CANTO
PRIMO
Argomento
Giunto
Macandro alle Cecropie mura
Abbate
tutti i cavallier di Corte.
Segue
il destrier dentro una selva oscura
Lungi
il Sican da le Palladie porte.
Gli
narra una donzella l'avventura
Della
ghirlanda, e di Parmin la sorte.
Macandro
in gran terror pon tutta Atene,
Alfin
un cavallier contra gli viene.
Scegli
d'ornati, e ben composti accenti
Il
più bel fior, leggiadra Musa, e canta
Li
spogliati trofei, gli incendi spenti
Dal
tempo, ond'ancor Marte e Amor si vanta.
Di'
le battaglie rie, le fiamme ardenti,
Ch'uscir
da l'arme, e dalla face santa
Allor,
che 'l fero Dio gli altari avea,
E
Ciprigna adorata era per Dea.
Canta
l'inclite imprese, e i dolci affetti
De'
cavallieri, e de le donne illustri,
Fa'
che di quelle man, di questi petti
Viva
il pregio, e la gioia eterni lustri;
E
agguaglia lo stil con quei concetti,
Ch'escon
de' pensier miei vaghi e industri,
Mentre
al raggio purissimo, e divino
D'un'alma
coppia il rude ingegno affino.
Fra
tanto ella, che luce e scorta sia
Della
nobil da noi fatica presa,
Favorirà
per così lunga via
Quel
bel desir di c'ho la mente accesa;
Altrimenti
quest'opera saria
Oscura
troppo, e mal guidata impresa,
Né
sperarei, senza il suo lume grato,
Di
pervenirne al fin sì desiato.
FRANCESCO
Serenissimo, splendore
Del
fortunato Imperio di Toscana.
Voi,
che quel sete, senza il cui favore
Ogni
fatica mia reputo vana;
Degnisi
il vostro generoso core,
Per
l'alma sua virtù via più ch'umana
Talor
rivolger del mio basso ingegno
Gli
incolti versi, che cantando vegno.
E
voi BIANCA Illustrissima, ch'insieme
Di
casto unita, e maritale affetto
Lieta
regnate, e grazie alte e supreme
Spargete
in ogni cor vostro soggetto;
Voi
che sete non meno appoggio e speme
Di
quei pensier, che m'infiammaro il petto,
Non
sdegnate accettar questo umil dono,
Poi
che fra tanti anch'io serva vi sono.
Nel
più vago fiorir di quel ben nato
Secol
famoso, in quella età novella,
Ch'in
Attene piovea propizio il Fato
Quante
può grazie dar benigna stella,
Superbo
in lei sen gìa del regio ornato,
E
d'ogn'alma virtù pregiata e bella
Un
Re, non men prudente che gagliardo,
Giusto,
e uman, che si nomò Cleardo.
Con
felice Himeneo, lieto, e giocondo
Sciolti
avea i voti al protettor Cupido,
E
la stirpe real del Re Alismondo
Tolta
al Sicano e tratta al Greco lido,
Di
cui produsse una fanciulla al mondo,
C'ebbe
sopra le belle il pregio, e 'l grido,
E
fu dotata d'eccellente ingegno,
Che
in bel corpo non regna animo indegno.
Erano
i graziosi almi sembianti
Di
costei, che fu detta Celsidea,
Ei
suoi costumi sì leggiadri, e santi,
Che
parea non mortal donna, ma dea,
Tal
che sua fama a tutte l'altre inanti
Pel
mondo gìa, né d'altro si dicea;
E
mentre ogn'uom di lei parla, e favella,
Ogn'altra
perde il titol d'esser bella.
Soleva
il Re per suo contento il giorno
Farsi
seder questa fanciulla a lato,
Con
la Regina, e più donzelle intorno,
Ch'eran
le più gentil del greco stato.
Or
accade che stando in sala un giorno
Co'
Greci eroi nel modo, c'ho narrato,
Comparve
in mezzo un gran gigante e fiero,
A
cui rivolse ognun gli occhi, e 'l pensiero.
Costui
del Regno Armenio era partito,
Ove
gran tempo avea servita in vano
Una
giovene bella da marito,
Che
di quel Regno avea lo scettro in mano.
De'
cui begli occhi avendo il cor ferito
Venuto
era per lei presso che insano;
E
stimando più ch'altro esserle grato,
Si
tenea sopra ogn'amator beato.
Non
che l'amasse la gentil donzella,
Ch'era
amante per lei disconcio troppo;
Ma
perché lite avea con la sorella,
E
temea ognor di qualche strano intoppo,
Con
lieta vista, e con dolce favella
Lo
tenea stretto all'amoroso groppo;
E
l'avea un tempo in corte intertenuto,
Perché
al bisogno suo le desse aiuto.
Or
mentre egli in Armenia alla gran corte
Beato
serve e altier di tanta dama.
