XCVIII.
Io vi dirò prima ciò che seppi
dappoi, acciocché non vi sia oscuro l'ultimo avvenimento che m'avanza a
narrarvi.
Un brigante di Sonnino aveva
guerreggiato quarant'anni con l'esercito romano, e n'era stato sempre
vittorioso. Il santo padre gli aveva assai volte profferto generosamente
cinquanta colonnati il mese, ed egli si levasse dalla strada; ma il brigante
non era stato contento, perché dicea che la strada gli era un'entrata assai più
grossa. E nondimento un dì, non fu già vinto, ma colto in un agguato, e cento
carabinieri e mille soldati avevano ancora paura mentre lo trascinavano
ammanettato a Castel Sant'Angelo. Ma quegli una notte, fatto delle sue lenzuola
una lunga corda, si calò, novello Benvenuto, dal torrione, e disarmata per
istrazio la sentinella del muro, fece, dopo averla schiaffeggiata, una lenta e
minacciosa partenza.
Il dì seguente andò tutta Roma
in iscompiglio, e si mosse l'esercito e l'armata; ed essendo andato il grido ch'egli
si fosse recuperato nella foresta ove noi eravamo, ed eccola inondata da molte
migliaia dè soldati. Questi, o fosse zelo o paura, s'avvolsero più e più di per
quante latebre e recessi v'aveva più reconditi; ed alla fine un viluppo di
carabinieri, schieratisi in ordinanza di guerra, sollevarono tremando la
forcatella della nostra grotta, e divennero il coraggio stesso, quando in vece
del terribile ladrone, trovarono due pie ed innocenti religiose, ed un cervo
tutto domestico, ch'esse educavano e nutrivano delle loro mani.
Dov'è il brigante?... ci
domandaron tutti con fiera voce. E poiché noi, tutte smarrite nel volto e nella
favella, rispondevamo come chi sogna d'essere all'inferno, ed ecco andar
sossopra quant'era d'uso umano nella grotta, e per valentía ucciso il cervo.
Frugaron dappertutto quei
bellicosi, e visto in un cantoncello il terreno smosso, s'ebbero l'oro, e
saltavano d'allegrezza; e non dubitando più che noi non fossimo due segretarie
del ladro, ci condussero a Castel Sant'Angelo ammanettate.
Quivi un grosso carabiniere
volea esaminarci coi tormenti, e già le nostre protestazioni e le nostre
lacrime erano tutte indarno: Ma e il ladrone fu quel dì medesimo saputo a
Frosinone, e noi, col testimonio ancora della fidata minente, ci demmo in fine
a conoscere per quelle ch'eravamo, Teodolinda in tutto, ed io da Cammillo in
su, che ben mi guardai di profferir solo il nome di Nunziata.
Allora l'ambasciatore di sua
maestà sarda, e l'ambasciatore di sua maestà siciliana, tennero fra loro un
congresso, e distesero un protocollo; e, come per modo di confiscazione, divisi
fra loro i marenghini amichevolmente per metà, e noi dichiarate vagabonde, ci
fecero condurre entrambe fra i carabinieri a Civitavecchia, dove Teodolinda fu
fatta entrare a buona guardia in una feluca carica di doghe che n'andava a
Genova, ed io in una carica di carboni a guardia della ciurma. Dalla quale non
fui appena esposta sulla marina napoletana, che una mano di birri mi
condussero, come orfana e povera, a questo convento.
Lettera
del signor di
Blumenfield all'Editore
Per una congiuntura non troppo comune m'è venuto alle
mani il manoscritto che v'includo, il quale mi pare degno d'essere pubblicato,
perché potrebbe contribuire in qualche modo a rivolgere la mente degli uomini,
massimo de' potenti, alla oscure tribolazioni dei poverelli.
Permettetemi di non essere
dell'opinione del vostro maggior poeta:
Che
l'animo di quel ch'ode non posa,
Ne
ferma fede per esempio ch'aia
La
sua radice incognita e nascosa,
Né
per altro argomento che non paia
Anzi, col rispetto debito a un
tanto uomo, io credo che se l'animo di colui che ode non si ferma alle sventure
dei poveri, bisogna ch'egli sia assai scellerato, e sia indegno di compatire
alle sventure de' poveri e de' non poveri.
Guardate un re caduto dal trono.
