XVIII.
Poscia che il desinare fu
finito, gli studenti ricominciarono a fumare disperatamente. Donna Mariantonia
corse a serrare in un armadio, ch'era dietro il suo letto, il rimasuglio della
vivanda, e qualche cantuccio di pane, che, per una specie di grandiosità da
studenti, era avanzato allo scempio universale. Poi m'impose di sparecchiare, e
di governare tutti gli arnesi da tavola; e solo dopo ch'io mi fui per altra
lunga pezza arrabattata, e ch'ella mi sentì assai prossima a morire di stento,
mi concedette alcuno di quei cantucci, molto argomentando intorno alla
salubrità del pane e dimostrando con evidenti ragioni che nulla ci ha al mondo
di più nutritivo; massime pe' giovanetti.
Di poi mi comandò ch'io
ricominciassi i miei viaggi alla fonte, dove mi convenne tornare diciannove
altre volte; sì ch'era notte buia, ed io mi ravvolgeva ancora con la secchia
per la lugubre via Carbonara. Battevano le due ore di notte ai Santi Apostoli,
quando io venni con l'ultima secchia dalla fontana. I due abati e il
fedelissimo don Gaetano erano già a casa. Donna Mariantonia si veniva a quando
a quando stringendo al seno quella testina di cetriolino, in un'attitudine, della
quale, la Dio mercé, io non era allora capace a comprendere tutta la
svenevolezza; altrimenti io credo che mi sarebbe venuto a recere dal fastidio.
Ella mi comandò di mettere subito la tavola, ch'era ora di cena. Quando fu
apparecchiato, volle imbandire da se quel residuo di vivanda, quasi temendo
ch'io non ne portassi via alcun briciolo con gli occhi. Fu chiamato a cena.
Donna Mariantonia ammonì don Gaetano e i due abati, che, cenando essi,
lasciassero pur da cena agli altri cinque signorini, ch'erano fuori; ed
avrebbero cenato tardi al loro ritorno a casa. In fine, questa parola cena
rimbombava per tutta la casa, come se si fosse trattato della più lauta
imbandigione.
Quando la signora e i tre
signorini furono a tavola, la signora mi chiamò e mi bisbigliò all'orecchio, in
tal modo che tutti udirono, ch'io votassi una certa specie di vasi, ch'erano
per le stanze. Ve n'era due grandissimi nella stanza degli studenti, ch'era la
medesima dove si cenava, ed uno meno grande nella camera nuziale. Questi tre grandi
arnesi, che si tenevano dì e notte in camera con infinita offensione delle
nari, bastavano ad ogni uso.
Io che, forse non ultima delle
mie sventure, mi portai dal nascimento un instinto indomabile di nettezza, ed
un odorato così fine e così sensitivo, che come un grato odore tutto mi
rallegra e consola di beate speranze, così un odore malvagio mi accresce
incredibilmente il fascio della vita, levai gli occhi al cielo, come per dirgli
ch'era troppo. Poi rammentandomi quante volte li avevo inutilmente levati, li
ritornai a terra, e fatto rocca del cuore, ubbidii ai comandamenti della
padrona.
Quando si fu cenato, donna
Mariantonia disse ch'io sparecchiassi. Poscia, non senza gravi minacce,
m'ingiunse di aspettare desta il signorino ed i signorini nella camera degli
studenti; né ardissi passare per la sua stanza per andarmi sul sacconcello, se
non dopo l'arrivo di tutti. Di poi, chiuso quell'estremo avanzo di mangiare in
un cassettone, ch'era quivi, ne consegnò la chiave a don Peppino; e fatta, così
transitoriamente, la considerazione che alle fanciulle non si conveniva dar da
cena la sera senza nuocere non mediocremente alla loro salute, se n'andò a
letto. Don Gaetano, sbadigliando, disse che v'andava ancora egli, perché aveva
sonno; don Peppino e l'altro abate si coricarono nel loro lettuccio, riponendo
la chiave del cassettone sotto il loro guanciale; ed io rimasi alla fioca e
vacillante luce d'un piccolo lumettino da notte, che donna Mariantonia aveva
lasciato acceso in un poco d'olio galleggiante sull'acqua in un bicchiere.
|