Ode
quanto gran biasmo il grido apporte
Di
questa greca a lei, ch'egli tanto ama,
E
gli accende una rabbia il cor sì forte,
Che
(se potesse) uccideria la fama,
Pur,
quando altro non può disegna almeno
Sfogar
nel regno acheo tanto veleno.
S'arma,
e prende licenza da colei,
Di
cui nel core impresso ha il viso adorno;
E
com'io dissi inanzi al re d'Achei
Si
transferì nella gran sala un giorno.
Tosto
ch'ei giunse, agli occhi iniqui e rei
S'appresentò
quella beltà che scorno
Al
sol facea, non che ad ogni altra bella;
Della
real illustre verginella.
All'estrema
bellezza, in cui le ciglia
Non
osò di fermar l'uom crudo e fiero,
Conobbe
lei per quell'eccelsa figlia,
Ch'erede
esser dovea del greco impero.
E
ne prese tra sé gran maraviglia,
Che
la sua dea mirando nel pensiero
Non
gli parve sì vaga e bella quanto
Era
costei, benché l'amasse tanto.
Con
tutto ciò, per non esser venuto
Indarno
e per l'amor ch'a lei portava,
E
per aver materia onde veduto
Fusse
il valor ch'ei tanto in sé stimava,
Non
volse rimaner tacendo muto,
E
voltatosi al re, ch'attento stava,
Disse
con alta e con superba voce,
Ch'ognuno
intese il suo parlar feroce.
–
Perché troppo s'estende il pregio e 'l grido,
Ch'alla
figliuola tua tal rende onore;
E
per colmar di gloria il parthio lido,
E
all'Armenia donar luce e splendore,
Io
Macandro ch'in Parthia ho 'l proprio nido,
E
son di tanto imperio alto Signore,
Son
venuto a provar con l'arme in mano,
Com'il
grido è dal ver troppo lontano.
E
dico, e vuo' provar nei tuoi terreni
Con
chi fra i guerrier tuoi più in pregio sale,
Che
la bella Biondaura, ch'agli Armeni
Comanda,
e al valor mio (ch'assai più vale)
Di
chiaro viso e d'occhi almi e sereni
Vince
tua figlia e non ha in terra uguale.
Dico
c'ha sì bel viso e sì giocondo,
Che
costei passa e non ha par nel mondo.
La
prova con la lancia e con la spada
Sia
per tre giorni, e di chi resta a piede
(Questo
patto fra noi voglio che vada)
Lo
scudo sia del vincitor mercede;
E
per ch'altro disturbo non accada,
Tu
m'assicurerai sulla tua fede,
Che
'l patto osserveranno i guerrier tuoi,
Senza
ch'altro romor nasca tra noi.
Io
me n'andrò (se 'l tuo parer l'approva)
Fuor
della terra al grand'Olivo accanto,
Et
ivi aspetterò chi venga in prova
Contra
di me, che di provar mi vanto,
Che
la Regina mia sol si ritrova,
I
cui begli occhi e 'l cui bel viso santo
Non
pur non cede alla bellezza altrui,
Ma
non è volto uman simile a lui.
Parve
a ciascun superba e arrogante
La
sua proposta e ne diè segno in vista.
Ma
tu, bella fanciulla, che sembiante,
Che
cor fu il tuo per così strana vista?
Il
re, che vede, che quel fier gigante
La
bella figlia sua turba e contrista,
Le
dice, figlia mia sia il pensier vostro
Di
trovar chi difenda il pregio nostro.
Io,
quanto a me, sulla mia fé prometto
Al
cavalier che non gli sia mancato,
E
poi che 'l vostro almo e leggiadro aspetto
Sparge
un grido sì chiaro e sì lodato,
Non
troverete un cavallier perfetto,
Che
vi difenda il pregio che vi è dato?
Vada
pur il guerrier, ch'avrà ben cura
Di
difendervi alcun, state sicura. –
Notò
Macandro altier che la richiesta
Non
pose in lui terror molto né poco,
E
si partì con un crollar di testa,
Quasi
sprezzando ognun, ch'era in quel loco.
Partito
l'empio in corte altro non resta
Da
ragionar, che del futuro gioco,
Che
tanto aggrada lor, quanto dispiace
La
gran superbia del gigante audace.
Erano
alcuni dì per gran ventura,
Ch'era
in Atene Apollideo venuto,
Cui
lo scettro devea di quelle mura,
Che
fondò de la cetra il suono arguto;
E
'l re de Sparta e quel di età matura
Griante
così forte e così astuto.
Eravi
anco Aliforte di Tessaglia,
Che
brama esser il primo alla battaglia.
Non
vede il franco re d'Arcadia l'ora,
Che
'l fier Macandro alla battaglia sfide,
E
gode di trovarsi ivi a quell'ora,
Il
medesmo pensier fa Polinide.