S'egli è ucciso, cessa la disputa, perché la morte annulla tutto, ed è comune a
tutti, e tutti agguaglia; né può essere oggetto di paragone. Se non è ucciso,
pigliate qualunque meno infelice della gente minuta, e vi parrà che il re caduto
è felicissimo a petto a quello. Ora io domando, perché tutta la compassione,
tutti gli affetti de' cuori ben nati, tutte le lacrime degli uomini e delle
donne, debbono essere concesse al re caduto, e non a colui che nacque
miserabile, cioè al meno infelice e non al più. O anche la compassione è
schiava?
Ma lasciamo questa questione. Io credo che se i poveri
non si corrompessero nelle loro sventure, e sapessero serbare un animo grande,
e descrivere i mali loro, l'ultimo dei mendicanti potrebbe aggiungere qualche
articolo sconosciuto alla storia delle sventure umane.
Io ho voltato in tedesco questo
manoscritto, ed ho in animo di pubblicarlo al mio ritorno a Berlino, dove
riuscirà più originale che qui, per le descrizioni che vi si trovano di alcuni
vostri costumi nazionali, molto diversi dai nostri, e, perdonatemi, molto
strani.
Non per tanto, ho voluto farvi
dono del manoscritto originale, perché mi piacerebbe che lo pubblicaste così
com'egli fu scritto dall'infelice donzella di cui contiene la vita; e perché vi
assicuro che mi sono assai affezionato alla memoria di questa misera Ginevra, e
vorrei che le sue sventure fossero conosciute da tutto il mondo.
Come mi sia pervenuto alle mani
il manoscritto, lo potete vedere dalla copia del preambolo che ho scritto per
la mia versione. State sano. Di Firenze al dì 1 di ottobre MDCCCXXXV.
Preambolo
del signor di
Blumenfield alla sua versione
Tradotto dal tedesco
Durante la mia breve dimora in
Napoli, passeggiavo un giorno su per il ponte della Sanità, e volgevo lentamente
gli occhi di qua e di là, contemplando la lunga collina, che, diramandosi da
monti lontani, va a terminare nella vetta, più tosto arcigna, di San Martino.
Guardando in giù da sinistra, fermai l'occhio sul convento di San Gennaro detto
dei Poveri, la cui facciata sembra a un tratto come se combaciasse col monte e
il convento fosse incavato in quello. Questa immagine mi rammentò le catacombe
ch'ivi sono, e ch'io, quando molto giovanetto venni in quella città con mia
madre, ch'era al seguito di Maria Carolina d'Austria, aveva più tosto vedute
che considerate: in quell'età, in cui tutto, anche un sepolcro, ride al nostro
sguardo. Poi, seguìta la morte di mia madre e i sanguinosi rivolgimenti di quel
miserabile paese, degno certamente di una sorte migliore, perché nessuna
nazione è degna d'essere infelice, la mia buona o rea fortuna mi menò assai di
lungi, E vidi molte cose, e fra queste alcune grandissime: ed alcune dalle
quali s'impara a vivere, per virtù magica del pensiero, in altre età con altri popoli.
Dai quali ritornando a questi moderni, e pure avendo in su gli occhi avanzi
giganteschi della rovina di quelli, pare per un istante che ti si sveli il
mistero dell'essere universale, e come qualunque cosa più grande non dura. Ed
allora l'uomo si lamenta meno che le ridenti promesse della prima età siano
seguite da uno sconsolato lutto.
Mi ricorse al pensiero la
memoria delle catacombe di San Sebastiano a Roma, e mille altre fantasie
somiglianti, che mi profondarono in una malinconica contemplazione di quello
che non è più; e scendendo per lo sghembo ch'è a sinistra del ponte, m'avviai
verso il convento.
Giunto a un lungo vestibolo o
adito di esso, un vecchio alto e sparuto, tutto vestito di panno turchino, con
un mantello anche turchino indosso, mi disse:
Signore, vuol ella vedere le
catacombe?
Io gli risposi di sì.
