XII.
Poscia che fummo nella sala
grande, suora Amalia mi condusse ad uno di quei letticciuoli, sul quale era
laidamente sdraiata una di quelle donnacce con tre bambini al petto, e le disse:
Caterina, questa bimba è
consegnata a voi. Prendetene cura.
E lasciatami presso al
letticello, ne andò al suo posto in fondo al corridoio.
In tal modo io rimasi quinta
dormitrice o più tosto abitatrice di quel lettuccio, perché altrove non mi era
presso che mai conceduto di tramutarmi: e quando la nutrice andava al
refettorio delle balie o altrove, mi ammoniva con terribili minacce ch'io non
mi movessi di dove ero. A mezzodì e la sera la donna mi dava un piccolo
piattello dove era una poca di pappa di pane bruno cotto nell'acqua pura; e la
sera alle ventiquattro un piattellino ancora più piccino della medesima
vivanda. Quello era il mio pranzo e questo la mia cena. Ebbi una sorta di
cencio di tela di canape grossa turchiniccia; ed era il mio vestimento. Passavo
i lunghi giorni senza far nulla; e la notte non potevo dormire, perché proprio
non v'era posto per me sopra il lettuccio; né fu una sola quella notte che o da
me stessa, per essere in sull'estrema sponda, o per un qualche calcio della
balia, io cadeva per terra, e mi era assai meno penoso di rimanermi sola colà,
che di rimontare sul letto, dove non sarei potuta entrare, e, potendo, mi sarei
esposta a un nuovo calcio.
Giorno e notte si udiva
rimbombare nelle immense volte della sala una specie di rauco muggito, che ad
ora ad ora cresceva tanto, che pareva che le volte allora allora si aprissero e
dessero la via al fragorio ed al tuono d'una gran tempesta. Queste eran le
balie che cullavano i bambini, dimenando con tanta furia le culle in su gli
arcioni, che alla fine quei miserelli, storcendo gli occhi e tutti allividendo
nel viso, erano compresi d'una sorta di apoplessia al cervello, che le balie
interpretavano per sonno. Né contente a ciò, finché gli occhi di quei meschini
non si fossero interamente chiusi a quel violento letargo, intonavano, o più
tosto intronavano loro negli orecchi una maniera di goffissima canzona a canto
fermo, che, per somiglianza forse delle nenie sepolcrali degli antichi,
chiamano chi nanna e chi nonna; ed accrescevano lo spaventoso tumulto.
L'aspetto della continua
mortalità che regna in quelle sale percoteva incredibilmente la mia infantile
immaginativa. Troppo lungamente bisogna vivere all'uomo, perch'egli si avvezzi
allo stupendo fenomeno di vedersi disteso dinanzi il suo simile, che poco prima
viveva e ragionava con lui, e un momento di poi più non si muove e non
risponde; e pure nulla in lui è cangiato! Io udiva dire dalle balie e
dall'altra gente del luogo, che tremila bambini in circa sono gittati nella
buca in un anno; e nell'ospizio intero non sono mai più di settecento i viventi
fra grandi e piccoli. Immaginate, o padre, quanti bambini mi dovevano ora
agonizzare, ora morire accanto: e quanti piccoli cadaveri, e talvolta anche
grandicelli, dovevano di giorno e di notte passarmi dinanzi; di giorno, a una
luce così fosca e sinistra, che quasi non pareva più quella del sole; e di
notte, a quella anche più sinistra delle poche lampade che a grandi distanze
illuminavano malinconicamente quella sala.
La onde mi sovviene che, non
potendo né notte né giorno riposare, per lo stridore delle balie e lo spavento
della morte, che pareva non restasse mai di girare intorno intorno con la sua
falce, morendo del freddo in quel gran vano di quella sala, avendo i nervi
turbati dalla vigilia, dall'inedia e dall'aria pestilenziale che quivi si
respirava, né potendo, in alcuna operazione o materiale o mentale, spendere
quella virtù attiva che il Creatore ha posto in tutto l'essere nostro per la
propria nostra conservazione e che, quando non abbia dove rivolgersi, si
rivolge contro a noi stessi e ci uccide, mi sovviene ch'io fui assalita da una
smania, da un fastidio di me stessa, da un tedio così intenso della luce, del
sentire e di qualunque cosa, in fine, rappresenta la vita, che le mie parole non
possono mai bastare ad esprimere. Stetti sei mesi come una piccola energumena;
troncandomi spesso a brano a brano le carni: e più d'una volta le balie
giudicarono, nelle loro grossolane menti, ch'io avessi addosso il mal della
rabbia, e andavano considerando come ciò fosse potuto essere, e se convenisse,
per loro salute, di soffocarmi così di nascoso. E solo il vedermi non
abborrire, anzi ardentissimamente desiderare, un boccaletto di acqua fresca, le
ratteneva dal recare ad atto la loro crudeltà. Alla fine perdetti le forze, e
mi avvezzai alla necessità di quella vita, come il galeotto si avvezza al remo
ed alla catena, e gl'Italiani chiusi nel carcere detto durissimo, alle tenebre,
al digiuno perfetto di pane e d'acqua, ad avere mani piedi e stomaco sempre
stretti fra grossi cerchi di ferro e ad essere regolarmente
flagellati1.
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