Costui
venne del Regno, ove Etna ogn'ora,
Sospirando
Tipheo, s'accende e stride;
Nipote
era del re per la consorte,
E
venne dianzi a visitar la corte.
Io
vuo' dir che suo padre era fratello
De
la regina moglie di Cleardo,
Che
fur del re Alismondo e questo e quello
Figli,
qual fu a dì suoi tanto gagliardo.
Poi
morto lui fu fatto re novello
Il
suo figliuol che si nomò Brancardo,
Padre
di Polinide, c'ho narrato,
E
di tutta Sicilia incoronato.
Quel
dì tutto e la sera i cavallieri,
Ch'uscir
devean contra il gigante strano,
Spesero
in governar l'arme e i destrieri
Per
non cader sì facilmente al piano;
E
ben ch'ognun d'esser vincente speri,
(Se
la ragion dà la vittoria in mano)
Non
però vol mancar di porsi a mente
Ogni
aviso più pronto e diligente.
A
pena l'alba in oriente apparse
Per
far l'antiqua scorta al novo giorno,
Che
d'alto suon tutta la terra sparse
Del
gran Macandro il formidabil corno.
Subito
in piazza Apollideo comparse.
E
rispose al gigante ingiuria e scorno.
In
tanto il popol vano di natura
Corse
in gran fretta ad occupar le mura.
Il
Principe teban licenza tolse
Prima
dal re, poi dalla regia figlia,
Nè
senza il suo consentimento volse
Torcer
un dito al suo destrier la briglia,
Indi
uer le gran porte il freno volse
Con
pochi che 'l seguir di sua famiglia,
E
il re con la figliuola e la mogliere,
Anch'ei
venne sul muro per vedere.
Le
cecropie donzelle e preghi e voti
Fanno
alla casta e bellicosa dea,
Perché
'l lor cavallier l'arcion non voti,
E
mantenga l'honor di Celsidea,
E
ei; pregando che d'effetto voti
Non
vadino i pensier, ch'in mente avea;
Lei
mira nel passar, ch'in mezzo splende
Di
cento belle e 'l cor gli instiga e accende.
Erane
occulto il cavaliero amante
Da
che mirò le belle luci sole,
E
dentro si struggea, qual cera inante
Rapido
foco, o neve esposta al sole.
Ma
nol rendeva Amor così arrogante,
Che
osasse a isguardi aggiunger le parole;
Tacito
egli adorava il divo aspetto,
Ch'era
sol refrigerio all'arso petto.
All'aprir
de la porta e all'uscir fuore
Con
molto ardir che fé, l'altiero Ismeno,
Brillò
nel volto e giubilò nel core
Il
gigante di gaudio e d'amor pieno.
E
certo di restarne vincitore,
E
d'antepor al greco il pregio armeno,
Si
move anch'ei, ma pria che gli risponda
Rivolge
il guardo alla palladia fronda.
Appeso
a un ramo avea del Sacro Olivo
Un'effigie
di donna alma e gentile,
D'un
aspetto sì nobile e sì divo,
Che
raro alcun se gli trovò simile,
A
questo che parea, non finto, vivo,
Sì
lo ritrasse un diligente stile,
Inchinossi
l'altier divoto e fido,
E
roppe insieme il ciel con questo grido.
–
Ben che degn'io non sia d'un favor tale,
O
de l'Armenia e del mio cor Regina,
Ch'essendo
un cavallier vile e mortale
Esaltar
cerchi una beltà divina;
Pur
accetta il voler pronto e leale,
Che
sol la tua grandezza adora; e inchina,
E
degna, ch'io per te vinca or gli Achei,
Che
poi voglio anco in ciel vincer gli dèi.
Con
questo allentò il freno e punse il fianco
Al
suo destrier, che per lo prato corse;
L'Agenoreo
guerrier non fece manco,
Che
dritto verso lui la briglia torse,
E
andollo a colpir sì ardito e franco,
Che
maraviglia ai circonstanti porse;
Nell'incontrar
per colpa del cavallo
Pose
la lancia il fier gigante in fallo.
Non
fè così il teban che proprio giunse
Il
fier Macandro a mezzo de lo scudo,
Ma
doppio e ben ferrato indarno il punse,
Quantunque
fosse il colpo acerbo e crudo.
E
perché troppa forza al braccio aggiunse
Fracassò
l'asta insino al ferro nudo,
Né
si piegò il gigante, né si mosse
Come
una torre innanzi al vento fosse.
Dall'impeto
i cavalli trasportati
Con
poco lor disconcio oltra passaro,
E
poi ch'un pezzo andar, furon voltati
Da
i cavallier, ch'incontra si tornaro.
Macandro
bestemmiò le stelle e i fati,
Quando
conobbe il suo difetto chiaro,
E
l'assaltò una furia di maniera
Ch'Aletto
è più placabile e Megera.
