XXVII.
Il dì seguente in sull'aurora
tutti gli studenti partirono, chi da un lato e chi dall'altro. Quando don
Gaetano disse addio a donna Mariantonia, costei si sfogò con un sospiro che
parve che le svellesse il cuore. Certo l'era svelta quella sola rendituzza, con
la quale l'era sembrato potersi innalzare sopra la sua condizione; ed il dover
ritornare pura moglie di cuoco, senza aver più in casa il signorino di
Catanzaro per bracciere e gli altri signorini per ospiti (benché in tutti
paresse sempre conoscere i segni dell'antica zappa), l'era troppo
insopportabile dolore. La casa rimase deserta. Don Gennaro sentenziò che
bisognava subito riallogarla, non essendone da lui solo sopportabile la
pigione. Andò fuori; e un momento di poi venne gente, con la quale donna
Mariantonia ebbe presto conchiuso il negozio.
Intanto io giaceva sul
pagliericcio, senza potere né parlare né muovermi, ma vedendo e intendendo
tutto e perfettamente conscia della grandezza del mio male. Non isperavo più
ben nessuno; perché sentendo di non poter vivere, sentivo ancora di non poter
mai più rivedere il mio angeletto, né sapere né anche, prima di morire, se il
suo babbo fosse mancato, e in quale stato egli si fosse rimasto. Donna
Mariantonia in tutto quel giorno non mi porse cibo, non mi fasciò la ferita, né
mi soccorse in guisa veruna, né pure un solo istante si volse a guardarmi per
conoscere se io era spirata. Solamente l'udivo talvolta lamentarsi con cupa
amarezza, di non aver avuto bastante riguardo all'incostanza delle cose umane
quando mi tagliò e gittò via così facilmente il segno della Nunziata, ed ora
eccole il mio peso, non punto leggero, sulle spalle. Ed io credo fermamente
ch'ella non senza ragione mi lasciasse la ferita aperta, sperando ch'io dovessi
morire svenata; e sono anche certissima che mi avrebbe ammazzata, se non avesse
temuto d'esserne richiesta a corte e punita con la forca. Io le costava forse
un grano di pane il dì, che monta a tre carlini il mese; e ho udito dire che
ier l'altro un ciabattino, nella via della Taverna Penta presso a Toledo, abbia
dato del succhiello nelle reni a un suo amico, che non gli poté rendere
incontanente la metà d'un grano che gli doveva. Ma così profondata nel pelago
della morte, io non morii, perché la natura pare tanto più gelosissima della
sua vittima, quanto più grande è il dolore al quale l'ha ab eterno destinata.
Il dimane era il dì dello
sgombero. Donna Mariantonia e don Gennaro, per non ispender nulla nel trasporto
della loro robicciuola, la trasportarono adagino adagino da se stessi. Alla
fine, quando non v'ebbe più altro in casa, mi presero a braccia con quella
pietà ch'era tutta loro, e strascinandosi il sacconcello dietro alla peggio, mi
portarono in un bottega o casolare terreno nella via di Pontenuovo, ch'era
rimpetto all'uscio nostro; il quale casolare, per cittadino, poco differiva da
quello di Sant'Anastasia: e quivi, posto in un canto il sacconcello, mi
v'ebbero tosto gittata sopra.
Il sangue era ristagnato da se;
io comincava a ritornare; ma sarei morta di fame, ultimo partito al quale s'era
appigliata donna Mariantonia per levarmisi dinanzi; che richiestane a tutte
l'ore, mai non mi porgeva alcun nutrimento. Io credo che, se bene ancora
fanciulla, io l'avrei volentieri appagata del suo desiderio, e non avrei più né
domandato, né preso cibo quando mi fosse stato porto, per cessare una volta i
miei patimenti. La qual cosa io aveva più volte tentata prima di vedere quel
garzoncello: né m'era stato possibile di venirne a capo; perché allora le mie
braccia giovavano a donna Mariantonia. Ma dopo ch'io ebbi sperata, anzi
gustata, tanta felicità sulla terra, quanta fu quella di riposare il mio stanco
capo sul seno di quell'angelo di bellezza e d'amore, la morte cominciò a farmi
un orribile spavento. Però cominciai a domandar del pane, che donna Mariantonia
mai non mi dava. Ma io lo ridomandava con maggiore istanza quando una nostra
vicina veniva a visitarci, e mi lamentavo, contra il mio solito, più
pietosamente ch'io poteva; e così era forza alla donna di concedermi un tozzo
di pane, se non voleva essere tenuta quello ch'ella era. Così sostentavo
amaramente la mia vita, che più tosto che da quel tozzo di pane, ch'io
conquistava ben di rado, m'era sostenuta dal vivo fuoco della speranza, che mi
correva e nutriva tutte le vene, di rivedere l'adorato garzonetto.
