IX.
Ritornatomi nella mente l'ordine
de' miei pensieri, sospeso dalla pressione ch'io aveva sofferta al cervello,
diedi le più amare lacrime al cane, perché udii, o mi parve almeno, che il
popolo sulla via, strascinandolo, gridasse sollazzevolmente: È morto. Dal dì
ch'egli mi aveva posto amore, io aveva provato per la prima volta della mia
vita il dolcissimo sentimento della compagnia. Poiché una creatura vivente, un
abitatore, come me, di questa lacrimevole valle, mi amava, prendeva cura di
ogni istante della mia giornata, vegliava i miei sonni e preferiva la mia alla
propria sua conservazione, io non poteva chiamarmi più né sola né infelice
nell'universo.
Quando sentii d'averlo perduto,
il sentimento spaventevole della solitudine m'occupò tutto il cuore, e mi lasciò
di ghiaccio. La vista di quei chiusi e tetri corridoi, dove ignara di tutto
l'essere mio e di me stessa, io aveva bevuto il primo sorso alla tazza amara
della vita, la memoria dell'inedia, del freddo e delle prime lacrime, onde mi
era stato rivelato il mio essere, e quel non so che di profondamente lugubre,
ch'è sempre proprio di tutte le grandi comunità, mi gettarono nella più
disperata tristezza. Allora non mi tornava più alla mente lo strame, o il
tugurio, o l'umidità, o il buio, o le spietate percosse di quella strega, ma le
ore tepide e serene del pino, e l'aura odorata e fresca, e l'ineffabile
dolcezza de' miei sonni meridiani. O padre, come presto impara l'uomo a
fabbricare la propria infelicità!
La monaca che mi aveva raccolta
dalla buca, mi condusse per mano adagio adagio per molti corridoi, dove io
camminava quasi brancolando, sentendomi ad ogni passo mancare. Giungemmo
finalmente a un corridoio largo assai e di sterminata lunghezza, che udii
chiamare, la sala grande. Oh Dio pietoso! qual aria, o più tosto quale peste,
si respirava là dentro. Ogni volta che la necessità della natura mi costringeva
ad inghiottire di quell'aria, io sentiva scendermi per la gola e per il petto
non so che di acre e di velenoso, che mi parea ch'andasse dritto al cuore per
uccidermi; e sentivo come approssimarsi la morte, e mi gocciolava dalla fronte
un sudore gelato. Ma a poco a poco il senso vi si ausò. Riavutami appena, volsi
gli occhi intorno, e vidi da ambo i lati non so quante centinaia di meschini e
squallidi letticciuoli, coperti tutti d'un pannicello giallo di canape grossa.
Sopra ognuno di questi era una donna con tre bambini, brutti per lo più e
malaticci, perché i belli li prende quasi tutti la gente di fuori, chi per
divozione, chi per l'utile fine della donna di Sant'Anastasia e chi per altro.
Le donne rotolavano i bambini su pe' lettucci o su per le spalle e le cosce
loro, a guisa di pallottole: e le più, in luogo di farli poppare, inforcavano
loro la bocca con le dita per non udirli piangere. Assai altre donne giravano
per la sala, con bambini un poco più grandicelli; chi ne strascinava due, chi
tre per la mano, di così mala grazia, che ancora mi fa sdegno a pensarlo.
Qualcuna si portava un bimbo in braccio, e lo baciava con tenerezza materna;
perché non è nuovo il caso che qualche infelice donzella, dopo avere nascosto
in quella buca il tenero frutto d'alcun suo errore, corra poscia, spinta dalla
miseria o dall'amore infinito di madre, a presentarsi alla Casa come nutrice, e
conscia ella sola del suo mistero, porga al fanciullino quel latte medesimo che
già la natura gli aveva destinato. Oh! forse quel fanciullino sente su quel
seno una pace, che mai nel seno di nessun'altra donna non avrebbe sentita!
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