Già
tratto il brando, onde più genti estinse
Il
buon tebano innanzi si facea,
Quando
il gigante addosso se gli spinse,
E
con quella gran colera ch'avea,
Prese
col braccio orrendo e in guisa strinse
L'elmetto
del campion di Celsidea,
E
se 'l tirò con tanta forza al petto,
Che
fu a cadere il cavallier costretto.
Vide
a questo ciascun che forza estrema
Avea
il gigante e non minor destrezza,
E
'l re (non che perciò s'affligga o tema)
Ben
si maravigliò di sua fierezza.
Le
donne argive, a cui speranza e tema
Combattea
'l cor, c'han fama di bellezza
Molto
si contristar, che 'l guerrier greco
Fusse
caduto e la lor gloria seco.
Ma
ben maggior fu la vergogna e l'ira,
Ch'Apollideo
di questo caso prese,
Onde
col brando la battaglia dira
Volea
seguir per vendicar l'offese;
Se
non che'l re, ch'a questo avea la mira,
Tosto
un messo mandò, che gliel contese,
E
insieme gli ordinò secondo il patto,
Che
'l vincitor lasciasse satisfatto.
Lo
scudo, ove la figlia di Peneo
Si
vedea ornar d'un novo arbor la terra,
Lascia
dunque al gigante Apollideo,
E
torna vergognoso nella terra;
E
nell'entrar del giovene cadmeo
Uscì
Aliforte alla seconda guerra,
Che
di tanti color vestir gli piace,
C'aver
suol l'arco annunciator di pace.
Era
questo garzon molto gagliardo,
Ma
di natura vano e arrogante,
Onde
vantossi innanzi al re Cleardo
Di
riportar lo scudo del gigante.
Venne
sì com'io dissi né più tardo
Di
lui fu l'avversario a farsi inante,
Corsero
il campo e presero la volta
Con
l'aste basse e con la briglia sciolta.
Colse
Macandro il guerrier di Tessaglia
Pur
allo scudo e fé sì picciol botta,
Che
senza aprirli pur piastra né maglia,
Volò
al ciel l'asta in mille tronchi rotta;
Né
più felice uscir della battaglia
Lo
vide il re della palladia frotta
Del
buon teban, quando nell'elmo urtollo
Macandro
sì che dell'arcion gettollo.
Non
fu sì tosto in terra che risorse
Il
cavalliero e rimontò in arcione,
E
'l proprio scudo all'avversario porse
Con
la gemmata insegna del pavone,
Indi
ver la cittade il freno torse,
E
mal contento uscì della tenzone.
Intanto
di giostrar tolse l'assunto
Un
altro cavallier, ch'era già in punto.
Di
Sparta era costui signor ch'io dico
Dell'Amphionio
re figliol minore,
Sì
liberal, sì di virtute amico,
Che
Sparta se lo elesse per signore.
Venne
egli incontra al vincitor nemico
Per
emendar del suo fratel l'errore;
Porta
ben nello scudo anch'ei l'alloro,
Ma
sopra l'elmo ha una corona d'oro.
Non
ebbe il buon Algier (così nomosse)
Del
frate Apollideo più destra sorte,
Ch'all'incontro
il terren verde percosse
Restando
in sella il suo avversario forte.
Griante
dopo lui ratto si mosse,
Il
più prudente cavallier di corte,
E
Macandro sfidò sdegnoso e fiero,
Ch'era
del quarto onor lieto e altero.
Quel
ch'ad ogn'altro cavallier successe
Col
fier Macandro anco a Griante avvenne,
Ch'all'incontro
il terren col tergo presse,
E
'l re de Parthi in sella si sostenne.
Risorto
il cavallier lo scudo cesse,
E
ripreso il cavallo indietro venne.
Intanto
il re d'Arcadia, Elion detto
Contra
Macandro espose il franco petto.
Ha
nello scudo una pantera pinta,
Con
arme bigie e sopraveste tale,
Così
il destriero avea la spoglia tinta
Però
di color vero e naturale.
Macandro
intento ad acquistar la quinta
Gloria,
com'abbia messo al destrier ale
Venne
a colpirlo con tal furia in fronte,
Che
'l pose a terra e v'avria posto un monte.
In
questo Polinide, che nepote
Era
del greco re per la mogliera,
Mont'a
cavallo e 'l fren gli allenta e scuote,
E
Macandro incontrò, che già mosso era.
Ma
dell'arcion piegar pur non lo puote;
Anzi
cadde egli ancor con gli altri in schiera,
E
diè a Macandro il verde scudo in mano,
Ove
pinto una spica era di grano.
Gli
dà lo scudo e dietro il suo destriero
Và
per pigliarlo e rimontarvi sopra,
Ma
'l caval corre via tanto leggiero,
Che
d'acquistarlo era difficil l'opra;
Non
cessa di seguirlo il cavalliero,
Alfin
che non si celi e non si copra,
Corre
il cavallo e tal vantaggio acquista,
Ch'esce
in breve ora al suo signor di vista.
