cammillo, vieni a
vedere se in tutto il suo eterno giro il sole rischiarò mai cosa più bella di
quella cupola: vedi s'egli non n'è consapevole, e non la contempla come il
padre la sua figliuola prediletta.
Ma Cammillo mi guardò come chi
ha in odio il sole, e non mi rispose; ma, tratto un gran sospiro di noia, si
levò come furioso, e si vestiva dicendo con una certa aria risoluta:
Già t'intesi, Ginevra. Tu già la
cominci con le tue visioni poetiche, che voglion dire, al solito, che essendo
un bel giorno, tu t'annoi di stare a casa, e vuoi essere condotta a spasso. Or
sia con Dio, e véstiti; che per voi altre donne lo stare a casa è come sedere
in sulla bragia.
A villanie cotanto immeritate io
sentii come stagnarmi sul cuore quelle aure allegre che aveva bevute, e divenir
dolore. E mi sentii di repente come un fortore negli occhi, che mi espresse
poche lacrime, ma amarissime. Ma spesso l'uomo perdona per generosità, spesso
per amore, e più spesso per bisogno che ha di non credere tanto reo colui da
cui dipende la vita sua, per non disperarsi della vita. Io gli perdonai per
queste cose tutte insieme, e rasciuttemi le lacrime, mi risolsi, comunque egli
pensasse del fatto mio, di farmi condurre, o, per meglio dire, di condurlo a
spasso, sperando che quelle aure fresche e placidissime di quel beato mattino
dovessero poter calmare il turbamento che mi pareva che fosse ne' suoi nervi, e
quasi annaffiare l'aridità di quella sua noia.
Mi vestii, dunque,
spacciatamente una mia veste bianca, e mi velai il capo d'un velo ancora
bianco, quasi presaga che il giorno che mi sorgeva era giorno di sacrifizio.
S'andò fuori, e Cammillo, per Piazza Madama e per Ripetta, mi condusse nella
Piazza del Popolo. Quivi, contemplato fra i palpiti più inesplicabili
l'antichissimo obelisco che già Augusto dedicò al sole, e poscia fissi un cotal
poco gli occhi, che contra il suo consueto aveva da più dì tutti chiazzati di
sangue, sulla vetta del Pincio, li fermò finalmente come a fatica sopra di me,
senza che gli venisse fatto di raddolcirli, e chiamò a viva forza sulle labbra
un sorriso, che non vi venne; e:
Vogliamo uscirci della porta, e
passeggiare lungo il Tevere?
Mi disse, tornando di subito gli
occhi all'alto del colle, quasi non bastassero a sostenere i miei, che
fisamente lo consideravo. Io, che non ho memoria d'avergli mai disdetto il
menomo de' suoi desiderii, dissi subito di sì, e c'inviammo verso la porta.
Uscendo dalla porta del Popolo
si trova la via Flaminia, ch'è ora la via di Firenze; e questa, a un miglio forse
da Roma, taglia il Tevere con l'antico ponte Milvio, ora volgarmente Molle. A
sinistra di questa via scorre il bruno fiume, fra mille gorghi e rigiri; né mai
vidi niuna cosa terrena così vivamente rappresentarmi a un tempo la vita e
l'eternità. Torbido sempre ed agitato, e quasi ritornando di continuo in se
medesimo, rappresenta la vana ed inutile agitazione dei mortali; e fra tanta
agitazione e tanto ritornare in se stesso, pure corre di continuo al mare e mai
non s'arresta, e pure rappresenta l'immortalità. Fra la via e il fiume è alcuni
rialti tutti piantati a vigne, che pur lasciano in sull'estrema ripa un fresco
ed erboso prato, che dà la via insino al ponte a molti buoi e bufali che per
l'ordinario vi traggono a pascolare, ed a qualche Italiano che quivi viene a
nascondersi dall'insopportabile dolore che gli è il corvo roteante intorno alla
colonna Traiana.
Quivi ci conducemmo noi per un
viottolo a sinistra della porta; ed era il prato silenzioso e deserto, e non
s'udiva un fiato, se non che il fiume mormorava, e qualche bufalo che pasceva,
o giacendo a muso in su parea quasi contemplare stupido la natura, a quando a
quando muggiva. Eravamo, io credo, tanto allontanati dalla città, quanto
rimaneva a pervenire al ponte, allorché Cammillo, al quale ingrossandosegli
convulsivamente il fiato, io dissi baciandolo:
Càlmati, angeletto mio, non mi
far morire:
Fattosi negli occhi come chi è
uscito del senno, mi traboccò d'un calcio nel fiume.
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