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Antonio Ranieri
Ginevra o L'orfana della Nunziata

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  • Parte Seconda
    • XXXVI
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XXXVI

 

Non essendo sedia né scanno alcuno da sedere in quelle grotte, ed io non avendo più la forza di reggermi in piedi, mi sedetti per terra in quel cantoncello dov'ero. Poscia, sentendomi mancare ogni lena, lasciai cadermi di mano il pane e la moneta; e qualche minuto appresso ruppi in un così dirottissimo pianto, che quasi i singhiozzi mi soffocavano. Così mi sfogai alla fine per più di tre ore a piangere, non guardando più in viso a nessuno, nascondendo quanto potevo le mie lacrime, e non accusando più né il cielo né la terra né gli uomini de' mali miei, perché avevo imparato ch'era tutto inutile.

Quando fui bene stracca di piangere, velai così un poco gli occhi di un certo sopore che non si poteva dire propriamente sonno, ma più tosto una oppressione e uno sfinimento di cuore. Alla fine anche da questo sapore mi sciolsi, e potetti, bene sfogata e bene desta, considerare a mio bell'agio tutto l'orrore dello stato mio.

Erano oramai le ventiquattro, e già da meglio che un'ora non si vedeva più lume nel luogo ove io era. E pure tardò di molto ancora a venire una di quelle tre streghe, ma non già la reina, con una lucernuzza di terra in mano con solo un lume già mezzo morto. Venuta in fondo della bolgia, levò lo scarno braccio che pareva una negromantessa nel solenne esercizio dell'arte sua, e la posò in sur una specie di mensola di legno che sporgeva del muro ov'era stata confitta. Di poi tornava indietro, e in andandosene, mi guardò un momento e fece sceda di me verso le mie compagne, che avevo fatto sgabello del sinistro braccio al mio capo stanco. E senza pure far segno d'avvertire com'era piaciuta la sua sceda, s'andò con Dio.

Al fioco lume di quella lucernuzza io vedeva gli occhi delle mie compagne tutti spalancati e fissi su quel tozzo che m'era da presso. Ed il famelico luccicare di quegli occhi mi messe nel cuore tanta pietà del fatto loro, che al tutto dimentica di me stessa, raccolsi il tozzo di terra, e levandolo a gran fatica il mio destro braccio, volentieri ne feci loro servigio. In un baleno il tozzo volò di mano in mano e di bocca in bocca; e più d'una si rammaricò gravemente di qualche arrabbiato morso avuto nella mischia su le mani o sul mento. Alla fine una più ardita fra loro, avvicinandosi a me, mi disse, quasi all'orecchio, ma in modo che le altre compagne udirono:

Poiché sei tanto generosa, che non ci regali tu quella moneta ch'è in terra? Certo per oggi la t'è inutile, perché di nutrimento né, come veggo, hai bisogno, né potresti ormai procacciartene, ch'è già notte. Così stasera darai la buona ventura a noi, che prima al sommo Iddio e poi a te ne renderemo grazie infinite; e dimane con un simile che tu n'avrai, potrai cavarti ogni tua voglia.

Io che all'aspetto dell'altrui miseria non pensai mai alla mia propria, di subito gliene diedi. Ma io non vidi mai mastini allora sciolti uscire addosso al poverello con quel furore e con quella tempesta, che quasi tutte quelle sciagurate, insino quelle che per fiacchezza erano giaciute tutto il dì su i lettucci, precipitarono addosso a colei che aveva già tolta la moneta. I gridi, i pugni. i calci, lo stracciarsi a ciocca a ciocca i capelli, il tirarsi contro a vicende i trespoli e le tavole dei letticciuoli, e il rompersi tutte a sangue, furono cose non più udite o vedute. Finalmente comparvero le tre maliarde, e con voce ch'io non avrei mai creduto che ne avessero tanta nella gola, minacciarono pene sterminatissime se quel tafferuglio non si chetava. E chetatosi il tafferuglio, e inteso il fatto come stava, la reina strappò la moneta a quella prima cui io l'aveva data, e, volgendo le spalle con le altre due sue vecchiarde, se l'appropriò come cosa a lei debita per legge.

 

 

 

 




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