XVII.
Pare che l'aspetto del
commessario avesse intenerito di molto il cuore di donna Mariantonia, e
mansuefatto i suoi costumi. Mentre si tornava a casa, ella non si vendicò sopra
di me degli aspri colpi, di cui sentiva dolersi per tutta la persona; ma si
contentò solamente di avvertirmi che da indi innanzi, poiché io non ero buona
da portare due de' secchioni in una volta, ne avrei portato un solo; ma sarei
tornata non dieci ma sì venti volte il dì alla fontana, dieci la mattina e
dieci la sera.
S'arrivò a casa, dove s'erano
già ridotti gli altri sette signorini ovvero studenti; e facevano un
grandissimo baccano per le due stanze. Si tiravano sul muso l'un l'altro alcuni
sudicissimi libri ch'erano presso che tutti per terra, e formavano la
biblioteca di queste future speranze della patria. Si ghermivano per il naso,
si strappavano le camice, si bisticciavano e proverbiavano insieme con le più
villane vituperazioni; e se non ch'io vidi donna Mariantonia sorridere a quelle
loro svenevolezze, io avrei creduto ch'eglino s'abbaruffassero da dovero.
Le figure di costoro non
potranno mai più escirmi dalla memoria. Due di essi erano nipoti, l'uno cugino
l'altro germano, di don Gaetano; e tanto gli somigliavano entrambi con quel
loro filo di voce e quella loro cadenza calabrese, che li avresti creduti tutti
e tre gemelli. Ma tirandosi su per architetti e non per dottori come don
Gaetano, avevano barbe e mustacchi lunghissimi. Due erano di Bari, d'assai
provetta gioventù, di piccola ma larghissima complessione, con grassissimi e
sbiavati visi, dove non si vedeva il segno solo d'un peluzzo; e vestivano
entrambi da abate. Gli altri tre erano tre fratelli Aquilani, dei quali il viso
era interamente sepolto in una foltissima selva di peli. Costoro, con quei
pochissimi danaruzzi al mese che potevano cavare dalla loro famiglia, vestivano
così attillatamente, che al primo vederli, s'indovinava ch'erano provinciali.
Poco di poi il nostro arrivo,
rimasti un poco dal fare il chiasso, s'affollarono tutti intorno a donna
Mariantonia e a don Gaetano, domandandoli della causa del loro esser ito fuori
a quell'ora e in quel vestimento, e dei lividori che apparivano spessissimi sul
viso e sulla fronte di entrambi.
Quando ebbero inteso il caso, mi
considerarono un istante. Poscia, applaudito all'egregio fatto di donna
Mariantonia, ed avvertitala del loro indomito appetito di desinare, cavarono
fuori chi sigaro e chi pipa, e fumando e pipando, cominciarono ad affumicare in
tal modo tutta la casa, ch'io poverella, che non ero ancora fatta a
quest'ultimo benefizio della civiltà moderna, ritrattami in cucina e gittatami
sul pagliericcio, mi sentiva girare il capo e ad ogni momento venir meno.
Mentre, dopo una tanto travagliosa
mattinata, mi giacevo così tra viva e morta sul pagliericcio, fui riscossa da
donna Mariantonia, che mi disse:
Ginevrina, per istamane don
Peppino, mostrandomi uno de' due abati, mi fa il piacere di accompagnarti egli
proprio a prenderci il desinare al palazzo. Via, spicciati.
Per palazzo s'intendeva la
cucina del palazzo San Marcello. Mi consegnò una maniera di portavivande, o,
per meglio dire, una sorta di secchio o di vaso di latta con lungo manico,
strascinando il quale io mi messi a seguitare don Peppino.
Il palazzo San Marcello era a
Ghiaia. L'abate, solo per l'acuta fame che lo pungeva, s'era indotto ad
accompagnarmi, considerando che se no, Dio sa quando si sarebbe desinato. Onde studiava
il passo in un modo non troppo credibile. Io, non potendogli tener dietro, lo
perdevo ad ora ad ora di vista. Allora egli tornava indietro a furia, e dandomi
qualche strappata pei capelli e chiamandomi figliuola di mala femmina, cercava
di farmi, com'egli diceva, spoltronire.
