XXVIII.
L'ospizio della Nunziata è
diviso in due parti. Delle quali l'una, quella sola ch'io conosceva, levandosi in
due alti ordini di piani, dà sopra tre ampissime vie; e tutta ad immense volte
ed a sale smisurate, pare sia stata edificata per abituro di Fingal e de' suoi
compagni, e che veramente vi mormori per entro il suono dell'età che furono.
L'altra, tutta quasi interna e tenebrosa, sembra deputata più tosto alle bestie
che alle creature umane, ed ha distinto il suo fondo in forse cento angusti,
umidissimi e quasi diruti covili.
Dei tremila bambini in circa che
sono gettati ogni anno nella buca, duemila e cinquecento muoiono, la più parte
di fame. Gli altri cinquecento vanno scemando nel modo che segue.
I maschi, come più acconci a
pascere, con la fatica delle loro misere braccia, l'accidiosa ingordigia della
gente minuta, sono quasi tutti presi, come già fui io dalla donna di Santa
Anastasia e da donna Mariantonia, avanti di giungere all'età de' sette anni. Ai
quali coloro che hanno non so se la ventura o la sventura di pervenire, sono
mandati al grande albergo dei poveri, ch'è in sull'entrare della città a chi viene
d'Europa, detto più comunemente e forse più ragionevolmente dal basso e
dall'alto volgo, il serraglio, come se chiudesse o varie condizioni di
peregrine belve, o gli eunuchi e le donne del soldano. Ma delle femmine si fa
migliore governo.
Queste, se non s'imbattono in
alcuna stregona che le conduca a rendere lo spirito altrove, pervenute ai sette
anni, sono condotte, come tante anime semplicette, innanzi al supremo
moderatore dell'ospizio, che suol essere, il più, qualche sterminato baccalare
di nobiltà. Il quale, novello Minosse, consideratele un istante, secondo che
gli vanno o no a sangue, le manda a libito, e senza che nessuno abbia potuto
peccare più o meno d'un'altra, chi nel primo ordine delle smisurate sale fra le
elette, che per instituto non possono oltrepassare le cento, e chi nei covili
fra le reprobe, che non sono mai più di dugento cinquanta.
Padre mio adorato, le cose nuove
avrebbero bisogno di nuovi vocaboli ad essere descritte. Ma se, non per anche
giunta a' sei anni, l'essere a viva forza intromessa in quella maledetta buca
messe così fieramente a ripentaglio la mia vita, considerate, ora che avevo già
valichi gli undici anni, in quale compassionevole stato io apparissi alla
religiosa ch'era di guardia alla ruota, dopo che que' due carnefici ebbero
recato ad effetto il loro nefario trovato.
La religiosa, che per la
insolita resistenza incontrata dal troppo grave peso, girò violentemente la
ruota, al primo vedermi si tirò un passo indietro inorridita. Io sembrava più
tosto un mucchio di ossa sfracellate e di carne franta e sanguinosa, che una
creatura vivente. Non sentivo più di me, e tutta quasi vinta d'ogni sentimento,
contemplavo stupida, e come per un sogno febbrile, la piccola cameretta assai
somigliante a un sepolcro, la pallida lucerna che la illuminava, e il viso
spaventato della religiosa, che il pallore del lume rendeva più funesto.
La monaca, ritornata dal suo
stupore, tolta la lucerna d'in sul muricciuolo dov'era, l'appressò al mio
volto; e veduto ch'io aveva gli occhi vivi e spalancati, mi dimandò, fra
benigna e ritrosa, del mio essere, e quale assassino mi avesse ridotta in
quello stato. Io non potetti rispondere, ma versai lacrime. Alle quali fatta
misericordiosa la monaca, mi fu pia d'alcun soccorso, quanto il luogo e l'ora lo
consentiva; e tratto il guancialetto ch'era sulla seggiola ov'ella sedeva, e
postolo in terra, e sparsovi accanto un pannicello lino ch'era sopra un'altra
seggiola, mi prese alla più gran fatica del mondo fra le sue braccia, e mi posò
per terra sul pannicello, che quasi le mancava la lena. E non curandosi
d'essere tutta insudiciata le vestimenta, senza mai lasciare di reggermi il
capo con la sua mano sinistra, con la destra mi venne, con alcun asciugatoio e
con la medesima sua pezzuola bianca, rasciugando e tergendo non solo il sangue
che mi veniva a gran furia dal naso e dalla ferita al capo riapertasi, ma
ancora l'osceno olio ond'io tutta spiacevolmente grondava. Poscia, adagiatomi
dolcemente il capo sul guancialetto, quasi vergognando ch'io fossi da chiunque
altra che da lei veduta ignuda, si tolse il velo dalla testa e me ne ricoperse;
e con amorevolezza quasi materna confortandomi ad attenderla qualche momento di
tempo, acceso un moccolino di cera alla lucerna, si trasse l'uscio dietro e
disparve.
Poco di poi, riapertosi l'uscio,
entrò un'altra figura di religiosa, di viso più severo che la prima; la quale
soffermatasi alcun istante a riguardarmi, ed ecco giungere l'altra e serrare
l'uscio. E fattesi entrambe sopra me, cominciarono a ragionare insieme alcune
parole ch'io non intesi, e che mi parvero manifestamente non essere italiane.
Dopo le quali, tornato ad aprire l'uscio, mi sollevarono alla meglio, con tutto
il guancialetto, il pannicello e il velo, la prima per il capo ponendo le
braccia di sotto il guancialetto e con le mani afferrando due becchi del
pannicello, e l'altra per i piedi, cui aveva avvolto il pannicello dall'altra
parte, e mi trasportarono in una cameretta a mezza scala, dov'era un lettuccio
che si vedeva acconciato pur dianzi in fretta. In sul quale posatami, e
soprastate alcun poco entrambe per raccogliere il fiato, la religiosa ch'era
venuta in aiuto della prima ritornò giù a guardia della ruota, e l'altra mi si
sedette allato, tutta piena d'affettuosa pazienza, non ristando mai di nettarmi,
di carezzarmi e di fare ogni opera per ristagnarmi il sangue, finché penò a
farsi giorno.
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