Chi vi può dire, o padre, le
bestemmie, gli scongiuri, la disperazione di quella coppia, ch'io non fossi
morta, come pareva che fosse dovuto seguire? Chi vi può dire quanti parlamenti
si tennero la notte, quanti partiti, e tutti crudelissimi e spaventevoli per
me, furono proposti? Quante volte nelle ore in cui tutti gli altri mortali si
ristoravano col sonno dalle fatiche e dai dolori del giorno, io fui
spietatamente percossa e stretta alla gola; e nessuna via, pure ch'ella desse
speranza di non apparire, fu lasciata intentata per finirmi. Io già lessi che
in Inghilterra, dove non si permette lo sparo dei cadaveri, è una setta di
scherani, che vivono vendendo ai cerusichi per loro esperimenti i cadaveri di quei
forestieri che possono pervenire ad ammazzare. Costoro, montando addosso alla
loro vittima, premendole mortalmente i ginocchi sullo stomaco e ponendo le loro
labbra sulle labbra di lei, ne succhiano, per così dire, lentamente il fuggente
spirito; ed è fama che nel cadavere nessun segno di morte violenta non resta
impresso. Io credo ch'io non sarei più da gran tempo, se don Gennaro e donna
Mariantonia avessero conosciuto questo modo di morte.
E nondimeno tutti gli sforzi
loro furono indarno. La ferita cominciava a rimarginarsi; io cominciava a poter
dare volta sul pagliericcio e giacere un poco su i fianchi; e la mia guarigione
non pareva troppo lontana. All'ultimo, una notte don Gennaro e donna
Mariantonia non rifinirono mai di bisbigliare, ma così adagio, ch'io non ne
potetti intendere né anche una sola sillaba. La mattina seguente donna
Mariantonia mi si mostrava tanto amorevole, che mi parve un portento novissimo.
Mi fu larga non di pane solo, ma ancora d'un poco di zuppa che fece bollire con
qualche fronda d'alloro. Mi lisciò, mi carezzò; mi ravviò e rannodò i capelli
per la prima volta dal dì che mi tolse; e la sera, essendo venuta la vicina a
veglia, mi diede in presenza di lei un assai affettuoso bacio. Io era fuori di
me, e non mi sapevo risolvere della strana visione che mi appariva. A notte
profonda don Gennaro tornò con un gran fiasco in mano. Sufolato qualche parola
all'orecchio della moglie, si appressarono entrambi al mio sacconcello, e
dicendomi amorosamente che mi volevano condurre a una cenetta che avevano a
casa di certi loro amici, e sollevandomi molto dolcemente dal saccone, donna
Mariantonia mi si pose a portare in braccio, ch'io non avrei mai creduto che mi
potesse. Don Gennaro con la sinistra mano sosteneva il diritto gomito della moglie,
sul quale io pesava di tutta la mia persona, e con la destra portava il fiasco.
Sarebbe stata quella notte un gran lume di luna, se le nubi non l'avessero
oscurata. Mi portarono per alcuni viottoli ch'io non riconobbi bene, sempre
carezzandomi e baciandomi con infinito affetto. Finalmente, fermatisi di botto,
la luna trasparì un momento dalle nubi ed io mi trovai presso alla buca della
Nunziata. Quivi, spogliarmi nuda, versarmi sulla testa tutto quel fiasco,
ch'era pieno d'olio, ficcarmi a forze giunte nel buco, e darmi un fiero calcio
che, sdrucciolando, mi fe trovare nella ruota che rapidamente girò, fu un punto
solo2.
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