XXIV.
Tutta la notte non fu potuto
dormire, perché donna Mariantonia e don Gennaro, presedendo nell'assemblea
degli studenti, discorsero e disputarono le ragioni della richiesta. Fu unanime
sentenza che il nuovo governo volesse rimandare ai babbi tutti gli studenti
provinciali ch'erano nella città, e l'afflizione fu grandissima ed universale.
Pianse donna Mariantonia, pianse don Gennaro; e questo s'intende. Furono
bagnate le selvose guance de' tre giovani aquilani e de' due nipoti di don
Gaetano; e furono umidi gli occhi (chi il crederebbe?) de' due pingui abati
pugliesi. Ma rimasero secchi i due occhiolini che giravano nell'angusta fronte
di don Gaetano, che, come vigliacco, non versò mai una lacrima.
La mattina seguente scendemmo
tutti processionalmente le scale, e donna Mariantonia, chiudendosi dietro
l'uscio, che serrava a saliscendi, l'inchiavò e si nascose la chiave nel petto.
Quando fummo nella via, m'ingiunse di aspettarla quivi sull'uscio, ed essa ne
andò con don Gennaro, don Gaetano e gli altri sette studenti alla volta del
commessariato.
Erano avanti l'uscio da via, che
non era de' suntuosi, tre piccoli scalini, sopra il primo dei quali io mi
sedetti; stracca e stordita dalla veglia della notte e dal desiderio, caro e
tremendo a un tempo, di rivedere il giovinetto. Già, da che s'era involato
dagli occhi miei, gl'istanti m'erano sembrati secoli. Senz'avvedermene, io
aveva sempre gli orecchi intesi a contare i tocchi dell'oriuolo di San
Giovanni. L'oriuolo batteva l'ore ad ogni quarto; e mai non ne udiva il suono
ch'io non rimanessi attonita e disperata della sua spietata lentezza.
Mi condussi finalmente alle
sedici ore, e mi parve per la prima volta d'intendere l'eternità, che insino
allora era stata per me una parola vota di senso. Le convulsioni che mi ha sempre
causato l'aspettare, divennero una specie di mania. Guardavo verso il canto di
Santa Sofia; già vedevo, già toccavo il garzonetto... O padre! non è poesia, ma
è prosa, ma è tutta verità, s'io vi dico che più volte strinsi le braccia
dietro a quel fantasma, e altrettante mi tornai al petto con esse. Entrai nella
piccola corte, per l'instinto ch'ebbi sempre di nascondere quanto potevo il mio
dolore: e perché quel dolore onde allora mi struggevo, mi pareva una cosa così
gentile, così cara, così sacra, che nessun mortale non mi pareva degno di
contemplarlo. Quivi cominciai a fare un disonesto strazio de' miei capelli,
cominciai a battermi le guance, a percuotermi questo infausto seno, nido di
così tenace e doloroso affetto, a stracciarmi ed a troncarmi quanto potevo con
le unghie e coi denti tutte le mie tenerissime e bianche carni, ed a fare, in
fine, quasi presaga dell'avvenire, ogni mio potere per distruggere in sul loro
spuntare queste che poi furono chiamate bellezze, e causarono la mia totale
perdizione.
Più dell'aspettare mi disperava
il pensiero che quella mia gentucciaccia sarebbe tornata a casa giusto circa il
mezzodì; e dovendo, come avevo inteso la notte essere inevitabile, sgomberare
della città tutto quel viluppo di studianti, donna Mariantonia non mi avrebbe
già mandata per l'acqua alla fonte, ma tenuta a casa perch'io l'aiutassi in
quel trambusto. Ed allora come avrei più veduto il mio amore?... In un momento
s'oscurò il cielo, e cominciarono lampi spessissimi, che parvero trasfondere io
non so che d'elettrico e di ardente nel mio sangue che già bolliva.
Ora come verrà?... cominciai a
dire, cessando di percuotermi e congiungendo le mani in sul mio grembo. E se la
pioggia lo bagna? e se un lampo lo abbarbaglia? e se un fulmine
l'incenerisce?...
