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Antonio Ranieri
Ginevra o L'orfana della Nunziata

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  • Parte Quarta
    • XCVI.
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XCVI.

 

Intanto la solitaria, come sempre segue ai cuori ritirati dagli uomini non per poco ma per troppo affetto, mi pose un amore tale, che non si può dire con parole umane. Ella vedeva per gli occhi miei, udiva per le mie orecchie, parlava per la mia bocca, e, come s'io fossi stata sua figliuola, o fossi convivuta seco insino dal mio nascimento, viveva tutta in me, anzi in tanto viveva, in quanto viveva io.

Come più tosto io ebbi perduto il figliuoletto, la minente venne per me per volermi ricondurre nella sua casetta. Ma la solitaria si gettò ai piedi di entrambe, e ci giurò fra molte lacrime, alle quali non era troppo facile, che dopo l'amore che mi aveva posto, dopo la dolcissima usanza ch'aveva preso meco, ella non era più bastante a sostenere quella solitudine, che per diciotto anni aveva riguardata come il più gran bene de' mortali; e il portarmele via era come portarle via il cuore e la vita. E tanto pregò e tanto pianse, che la minente s'andò, benché dolorosa, con Dio, e, lasciatami quivi, si contentava di tornare di quando in quando a visitarci.

Ma io non era la minente; ed era impossibile che alla lunga ella potesse continuare a farla meco da inspirata e da santa. Onde, domandatane incessantemente da me nelle lunghe ore di tranquillità che passavamo insieme, dopo aver molto dubitato, e molto considerato le forze della mia mente, alla fine un giorno prese a dirmi così.

Io sono figliuola unica del principe Monsanese: bevvi le prime aure in Torino, ed il mio vero nome è Teodelinda. Mia madre morì ch'io aveva appena diciasette anni, e tutti mi gridarono, convento, convento, come solo porto della mia virtù in pericolo.

Fatta di terra sensibile, io m'era innamorata del mio maestro di musica, ch'era un giovane bello e sventurato; né a mio parere, v'è cosa più irresistibile al cuore d'una donzella ben nata, che l'impressione della sventura in un volto avvenente e giovanile. Mi pareva ad ogni ora ch'egli mancasse di tutto quello di cui io abbondava; non mi curai più de' miei abiti e de' miei conviti, perché vedevo lui assai male in arnese, e supponevo peggio del suo nutrimento; e parendomi da principio che il non amarlo fosse crudeltà, mi condussi alla fine a non aver bene se non quanto lo vedeva, ed a struggermi ed a consumarmi per lui. Mio padre non tardò ad avvedersene, e scacciò da se l'innocentissimo giovane. Questi morì di miseria e di malinconia; ed io, data la più sanguinosa repulsa a un brutto ceffo di mio cugino che voleva sposarmi per la dote, colsi io stessa volonterosa l'occasione portami dalla morte di mia madre, e mi chiusi in un monastero.

Mio padre era non solo religioso, ma superstizioso, e insino dalla mia infanzia m'aveva parlate di continuo parole ascetiche e contemplative. E più d'una monaca, pagata, come poscia riseppi, dal mio scellerato cugino, ch'aveva eletta questa seconda via di pigliarsi il mio, mi sonava incessantemente agli orecchi la vanità e l'amarezza del mondo, la pace del chiostro e le bellezze eterne del paradiso. Ond'io, ch'aveva il cuore afflitto e l'immaginazione ardente, a cui pareva ad ora ad ora che il mio primo amore contemplasse dal cielo tutte le mie azioni e tutti i miei pensieri, e dovesse gioire del mio sacrifizio, vinta ancora dalle prime impressioni prese dalle parole di mio padre, e dalle continue esortazioni delle monache, mi rendetti nel convento medesimo professa.

Stetti quivi tredici anni negli esercizi più austeri di pietà, insino che mio padre, infermando a morte, impetrò dall'arcivescovo il permesso di rivedermi un istante. Fui condotta a lui in un cocchio ben chiuso, e lo trovai moribondo. Egli mi strinse l'ultima volta al seno, e con la forza che gli avanzava cavò di sotto il suo guanciale una borsa con entro tre mila marenghini d'oro, e me la diede, dicendo, che se il mio cugino ereditava di tutte le mie sostanze, almeno m'avessi avuta quella somma per una necessità straordinaria. Io gli baciai piangendo la mano e il viso, e strascinata al convento, quivi il dì seguente mi fu annunziata la sua morte.

Io gettai quell'oro nel fondo d'un cassettone, e piansi sei altri anni quelle colpe che non avevo mai commesse; e mi trovai annoiata di piangere allora giusto che il pianto solo m'avanzava.