Polinide
pur va dietro la pesta,
Finché
cacciossi in mezzo un bosco folto,
E
or per quella strada, ora per questa
Cercollo
assai, per che l'amava molto.
Una
vaga donzella alfin l'arresta,
La
qual gli viene incontra a freno sciolto,
E
tenendo il destrier che più non gisse
Sciolse
la lingua, e tai parole disse.
–
Dimmi per sorte, o cavalliero, avresti
Visto
un guerrier d'aspetto ardito e franco
Quindi
passar con belle e ricche vesti,
Di
cui l'insegna in verde è un giglio bianco?
Rispose
il buon Tinacrio: – Non han questi
Occhi
miei tal guerrier mai veduto anco.
Che
nome è 'l suo? – – Nol so, – disse la dama –
Sol
lo conosco all'abito e per fama.
Ho
bisogno di lui perché mi cavi
D'un
gran martir che nel mio petto ha stanza,
Poi
ch'egli vince tutti i casi gravi,
Tanto
è maggior la sua d'ogni possanza.
Ben
narrereiti i miei tormenti pravi,
E
quel dolor, ch'ogni dolor avanza,
Se
non c'ho troppo fretta di trovare
Quel
gentil cavallier, che non ha pare.
Io
lo vado cercando in ogni banda,
Ma
sempre al desir mio contrario il fato
In
loco a lui lontan mi gira e manda:
Pur
ho per spia che qui d'intorno è stato.
Forse
al Castel sarà della Ghirlanda,
Dove
concorre ogni guerrier pregiato
A
la ventura apparsa di novello
Nel
paese di Dacia in quel castello. –
–
Deh (disse Polinide alla donzella)
Narrami
questa impresa in cortesia,
Dimmi
come sia strana e come bella,
Di
che periglio e di che gloria sia.
Perch'io
disegno di venir a quella,
E
sarà forse la vittoria mia. –
Quando
la donna la preghiera intese
Subitamente
del destrier discese.
E
disse: – S'hai di venir meco brama,
Monta
in arcion, che verrò dietro in groppa,
E
come udii, ti narrerò per fama
L'alta
avventura, ove più d'un s'intoppa. –
Il
cavallier, che di trovarsi brama
A
quella impresa avventurosa troppa,
Accetta
il proferir della donzella,
Prende
la briglia e salta nella sella.
In
groppa la donzella se gli mise,
Poi
verso Dacia presero il sentiero,
E
cavalcando, come ella promise,
Così
narrar comincia al cavalliero.
–
La Regina di Dacia,
a cui conquise
Lo
sposo già destin crudel e fiero,
Come
a lui piacque, erede si rimase
Nelle
regali sue splendide case.
E
avendo quel cor che già tempo ebbe
La
casta Dido inverso il suo consorte
(Come
aver ogni vedova dovrebbe,)
Che
non aperse a van desir le porte,
La
sede marital, ch'al suo re debbe,
Pensò
di mantener fino alla morte,
E
poi ch'avea perduto il suo Signore
Di
viver senza sposo e senza amore.
Or
per sciagura un cavallier un giorno
In
quella corte venne a dar di petto,
E
di costei mirando il viso adorno
(Ch'era
ancor fresca e di leggiadro aspetto)
In
guisa n'arse, che la notte e 'l giorno
Traea
caldi sospir dall'arso petto.
Duca
di Transilvania il giovene era,
Bello
di viso e di real maniera.
D'altro
già mai non pensa, altro non brama,
Altro
non cerca il giovene infelice
Che
d'ottener la desiata dama,
Che
sola far lo può lieto e felice.
D'arrischiar
vita, facultade e fama,
Per
ogni via che lice, o che non lice,
Non
si cura egli, pur c'abbia il suo intento,
C'avutol
sia poi di morir contento.
In
corte era un garzon, che 'l re allevato
Sin
da fanciul d'ignobil schiatta avea,
E
era alla regina il più fidato,
Il
più caro di molti, che tenea.
Pensa
poter costui rendere ingrato
Con
danari e proporli ogni opra rea
Il
duca e 'l trova e come meglio puote,
Prova
la mente sua con queste note.
«Tu
sai Parmin (così nomar l'udia)
Che
mentre stato in questa corte io sono,
Io
servitù da te, tù cortesia
Da
me n'avesti e più d'un ricco dono;
E
parmi che tra noi contratta sia
Già
sì grande amicizia che non sono
Così
grandi servigi, ov'io vedessi
D'apportarti
piacer, ch'io non facessi.
E
così credo ancor, che dal tuo canto,
S'io
ti scoprissi un certo mio bisogno,
Tu
saresti prontissimo altrettanto
Ad
essequir quel ch'io bramo e agogno,
E
porresti ad effetto il desir tanto,
Che
senza il tuo favor reputo un sogno;
E
se in questo mio affar sarai discreto,
Tu
ricco e io sarò contento e lieto».
