XV.
La casa di don Gennaro Volpe, capocuoco
del principe di San Marcello, era composta di due stanze e d'una cucinuzza. La
prima della due stanze, ch'era quella ove s'entrava dall'uscio di scala, era
mediocremente grandicella; e v'erano tre rozzi letti, uno più tosto larghetto,
gli altri due piccini. Da questa si passava nella seconda stanza, che era assai
bene angusta. Quivi era un letto di sterminata grandezza, ch'era il talamo di
donna Mariantonia; e accantogli era un lettino piccoletto. Appresso veniva la
cucina, ch'era strettissima, tutta ingombra di ruvidi vasi di terra da riporre
acqua, col pozzo, col lavatoio, con l'acquaio e col focolare, ed accanto al
focolare un puzzolentissimo cesso, secondo il savio costume di questa città.
Quivi vicino al cesso era un piccolo pagliericcio per terra, la cui federa,
ch'era d'accia grossissima, serbava ancora i segni d'essere stata un dì sottana
di donna Mariantonia.
Costei, rivoltami per la prima
volta la parola da che s'era partiti dall'ospizio, disse:
Ecco Ginevrina, quivi dormirai
tu; e m'additò il sacconcello. Ora viemmi a spazzare le stanze.
Così dicendo rientrò nella sua
stanza, dove don Gennaro si accomiatò da lei e da don Gaetano; perché, com'egli
diceva, era ben tardi, e gli conveniva andare in mercato a provvedere da
desinare al suo padrone.
Donna Mariantonia restò sola in
istanza con don Gaetano ed io mi accorsi che fra don Gaetano e lei era la più
perfetta dimestichezza. Ma, bench'io fossi bambina, il mio stupore fu grande,
quando vidi che don Gaetano spogliandosi il suo vestone e la giubba ed altri
suoi arnesi, si sdraiò sul lettuccio accosto al letto nuziale, e che compresi
ch'egli dormiva quivi.
Adunque, padre mio, don Gennaro
era un cuoco; donna Mariantonia era sua moglie, chiamata da' suoi vicini, la
coca; don Gaetano era uno studente di Catanzaro venuto con la pensione paterna
di sei ducati il mese a studiare a Napoli in diritto a fine di tirarsi su per
procuratore, e stava a dozzina in casa il cuoco, anzi nella propria stanza dove
quegli dormiva con la moglie, a pochissimo prezzo, per il gran bene che donna
Mariantonia gli voleva in grazia delle sue buone qualità. Donna Mariantonia
faceva exprofesso il mestiere di tenere a dozzina studenti; e sette altri
studenti, che a quell'ora erano fuori a studio, abitavano nella prima stanza, dormendo,
com'è il costume di simile condizione di gente, tre nel letto più grande, e due
in ognuno de' due letticciuoli piccini.
Donna Mariantonia e don Gennaro,
per non ispendere danari in una fante che servisse tanta gente, avevano
divisato di prendersi una fanciulla della Madonna e adoperarla ai più faticosi
e vili servigi della casa; avevano desiderato che la fanciulla fosse di età
tenera per poterla meglio educare alla loro sferza; ed era stato consentimento
di destino che la scelta cadesse sopra di me.
Ora eccomi divenuta serva di
otto studenti, d'un cuoco e d'una bagascia di sua moglie, che avendo in sul
sangue dei miserabili messo da parte alcun danaruzzo, voleva fare la pulita.
Qui termina la mia infanzia, e comincia la mia adolescenza, e un nuovo ordine,
forse assai più orrendo che il primo, di stenti e di sventure.
Presa la granata, io non sapeva
da qual camera cominciarmi a spazzare, né verso qual parte ammonticellare
l'immondezza; onde, per chiarirmene, dissi:
Ditemi, donna Mariantò...
A questa sillaba la donna mi si
caccia addosso come una furia, e dandomi un rovinoso ceffone:
Che cos'è, mi disse, questa
donna Mariantonia... brutta bestia di bastardaccia... Così si parla alla
padrona, eh?... O credi tu ch'io sia qualche lazzara o figliuola di lazzara,
quale sei tu, che tu mi chiami per nome?...
E vedendomi così brancolare un
momento, dopo il ceffone:
To', guarda brutta sciancata! Sì
davvero ch'io ho fatta la bella scelta!... brutta fetente...
E mi diede un secondo ceffone,
dal quale mi convenne stramazzare.
Io feci un grande sforzo per
rilevarmi, né piansi, perché non v'era più lacrime. Ma traendo un profondo
sospiro dal petto già troppo presto stanco di soffrire:
Ora mi dica ella medesima come
le ho a dire, risposi, ed io così le dirò.
Voltati! disse la donna alquanto
più rimessa: padrona, signora... coteste le son cose che né anche si domandano.
Io le diedi di signora; e così
ebbi ordine di farmi dalla cucina, e continuando per le due camere, spazzassi
ben bene anche le quattordici scale, e i quattordici pianerottoli, e la piccola
corte giù all'uscio da via, e cacciassi e ammucchiassi l'immondizia sulla
strada; acciocché il signorino e i signorini (erano il cuoco e gli studenti),
tornando a desinare, trovassero tutto netto e pulito.