Giunti alla cucina del principe
di San Marcello, trovammo don Gennaro in farsetto, con un gran grembiule
innanzi, e con un berretto bianco a cocuzzolo in testa. Io, a quel titolo di
capocuoco, aveva immaginato dovergli trovare intorno una gran mano di cuochi, a
cui egli imperasse. Ma in vece non vidi né anche un solo guattero, e vidi don
Gennaro che ministrava tutto da se. Ora aggiungeva carboni nei fornelli, ora
versava acqua bollente da un paiuolo in una pentola, ora lavava e governava
d'ogni maniera orciuoli nappi e stoviglie. Costui, fatte sue amorevolezze a don
Peppino, non mancò, appena mi vide, di comandarmi nei più vili ministeri della
cucina. Ma poiché don Peppino gli faceva gran ressa, scoperse un gran numero di
cazzarole, tegami, padelle, pentolini ed altri arnesi, e da tutti o tagliando
col coltello o pigliando col cucchiaio, toglieva uno scampolino e lo poneva nel
vaso ch'io aveva portato. E quando l'ebbe ben pieno, ci accommiatò con infinito
giubilo di don Peppino, che fra gli odori di quei fumanti manicaretti, era già
quasi divenuto deliro.
Tornati a casa, trovammo una
sudicia mensa apparecchiata nella stanza degli studenti. Donna Mariantonia
dichiarò che per quel primo giorno, atteso anche il trambusto seguito, aveva
avuta la pazienza di sostenere essa quella fatica: ma ch'io avvertissi bene per
l'innanzi, che quella era cosa non da sua pari e che spettava di farla alla
serva. La tovaglia era così ruvida e sporca, che faceva stomaco. Tovagliuoli o
scodelle o tondini o bicchieri, non ve n'era punto. Solo in mezzo era un largo
piatto ed un grosso orciuolo, entrambi di rozzissima creta. Intorno erano le
forchette e i cucchiai di ferro rugginoso. A un canto della mensa era il
secchione pieno dell'acqua ch'io aveva attinta alla fontana; dal canto opposto
era un gran fiasco di vino, che donna Mariantonia per quella sola mattina s'era
degnata d'andare a comperare da se medesima al prossimo vinaio, o come noi
diciamo, cantina, ai Gradini de' Santi Apostoli. Agli altri due canti erano due
grandissimi pani assai bruni, ed un altro simile era sur una seggiola allato al
posto dove già sedeva donna Mariantonia.
Ecco s'andò a tavola. Io ebbi
ordine di servire tutto ad un tempo, o per meglio dire, di riversare la vivanda
dal portavivande nel piatto. Questa, come avete inteso, oltre alle salse ed ai
condimenti che la rendevano odorosa e squisita, era una rarissima mescolanza di
forse una quindicina di elementi diversi, quanti erano gli scamuzzoli che don
Gennaro aveva pianamente ritagliati alle altrettante vivande preparate per il
principe.
Erano, come già sapete, otto
studenti, ai quali già da lunga pezza le mascelle sonavano; sì che donna
Mariantonia fu nona fra cotanta fame. Oh s'io avessi uno stile che non
resistesse di continuo al concetto della mente! se le mie parole potessero
parlare mai altro che amarezza e dolore! come vi descriverei l'amore, la
tenerezza che traboccò dagli occhi e da tutto il viso degli studenti, appena si
videro innanzi quello strano pasticcio. Tutti gli occhi furono volti in un
istante verso donna Mariantonia, che, tolta la forchetta ed inforcato il primo
pezzo di carne, diede come il segno a tutta la mandria fortunata, che, ognuno
stendendo la sua forchetta, ridussero, in meno assai che non lo dico, i due grandi
pani e quella vivanda presso che all'ultima estremità. Allora donna
Mariantonia, visto l'imminente pericolo, pure aiutandosi con la destra e coi
denti quanto poteva, con la sinistra fece cenno che si fermassero alquanto, e
mettendo fuori alcune sorde parole, rotte e smozzicate dal boccone che
divorava, li ammonì di lasciare qualcosa, se volevano che la sera vi fosse da
cena. A questo gli studenti, lasciato, non senza qualche malinconia, l'estremo
avanzo della vivanda, si gittarono sopra il terzo pane ch'era sulla seggiola, e
sul fiasco del vino, che passò intorno intorno, di bocca in bocca, con
ineffabile celerità. Poscia nettaronsi tutti leggiadramente il grifo alla
tovaglia ch'era sulla tavola. Alla fine vollero rinfrescarsi con una poca
d'acqua pura di fonte; e ciascuno togliendo a vicenda l'orciuolo, lo tuffava
nella secchia con tutta la sudicia mano, che quivi lavava, e bevuto, lo passava
a un altro che faceva il medesimo.
Così con infinita allegria si
terminò il desinare, senza che nessuno avesse pensato a gittare un tozzo di
pane a me, ch'ero digiuna dal giorno innanzi.
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