Avviatevi dunque nella chiesa,
mi disse; e disparve in uno degli usciolini che davano nel vestibolo. Io,
camminando verso la porta della chiesa, guardava da un lato e dall'altro, e
vidi due altissime muraglie che parevano appartenere ad uno o a più conventi di
religiose, con le grate di legno ai finestrucoli, e con tutto l'apparato delle
sepolture dei vivi. Giunsi alla chiesa, nella quale appena entrato, dovetti
riuscire, per un orribile lezzo di cadaveri che mi offese le narici; ed andai
considerando la stoltezza di questo costume di seppellire i morti in città,
massime nei climi meridionali, dove la corruzione è sì subita e sì pestifera; e
quante contagioni e quante pesti sursero da quelle sepolture, e sorgeranno
ancora, se il disinganno di coloro, ai quali la fortuna pose in mano il freno
di quelle contrade, non soccorra al bisogno6. Bene sta che, dopo la
morte, gli avanzi dell'uomo riposino in terra benedetta. Ma uno spruzzo d'acqua
e qualche santa parola, possono rendere benedetta ogni terra.
Giunse quel vecchio con un lungo
torchio di pece in mano, e lo seguitava un altr'uomo poco più giovane, Questi
aveva un vestito bigio ed un berretto anche bigio in testa, e per un fil di
ferro reggeva una grossa lampana accesa. Il vecchio, dicendo:
La venga qua:
Aprì con una grossa chiave un
cancello di legno a mano manca della chiesa, dove entrato, l'altro gli entrò
appresso, ed io dopo entrambi. Mi ritrovai in una sorta di chiesuola. A sinistra
vidi un piccolo altare assai rozzo, dedicato a Gesù deposto dalla croce.
Rimpetto dove eravamo entrati, era un altro uscio, dal quale non so s'io debba
dire si usciva o s'entrava in una stretta piazzetta, alla quale sovrastava a
perpendicolo la montagna. In questa si vedevano le bocche di tre grandi grotte
o spelonche, per la prima delle quali, dopo che il vecchio ebbe acceso il
torchio alla lampana, ci mettemmo camminando. C'insinuammo tanto in quella, che
la luce del dì ci abbandonò del tutto. Al pallido lume del torchio e della
lampana, io vedeva di qua e di là infinite nicchie o buche, tutte incavate,
come la grotta, nel monte, e parea chiaro ch'erano sepolcri. In molti luoghi
della parete, e di alcuni coperchi trasversali, non interamente rotti, dei sepolcri,
si vedevano quando pitture cristiane e quando pagane: e spesso sopra un
intonico si vedeva un altro, e nel primo erano figure pagane, e nel secondo
cristiane.
Giungemmo a una chiesetta col
suo altare e la sua sedia vescovile lavorata nel masso. Volgemmo a mano ritta,
dove trovammo assai grotte e corridoi, tutti scarpellati a buche. In mezzo a
questi era un altro tempietto, Questo si vedeva essere stato un dì dedicato a
riti oscenissimi, che la fede novella annullò.
L'uomo ch'avea la lampana lasciò
andare un razzo, che montò su a una altezza inestimabile, finché si spense
senza mai fermarsi. Quasi mi pareva non essere più sotterra, se non che l'ora
del giorno, ch'era il mezzodì, ed il buio ch'ivi era, me ne avvertivano. Ma i
due vegliardi mi dissero che il cielo del tempietto saliva tanto nell'altezza
del monte, che mai nessun razzo non era potuto pervenirvi acceso. Quivi, oltre
quelli ond'era stato già sgombero, erano infiniti ossami e teschi umani, tutti
mescolati a un cenere nericcio. È tradizione che quel gran baratro abbia avuta
un dì un'apertura alla superficie del monte, e che da quell'apertura fossero
mandati giù a migliaia i cadaveri umani nei tempi delle varie pestilenze onde
fu afflitta quella città. L'aria di quelle tombe è sì morta, che ancora, dopo
più secoli, non si è al tutto volatilizzato il carbonio che avanzò dalla
putrefazione della carne! In molte parti del pavimento sul quale camminavamo,
si vedeano fori o spiragli che rivelavano esservi stato sotto un altro ordine
di corridoi simile a quello che percorrevamo, ora interamente colmo d'ossa e di
teschi.
Ritornammo indietro; e prima che
s'uscisse alla luce del dì, per un uscio ed alcuni scalini tagliati nella rupe,
fummo all'ordine superiore de' corridoi, ch'era già terzo, ora è secondo. Quivi
si vede una basilica intera cavata nel macigno. Nel mezzo due colonne egizie,
che sono un masso continuo con lo stesso monte, distinguono le navate. Indi si
passa in un immenso corridoio, e da questo in altri e poi in altri, in alcuni
dei quali si vede il principio di molte vie sotterranee, le quali è fama che
riuscissero in lontane città: ma ora sono tutte richiuse e colme da rottami di
fabbriche stativi gittati, nel processo dei secoli, per gli antichi spiracoli
onde ricevevano qualche raggio di luce.