Questi pensieri annullarono la
mia ragione già traviata. Uscii sulla piazza, e m'incamminai su per la via
dell'Orticello, seguitando la mia invisibile stella. Pervenni alla porta che
domandasi di San Gennaro, e quivi si terminava per me il mondo conosciuto.
Quando m'affacciai alla piazza detta delle Pigne, che allora mi parve immensa,
infinita, io ne presi quella impressione, io credo, che prese Vasco di Gama dal
Capo di Buona Speranza. Entrai in un caffé ch'era a sinistra della porta sul
rialto che serve di sentiero, dimandando per dove s'andava alla Croce al
Sacramento. Quivi era una gran mano di giovani scioperati, chi con sigaro e chi
con pipa, tutti sdraiati laidamente sopra seggiole e canapè, ch'erano intorno
intorno e in mezzo, con un ginocchio sull'altro, disputando di teatri e di
farse, d'intrioni e di saltatori, come della cosa pubblica più grave e più
importante alla salute di tutta Italia. V'era la padrona assisa al banco; la
quale io domandai della via. Quella me l'insegnava più tosto benignamente. Ma
io non so perché, tutti quelli scioperati ch'erano quivi, cominciarono a
sbeffare me e lei, e intorno al mio essere tutta lacera e scalza e molle ed
aver gli occhi pregni di lacrime, chi diceva una scempiaggine e chi un'altra; e
ne ridevan tutti come di cosa assai sollazzevole. Ed alcuni che m'erano più da
presso, mi davano, così per modo di celia, di piccoli calci nei fianchi con la
punta de' loro stivali, e cominciarono leggermente l'uno a rimandarmi all'altro
come una pallottola, e poi ne facevano le grasse risate. Io poverina, tutta
confusa e rossa nel viso per la vergogna, non ebbi più spazio né vigore
d'imparare la via, né la padrona, che per non dispiacere ai signorini rideva
anch'essa, d'insegnarmela. Onde Dio solo sa come giunsi, fra gl'indegnissimi
scherni di quella canaglia, a trarmi fuori del caffé, non ostante che piovesse
dirottissimamente. Cominciai a camminare verso la diritta della porta, sullo
sterrato che va lungo le antiche mura della città. La pioggia infuriava, e
dagli antichi terrapieni si vedevano rovinare giù dai vani de' merli infiniti
fiumi d'acqua. M'abbattei in un villano, il quale si menava innanzi un asino,
che a furia di vergate non poteva fare che camminasse più che tanto.
M'arrischiai di domandargli la strada; e questi fu più cortese ch'io non mi
pensava. Levando il dorso della mano, mi mostrò a dito poco lungi una via che
saliva alla prossima collina, dicendomi:
In fondo a quella è la Croce al Sacramento.
Era la pioggia divenuta uno
spaventoso diluvio. Non si vedeva quasi più nulla. Rovinava dalla via de'
Vergini un torrente, che qui chiamano lava, o più tosto un rapidissimo fiume,
che correva precipitosamente con mille gorghi e rigiri per l'ampissima strada.
In mezzo a quella era una sorta di ponte di legno, sostenuto da gravi ruote e
da pesantissime catene, sotto il quale quel torrente passava; ed era data una
via a chi da una parte della strada volesse passare a un'altra. Io mi trovai
quasi in capo a questo ponte, ch'era il solo oggetto ch'io vedeva con qualche
certezza. Nella direzione medesima del ponte vedevo, a traverso le onde che
piombavano dal cielo, la via Saponara, in fondo alla quale io già m'immaginava
che avrei trovato il mio solo bene. Vidi una canuta e stanca vecchierella,
sopra cui batteva la pioggia e il vento in tal modo, che pareva dovesse
annichilarla; e pure non s'abbandonò d'animo, e salì il ponte, che le acque già
quasi parevano sommergere, e giunse dall'altra sponda a salvamento. Mi feci
cuore, o più tosto un dio, di cui allora mi era sconosciuto il nome ma non la
fatale possanza, mi trascinò già cieca com'ero divenuta degli occhi e della
mente, e salsi il ponte. Il quale giusto in quell'istante fu coperto e
rovesciato e strascinato via dalla crescente e impetuosissima piena dell'onde,
e si sommerse, e mi sommersi anch'io, e l'onde si chiusero sul mio capo.
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