Parmin,
ch'avea già fatto esperienza,
Ch'egli
era un ricco e liberal signore,
Gli
disse: «Ormai devresti conoscenza
Aver
del mio ver te concetto amore;
Narrami
questa tua nova occorrenza;
Fa
ch'io sappia quel c'hai chiuso nel core,
Che
non son cose al mondo così grandi,
Ch'io
non facessi a un sol de tuoi comandi.»
Rispose
il cavallier: «Poscia che veggio,
Che
sei sì pronto e di servirmi hai brama,
Sappi
che molti dì son, ch'io vaneggio
Per
la beltà d'una leggiadra dama,
E
ogni giorno andrò di mal in peggio
S'io
non ottengo lei che 'l mio cor brama;
Se
non mi dai, Parmin, presto soccorso
Io
son al fin già di mia vita corso».
«Dimmi
qual è costei (Parmin gli disse),
Né
dubitar, ch'io non la vinci e dome».
«È
la Regina che 'l mio cor trafisse,
Rispose
Amandrian (così avea nome)
«In
lei le voglie mie son ferme e fisse,
Ne'
suoi begli occhi e nell'aurate chiome.
Io
te l'ho detto, ora che l'odi e sai,
Non
mi mancar, poi che promesso m'hai».
Parmin
rimase attonito e confuso,
De
la promessa sua molto pentito,
Ma
il cavallier, ch'era in tal pratiche uso,
Tosto
un ricco rubin gli pose in dito.
Disse
tra sé Parmin, s'io me ne scuso,
S'io
lascio di accettar questo partito,
Quando
mai più di farmi ricco il tempo
Verrà,
s'io non mi faccio or, che n'ho tempo?»
Fece
animo, e gli disse:« Amandriano,
Grande
è la tua richiesta e assai mi doglio,
Che
vogli, ch'io ti tenga in cosa mano
Troppo
nefanda, il che mai far non soglio;
Pur
perché 'l detto mio non resti vano,
E
per tua gentilezza oprar mi voglio;
Dimmi
pur tu ciò, che ti par che faccia,
Che
'l tutto son per far, pur ch'io ti piaccia».
Il
cavallier, ch'innanzi avea pensato
Come
ingannar potesse la regina,
Rese
Parmin benissimo informato
Del
modo onde gabbarla ei si destina.
Lascia
Parmino il duca innamorato,
E
verso la real stanza cammina,
E
trova con bel modo occasione,
Che
la Regina il manda a Belgirone.
Belgiron
di tre leghe era lontano,
Da
diporto un castel vago, e adorno,
Qui
(secondo insegnolli Amandriano)
Fa
quella notte il rio Parmin soggiorno;
Poi,
quando spunta il sol dall'oceano,
Fa
in molta fretta alla città ritorno,
Va
alla regina, e voler farla accorta
Mostra
d'un caso, a suo parer, ch'importa.
La
regina l'ascolta volentieri
(Ch'ogn'un
d'udir da novo ha gran diletto)
E
fa le damigelle e i camerieri
A
un cenno sol partir dal suo cospetto.
Narra
Parmin: «Signora, io fui pur ieri
A
Belgiron, come m'avete detto,
Dove
essequito il vostro alto comando
Per
lo cortil men vo iersera errando.
Mentre
soletto al fresco erro e passeggio,
E
miro il prato verde e 'l ciel sereno,
Moversi
il suolo a me propinquo veggio,
Come
una talpe sia sotto il terreno.
Mi
fermo e guardo e nel guardar m'aveggio,
Che
s'alza il prato e fa gravido il seno,
Né
molto sta, che dal terren produtto
Vien
un felice e mostruoso frutto.
Io
vidi con questi occhi e a pena loro
Posso
anco prestar fede e pur fu vero,
Con
bianco pelo e picciol corno d'oro
Uscirmi
incontro un bel giuvenco altiero.
Fioria
sotto il suo piè sì bel tesoro
Di
chiare gemme, che abbagliar mi fero.
Dico
ogni fior ch'egli calcando venne,
Di
perla o di rubin la forma ottenne.
Confuso
di sì strana maraviglia,
Io
non so allor quel che mi debba fare;
Sul
principio un desir m'afferra e piglia
D'empir
le man di quelle pietre rare;
Ma
novello pensier poi mi consiglia,
Ch'io
provi il bel giovenco di acquistare,
Che
non invidio all'eritree maremme
S'acquisto
il tor che fa fiorir le gemme.
Stendo
la man per afferrargli un corno,
Ma
quel si scuote e al mio desir non cede,
Et
io lo vo pur circondando intorno,
E
affatico invan la mano e 'l piede.
Alfin
nel primo mio pensier ritorno
Di
farmi almen di quel tesoro erede,
Mi
chino e apro la man, ma quel non meno
Sotto
la palma mia sgombra il terreno.