Trentasei anni! fiera età per la donna! Io lanciai un terribile sguardo indietro, e vidi che la gioventù era partita, e ch'io non aveva goduto una sola delle tante dolcezze che la mia stessa inesperienza mi faceva supporre che fossero veramente nel mondo. Presi un odio mortale per tutto quello che avevo più amato insino allora, per il mio velo, per le monache tutte, per quelle mura nefande che mi vietavano insino il sereno del dì; e se non fossi stata ben ferma ne' miei principii, avrei preso orrore insino della religione stessa, che produceva frutti così amari. Alla fine quell'oro stesso che aveva indotto alcune monache a bendarmi la fronte, le indusse a sbendarmela, ed io, avuto il modo di fuggirmi, mi ricoverai in Firenze con un giovane fratello d'una delle monache, ch'ella, forse non senza cagione, m'aveva profferto a guida.

Questi aveva trent'anni, ed era scultore, ed era l'uomo più bello e virile e robusto che mai immaginazione di femmina potesse sognare. Ond'io, a cui non dì parea mill'anni a bere di questa coppa, di cui trovai il fondo sì amaro, non fui appena pervenuta al primo albergo, che mi sbramai con lui quella sete naturale che nei chiostri diventa furore.

Quel giovane veniva in Roma, dove mi condusse come sua moglie, e dove si giovò di me finché io conservai qualche bellezza, e che non gli venne a mano nessuna più giovane e più bella di me. Ed io, tutta lieta e contenta e trionfante della mia stessa sozzura, ritornava col pensiero a' miei dì passati, e paragonandoli coi presenti, faceva amaramente beffe del mio primo amore, del convento, della verginità, e di tutti quegli affetti, in fine, che m'apparivano allora morbosi, per i quali quello che v'è di divino nell'uomo vince quel che v'è di bruto e di ferino.

Ma come più tosto il mio Lorenzo, che così gli dicevano, si fu stracco di me, che fu dopo un anno, accontatosi con la figliuola di un oste, che gli soleva giacere nuda a modello, e ch'era bellissima, e rubatimi mille marenghini, si fuggì verso Napoli con la donzella, e mi lasciò sola, non già invendicata; perché, fra Terracina e Fondi, quei ladroni che qui si domandano briganti si fecero esecutori della divina giustizia, e ucciso lui e rubato l'oro, uccisero in fine anche la donzella, dopo averla infamemente violata.

Ma io che poteva fare in tanta derelizione? Qual dio o qual demonio mi restava ad invocare? Ripresi gli abiti miei monacali, e mi nascosi in seno mille marenghini che m'avanzavano, e corsi furiosa tutta la campagna per trovare un sicario che m'uccidesse il traditore. Poi un dì a Genzano seppe che i briganti m'avevano vendicata, e venni in questa selva, in questa grotta, per nascondere all'universo intero l'infamia della mia morte, e strinsi uno stiletto ch'avevo, e me lo appuntai sul cuore.

Ma in questi silenzi l'uomo è troppo vicino a Dio, e s'anche medita, non può compiere il delitto. Dal più profondo del mio cuore sentii sorgere una forza che mi trattenne, una voce che mi gridò, che quest'antro poteva nascondermi agli uomini, ma non a Dio. A Dio, dunque, al solo confidente che m'avanzava, rivolsi la mente e il cuore, e caddi ginocchioni, e piansi la mia molta stoltezza, e giurai di mai più, insino ch'egli non mi richiamasse dalla terra, non abbandonare questa grotta, nella quale aveva degnato la prima volta d'illuminarmi.

Così mi rimasi già diciott'anni, e tessetti con le mie mani quella forcatella di spine, e ne incoronai questa mia grotta, quasi simbolo di quella corona di che, da Cristo in giù, fu incoronato ogni giusto. Nascosi in questa terra i mille marenghini, e non mi bisogna che un paolo il dì, onde ne consumai appena il quinto, e vedi che n'ho per te e per me insino alla morte di entrambe. Ogni settimana una volta mi conduco ora a Frascati, ora ad Albano, ora a Marino, ora a Faióla, ora a Tivoli, ora a Palestrina, ora altrove, a procacciarmi le cose necessarie alla vita. Tutti mi chiamano la santa; ed io di questa sola menzogna, alla quale mi sforza la necessità stessa della mia vita contemplativa ho a dimandar perdono a Dio, che ad Albano dico di venire da Tivoli, a Palestrina da Roma, ed altrove d'altronde, e salvo la nostra minente, cui io con le parole che Iddio m'inspirò conservai l'innocenza, ella a me col silenzio la pace, nessun altro mortale scoperse insino ad ora i miei vestigi; che gli uomini rare volte si curano di chi veramente non si cura di loro.

 

 




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