Poscia ch'io ebbi eseguito
l'ordine della signora, ella mi disse che l'acqua che s'attingeva dal pozzo era
troppo sudicia, che però era mestieri ch'io andassi per essa alla vicina fonte
Capuana, accosto, come sapete, all'antico castel Capuano. E mostrandomi due
secchioni ch'erano presso al pozzo in cucina:
Togli quei due secchioni, mi
disse, e vanne con essi alla fonte a empirli d'acqua; e tornando li verserai in
quella prima conca; e così adagino adagino, riandando e ritornando, ne compirai
tutt'e tre quelle conche; che non meno d'acqua ci bisogna qui per tanti che
siamo. Io sono nata pulita e pulita voglio morire. Starei sempre nell'acqua
come i pesci.
Ciascuna delle tre enormi conche
o vasi di terra ch'ella mi aveva mostrati, conteneva come ne feci l'esperienza,
circa a sette di quei secchioni, di maniera che, come intendete, mi conveniva
andare almeno dieci volte il dì alla fonte, e dieci volte rivenirne coi
secchioni pieni e portarli entrambi al settimo piano. Mi avviai la prima volta,
e forse perché la Madonna mi prestò le forze, potetti i due secchioni voti fino
alla fonte. Ma quando gli ebbi riempiti, io mi accorsi che a grandissima fatica
ne potevo uno. Allora tutta smarrita e tolta di me, cominciai a percuotermi le
guance e la fronte ed a stracciarmi i capelli, considerando lo strazio che
avrebbe fatto di me donna Mariantonia, s'io le fossi tornata con una sola
secchia.
Erano di qua e di là dalla fonte
sei grandi ricettacoli d'acqua, tre da una parte e tre dall'altra, lunghesso il
parapetto dei quali erano assai donne a lavare. Io, percorse ch'io l'ebbi tutte
con lo sguardo, tolsi di mira quella che mi parve aver cera più umana, ed
accostatamele, le significai, piangendo, il caso mio, pregandola per se mai
aveva qualche piccola figliuola, per l'amore che portava a santa Caterina, la
cui chiesa era colà rimpetto, di volermi aiutare per quella sola volta a
portare una di quelle secchie fino a una casa presso alla chiesa di San
Giovanni a Carbonara; che così mi avrebbe salvata dai più crudeli tormenti, ed
il Signore gliene avrebbe riprovveduto in cielo.
Oh Dio! com'è feroce l'uomo!
Questa donna, che pareva umanissima fra tutte le altre, mi si volse con un
piglio così disumano, che a un tratto io temetti di peggio e m'arretrai:
To', non volevo far altro!, mi
rispose. Odi malizia per non faticare.
E levando incredibilmente la
voce, talché trasse sopra di me gli sguardi di tutta la gente:
Fatica, fatica, mi gridava in
capo quanto n'avea nella gola. Come fate presto ad assuefarvi a non volere far
nulla. Grande scioperatucciaccia che tu déi essere.
In un istante fu un gran cerchio
di minuta gente intorno a noi, corsa come a un caso gravissimo. S'io non mi
morii dalla vergogna, certo non fu cosa naturale, ma ordinamento del cielo, che
mi serbava a maggiori sciagure. Tutti, come sapete che si costuma qui in simili
casi, ci vollero giudicare. Chi diede ragione alla donna e chi a me, bench'io
non profferissi sillaba in mia difesa e stessi come una trasognata; ma nessuno
s'offerì d'aiutarmi in quello scambio. Solo un farinaiólo, grasso e grosso, con
una immensa pancia ed un enorme naso, accorso anch'egli d'una botteguccia
ch'era colà presso, ebbe qualche pietà di me, e portando una delle due secchie
nella sua botteghetta, tutta mi venne riconfortando, dicendo ch'io fossi andata
pure felice con una sola, e, lasciata quella a casa, fossi tornata per l'altra,
ch'egli me l'avrebbe custodita sicuramente.
Così me n'andai con un
secchione, che appena potevo con ambo le braccia, non senza essere spettacolo a
molti lazzaroni sfaccendati per un gran tratto della via Carbonara.
Io non so come feci a reggere
quel peso per le scale. Ad ogni scalino ero costretta di fermarmi, e prendere
un poco di fiato per rimontare l'altro. Giunta al penultimo pianerottolo, vidi donna
Mariantonia, che fattasi in capo della scala, cominciava a garrirmi della mia
tardanza:
Credevo che ti fossi annegata
nella fonte, brutta carogna...
Eterno Dio! Qual fulmine, quale
Vesuvio scoppiò mai con tanta tempesta, con quanta si precipitò colei per la
scala, tosto che s'avvide ch'io tornava con sola una secchia. Senza darmi il
tempo di aprire solamente le labbra, ella mi assalì con tanti pugni alle
tempie, con tanti calci sul petto e sullo stomaco e con sì nefande bestemmie,
ch'io caddi per terra come morta.
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