Poi
che quello ottener non posso e vaglio,
Ritorno
al toro e quel s'arretra e fugge,
Or
con quello, or con questo io mi travaglio
E
dolor e desir l'alma mi strugge.
Il
toro alfin veggendo il mio travaglio
Si
volge a me, né come toro mugge,
Ma
com'uom, ch'intelletto abbia e loquela
Il
fin di questo error m'apre e rivela.
«Non
è fatto per te, Parmin (mi dice),
La
strana e felicissima avventura,
Né
'l mio tesor toccare ad alcun lice,
E
d'acquistarmi indarno altri procura;
Sol
la regina tua può gir felice
Del
ben di cui il maggior non fé natura,
La
ricca preda a lei sola si deve,
Per
un disturbo rio ch'aver de' in breve.
Sappi,
ch'in breve un re forte e possente
Le
ha da far gverra e porla in gran tristezza,
Perché
con l'or le mancherà la gente,
E
sarà in gran necessità e strettezza,
E
però un savio mago suo parente
Pose
nel piede mio questa richezza,
Avendo
l'empio suo caso preuisto,
Perch'al
bisogno ella ne fesse acquisto.
Or
che 'l tempo è venuto, io m'ho scoperto
A
te, che sei fra tutti i suoi più fido,
Però
diman la trova e falle aperto
Il
ben che dentro a me chiudo e annido.
Dille
che venga sola e sia coperto
Il
suo venir, nè alcun ne senta il grido;
Giunga
di notte e fuor che te non sia
Altri
che venga a farle compagnia.
Prenderammi
ella, e sia vittoriosa
Sol
per virtù de i preziosi sassi».
Così
dicendo entro la tana ascosa
Insieme
ritirò le pietre e i passi.
Allor
s'aggiunse in un la terra erbosa,
E
io restai in pensier con gli occhi bassi,
Né
tutta notte mai potei dormire,
Tanto
avea di condurmi a voi desire».
La
semplice regina, che gran fede
Avea
in Parmin per lunga esperienza,
Tutto
quel ch'ei le dice ascolta e crede,
Quando
men gli devea prestar credenza;
E
molto più da credere le diede,
Perch'era
il ver ch'un zio d'alta scienza
Ella
ebbe già nell'arte di Medea,
Che
l'avventura fatta aver potea.
Subito
entra in pensier che re sia quello
Che
le ha da mover guerra, e come e quando;
E
già più d'un discorso iniquo e fello
La
dubbia mente sua vien conturbando.
Già,
come a lei vicin fosse il drappello
De
nemici, si pensa ir preparando:
È
donna, il caso è grave che la preme
E
breve il tempo, ond'ha ragion se teme.
Gli
è ver ch'assai le dà speme e conforto
Quel
che le ha detto il suo fedel Parmino,
Chel
felice giovenco da lui scorto
Può
trarla d'ogni crudo, empio destino.
Onde
non crede mai che resti morto
Il
giorno per poter porsi in camino.
Non
vede l'ora mai che giunga sera
Per
gir a Belgiron con l'aria nera.
La
notte era lunghetta e la via corta
Sì
che spera di far presta tornata,
Né
farà l'alba al sol l'usata scorta
Ch'ella
nel letto suo sia ritornata.
Come
la notte in ciel le stelle apporta
E
ch'al suo loco è tutta la brigata,
Parmin
due corridori in punto pone,
E
aspetta, che dorman le persone.
Ma
vince il sonno ogn'alma e sparge a pena
Del
suo liquor lo smemorato oblio,
E
Morfeo rappresenta in varia scena
Più
d'un caso a mortali o buono, o rio,
Che
la Regina fuor di casa mena
D'acquistar
l'avventura alto desio,
E
l'infido Parmin, di cui si fida
Ella,
va seco e le è compagno e guida.
Sopra
buoni destrier spronaro tanto
Ch'in
men d'un ora giunsero al castello.
Dentro
vegghiava Amandrian da un canto,
Ch'à
un certo segno aprir devea il portello.
Stava
ad udir; Parmin fa il segno in tanto,
Né
stette il duca a dimandar chi è quello;
Ma
chetamente aperse e senza luce
E
la regina dentro si conduce.
Parmin
l'incauta donna al buio tira
Dentro
un ostel, dove non è persona;
E
ecco Amandrian, ch'arde e sospira
Vien
per sforzar la bella sua persona;
Ma
la cosa non va, com'ei desira,
Che
spesso avvien, quel ch'in proverbio suona;
Che
per pena riman del suo peccato
L'ingannator
a piè dell'ingannato.
Amandrian
si crede ne le braccia
La
bella donna aver ch'ama e desia,
Ma
in quella vece una persona abbraccia,
Che
non gli par, che la regina sia,
La
qual così lo stringe e sì lo impaccia,
Che
più tenaglia stringer non potria,
Nè
val che si dibatta e si dimene,
Che
preso alfin e via portato viene.