In questi corridoi non solo sono
nicchie di qua e di là, ma ancora, a piccole distanze, sono come tante
cappelline, anche piene intorno intorno di sepolcri, Ancora in queste si vedono
dipinture ora cristiane ed ora gentili, e mi ricordo che allato a un san Pietro
v'è alcuni adoratori di Venere di ambo i sessi, che vengono all'ara della dea a
offerirle e ghirlande di rose ed altri segni vie meno dubbi della loro
divozione.
Tornando indietro, riuscimmo per
un nuovo sentiero a un tempietto disotterrato di corto, dove è la stessa
mistione di cristiano e di gentile: Ed avvicinandoci alla luce, questa si
rifletteva in sì strane guise pe' vari intoppi che le si opponevano, che io
desiderai d'essere pittore per ritrarle tutte. Ma quando, appressandomi, la luce
divenne troppo viva, allora mi accorsi ch'io aveva interamente dimenticato il
mondo e me stesso in quell'ora che avevo passato sotterra. Sentii come è amaro
il ritorno della vita a coloro che l'hanno un istante dimenticata; e mi parve
comprendere perché così spesso il ritorno del sole sull'orizzonte mi sforzi,
per qualche istante, alle lacrime. Mi parve dalle stanze dei morti arrivare a
quelle de' vivi, e non me ne rallegrai, quando, uscito del tempietto, mi
ritrovai sulla piazzetta, alla bocca dell'ultima delle tre spelonche che
dinanzi mi erano apparse.
A diritta dell'entrata di questa
spelonca era una lapida greca trovata novellamente nel tempietto. Questa
annunziava di aver chiuso il corpo d'una giovane morta di quattordici anni e
tre giorni. Ed io cominciai a fantasticare: Oh! chi sa quanto era bella questa
giovane! Oh! chi sa quanti desiderii, quante speranze ricoperse questo sasso! E
così fantasticando, rientrai con quei due vecchi nella schiesicciuola.
Quegli che avea la lampana, la
spense e andò via. Ed io guardando da quel lato rimpetto l'altare, dove non
avevo volti gli occhi la prima volta, in vece di un muro come immaginavo, vidi
uno squallido cancello di legno, donde si vedeva una lunga fuga di stanze
sotterranee. Queste erano tutte ingombere di terra dall'un lato e dall'altro,
sì che appena vi rimaneva un viottolo che le segava tutte per mezzo. La terra
si alzava di qua e di là come in tanti monticelli. Domandai il vecchio ch'era
rimasto, che ciò fosse. Mi rispose, ch'era il cimitero del convento.
Uno di quei monticelli pareva
essere stato smosso di fresco. Mi venne curiosità di domandare chi vi fosse
stata seppellita.
Oh Dio! mi rispose il vecchio,
percotendosi la fronte con la mano, sono appena tre dì che vi è stata
seppellita la più bella creatura che la natura abbia mai formata. Oh signore se
voi sapeste... E quasi si affacciavano le lacrime su quegli occhi spenti, nei
quali pareva esserne stata secca per sempre la fronte.
Furono molte le parole da una
parte e da altra. Alla fine, fra molti sospiri e molte reticenze del vecchio,
intesi che quella terra ricopriva le reliquie d'una bella giovane, di cui la
vita misera e tempestosissima era stata scritta da se medesima per confidarla a
un confessore, e che il manoscritto, trovato nella cella della giovane, era
posseduto da quel vegliardo. Entrai in una infinita curiosità di leggerlo, e ne
offersi al vecchio tal somma, alla quale quel miserabile non seppe resistere; e
mi diede il manoscritto, benché se ne staccasse con gran dolore, e lo bagnasse
alla fine delle sue lacrime nel consegnarmelo.
Lo lessi, e mi parve che fosse
degno di essere conosciuto dagli uomini; che non sogliono essere tardi a
piangere sulla sorte dello sventurato, quando la morte di quello gli ha tolti
da ogni pericolo di doverlo soccorrere.
Codice de'
delitti e delle trasgressioni politiche. Edizione ufficiale. Venezia. Per
Giovan Pietro Pinelli, stampatore Imperiale Regio. 1815. Articoli 20 e 27.
(Nota dell'Editore).
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