Il
medesimo fu fatto a Parmino;
La
regina rimase al buio sola;
Più
d'un ohimè sentì dirsi vicino
Che
tutta la spaventa e disconsola.
Parmin
non sente più; chiama Parmino,
E
non s'ode rispondere parola,
Non
vede tor, non vede cosa alcuna,
E
comincia a temer di sua fortuna.
Né
sapendo che farsi, afflitta e muta,
Senza
punto dormir, con molto affanno,
Stette
finché l'aurora in ciel venuta
Scoprì
l'aurato suo lucido panno.
Come
desto ogni uccello il dì saluta,
E
rende il bel matin più verde l'anno,
La
donna innanzi a sé stupenda e nova
Una
superba macchina ritrova.
In
forma di piramide è composta
E
risplende e traspar come un cristallo.
Nell'alta
cima una ghirlanda è posta
Di
rossi fiori assai più che corallo.
La
donna sbigottita se le accosta
E
vede in penitenza del suo fallo
Dentro
Parmino e 'l transilvanio duce,
Che
'l muro al guardo suo chiaro traluce.
La
Regina conosce ognun di loro
Ma
il fatto ancor discerner ben non puote;
E
ecco nella pietra in lettere d'oro
Vede
uniti i caratteri e le note
Che
le scoprir la finzion del toro
E
le fer tutte quelle fraudi note.
Lesse
poi che Parmino e 'l duca esterno,
De
la pregion non uscirà in eterno
S'un
cavallier non vien d'ingegno tale,
Di
tal valor, che quell'incanto opprima,
E
spogli la piramide fatale
Della
girlanda posta in su la cima.
«Quando
(era scritto) alcun pur metta l'ale,
E
voli ad acquistar la spoglia opima,
Se
re fia quel ch'avrà sì ricco pegno,
Non
sia cacciato mai del proprio regno.
Ma
se sarà privato cavalliero
Quel
ch'avrà la ghirlanda in sua balia,
Sarà
col tempo assunto a qualche impero,
Né
sia cacciato mai di signoria.
E
se a donna o donzella il cerchio altero
Venirà
nelle man, sicura sia,
Che
la sua castità le sia guardata
Contra
ogni mente disleale e ingrata.
E
per ch'abbia ciascun conoscimento
Di
chi quest'opra fé tanto importante,
Sappi
che ti guardò da tradimento
Nobil
Regina, il vecchio Celidante».
La
Regina, compreso il fiero intento
Del
servo avaro e dell'audace amante,
Scopertasi
alla gente del castello
Lor
fé palese il caso iniquo e fello.
Sparsesi
il grido, onde più d'un provato
S'ha
poi per acquistar tanta corona.
Un
gran martello d'or quivi è attaccato,
Con
cui si batte il marmo, che risuona.
Allor
s'apre una porta, ond'esce armato
Un
re che sembra al volto e alla persona
Il
re di Dacia, che fu già diletto
Sposo
della Regina ch'io t'ho detto.
Il
qual combatte con sì gran possanza,
Che
vince ogni guerrier gagliardo e forte,
E
lo caccia per forza in quella stanza
Donde
egli è uscito e poi serra le porte,
E
se non è chiamato a nova danza
Da
novo suon non esce nella corte. –
Così
la donna cavalcando parla
Al
cavallier, che stava ad ascoltarla.
Ma
non son di costor per dirvi tanto,
Ch'io
non pensi tornar nel greco regno,
Dove
il gigante avea la palma e 'l vanto
Tolto
di man a ogni guerrier più degno.
Dissi,
ch'Algier, ch'in Sparta ha 'l regio manto
Gli
ha lo scudo e 'l Teban lasciato in pegno,
Elion,
Aliforte e quel prudente
Griante,
e Polinide finalmente.
Oltra
questi Macandro al pian distese
Molti
altri e acquistò palma novella,
E
gli scudi da lor ch'in premio prese
Consacrò
tutti a quella imagin bella;
Quando
il re, non scorgendo in sue difese
Altri
in quel punto apparrecchiarsi in sella,
Verso
il palagio suo fece ritorno,
Ch'era
già il sol propinquo al mezzogiorno.
Macandro
vincitor lieto rimase
A
mirar la sua dea, felice amante,
Il
cui fervente amor lo persuase
A
mostrar qui le sue prodezze tante.
Tornò
tutta la gente alle sue case
Con
replicar le forze del gigante,
E
le donzelle avean tutte dolore
D'aver
perduto il lor sì grato onore.
Ma
Celsidea più ch'altri si sconforta
Che
sia la gloria sua sì presto spenta,
Benché
la sua modestia non comporta
Che
se ne mostri afflitta e malcontenta.
Quel
giorno e l'altro uscir fuor della porta
Contra
il gigante uom non ardisce e tenta.
Nel
terzo vi comparve un cavalliero
Di
cui narrar nell'altro canto spero.
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