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Modesta Pozzo de' Zorzi (alias Moderata Fonte)
Tredici canti del Floridoro

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  • CANTO PRIMO
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CANTO PRIMO



Argomento


Giunto Macandro alle Cecropie mura

Abbate tutti i cavallier di Corte.

Segue il destrier dentro una selva oscura

Lungi il Sican da le Palladie porte.

Gli narra una donzella l'avventura

Della ghirlanda, e di Parmin la sorte.

Macandro in gran terror pon tutta Atene,

Alfin un cavallier contra gli viene.




Scegli d'ornati, e ben composti accenti

Il più bel fior, leggiadra Musa, e canta

Li spogliati trofei, gli incendi spenti

Dal tempo, ond'ancor Marte e Amor si vanta.

Di' le battaglie rie, le fiamme ardenti,

Ch'uscir da l'arme, e dalla face santa

Allor, che 'l fero Dio gli altari avea,

E Ciprigna adorata era per Dea.


Canta l'inclite imprese, e i dolci affetti

De' cavallieri, e de le donne illustri,

Fa' che di quelle man, di questi petti

Viva il pregio, e la gioia eterni lustri;

E agguaglia lo stil con quei concetti,

Ch'escon de' pensier miei vaghi e industri,

Mentre al raggio purissimo, e divino

D'un'alma coppia il rude ingegno affino.


Fra tanto ella, che luce e scorta sia

Della nobil da noi fatica presa,

Favorirà per così lunga via

Quel bel desir di c'ho la mente accesa;

Altrimenti quest'opera saria

Oscura troppo, e mal guidata impresa,

sperarei, senza il suo lume grato,

Di pervenirne al findesiato.


FRANCESCO Serenissimo, splendore

Del fortunato Imperio di Toscana.

Voi, che quel sete, senza il cui favore

Ogni fatica mia reputo vana;

Degnisi il vostro generoso core,

Per l'alma sua virtù via più ch'umana

Talor rivolger del mio basso ingegno

Gli incolti versi, che cantando vegno.


E voi BIANCA Illustrissima, ch'insieme

Di casto unita, e maritale affetto

Lieta regnate, e grazie alte e supreme

Spargete in ogni cor vostro soggetto;

Voi che sete non meno appoggio e speme

Di quei pensier, che m'infiammaro il petto,

Non sdegnate accettar questo umil dono,

Poi che fra tanti anch'io serva vi sono.


Nel più vago fiorir di quel ben nato

Secol famoso, in quella età novella,

Ch'in Attene piovea propizio il Fato

Quante può grazie dar benigna stella,

Superbo in lei sen gìa del regio ornato,

E d'ogn'alma virtù pregiata e bella

Un Re, non men prudente che gagliardo,

Giusto, e uman, che si nomò Cleardo.


Con felice Himeneo, lieto, e giocondo

Sciolti avea i voti al protettor Cupido,

E la stirpe real del Re Alismondo

Tolta al Sicano e tratta al Greco lido,

Di cui produsse una fanciulla al mondo,

C'ebbe sopra le belle il pregio, e 'l grido,

E fu dotata d'eccellente ingegno,

Che in bel corpo non regna animo indegno.


Erano i graziosi almi sembianti

Di costei, che fu detta Celsidea,

Ei suoi costumileggiadri, e santi,

Che parea non mortal donna, ma dea,

Tal che sua fama a tutte l'altre inanti

Pel mondo gìa, né d'altro si dicea;

E mentre ogn'uom di lei parla, e favella,

Ogn'altra perde il titol d'esser bella.


Soleva il Re per suo contento il giorno

Farsi seder questa fanciulla a lato,

Con la Regina, e più donzelle intorno,

Ch'eran le più gentil del greco stato.

Or accade che stando in sala un giorno

Co' Greci eroi nel modo, c'ho narrato,

Comparve in mezzo un gran gigante e fiero,

A cui rivolse ognun gli occhi, e 'l pensiero.


Costui del Regno Armenio era partito,

Ove gran tempo avea servita in vano

Una giovene bella da marito,

Che di quel Regno avea lo scettro in mano.

De' cui begli occhi avendo il cor ferito

Venuto era per lei presso che insano;

E stimando più ch'altro esserle grato,

Si tenea sopra ogn'amator beato.


Non che l'amasse la gentil donzella,

Ch'era amante per lei disconcio troppo;

Ma perché lite avea con la sorella,

E temea ognor di qualche strano intoppo,

Con lieta vista, e con dolce favella

Lo tenea stretto all'amoroso groppo;

E l'avea un tempo in corte intertenuto,

Perché al bisogno suo le desse aiuto.


Or mentre egli in Armenia alla gran corte

Beato serve e altier di tanta dama.

Ode quanto gran biasmo il grido apporte

Di questa greca a lei, ch'egli tanto ama,

E gli accende una rabbia il corforte,

Che (se potesse) uccideria la fama,

Pur, quando altro non può disegna almeno

Sfogar nel regno acheo tanto veleno.


S'arma, e prende licenza da colei,

Di cui nel core impresso ha il viso adorno;

E com'io dissi inanzi al re d'Achei

Si transferì nella gran sala un giorno.

Tosto ch'ei giunse, agli occhi iniqui e rei

S'appresentò quella beltà che scorno

Al sol facea, non che ad ogni altra bella;

Della real illustre verginella.


All'estrema bellezza, in cui le ciglia

Non osò di fermar l'uom crudo e fiero,

Conobbe lei per quell'eccelsa figlia,

Ch'erede esser dovea del greco impero.

E ne prese tra sé gran maraviglia,

Che la sua dea mirando nel pensiero

Non gli parvevaga e bella quanto

Era costei, benché l'amasse tanto.


Con tutto ciò, per non esser venuto

Indarno e per l'amor ch'a lei portava,

E per aver materia onde veduto

Fusse il valor ch'ei tanto in sé stimava,

Non volse rimaner tacendo muto,

E voltatosi al re, ch'attento stava,

Disse con alta e con superba voce,

Ch'ognuno intese il suo parlar feroce.


– Perché troppo s'estende il pregio e 'l grido,

Ch'alla figliuola tua tal rende onore;

E per colmar di gloria il parthio lido,

E all'Armenia donar luce e splendore,

Io Macandro ch'in Parthia ho 'l proprio nido,

E son di tanto imperio alto Signore,

Son venuto a provar con l'arme in mano,

Com'il grido è dal ver troppo lontano.


E dico, e vuo' provar nei tuoi terreni

Con chi fra i guerrier tuoi più in pregio sale,

Che la bella Biondaura, ch'agli Armeni

Comanda, e al valor mio (ch'assai più vale)

Di chiaro viso e d'occhi almi e sereni

Vince tua figlia e non ha in terra uguale.

Dico c'ha sì bel viso e sì giocondo,

Che costei passa e non ha par nel mondo.


La prova con la lancia e con la spada

Sia per tre giorni, e di chi resta a piede

(Questo patto fra noi voglio che vada)

Lo scudo sia del vincitor mercede;

E per ch'altro disturbo non accada,

Tu m'assicurerai sulla tua fede,

Che 'l patto osserveranno i guerrier tuoi,

Senza ch'altro romor nasca tra noi.


Io me n'andrò (se 'l tuo parer l'approva)

Fuor della terra al grand'Olivo accanto,

Et ivi aspetterò chi venga in prova

Contra di me, che di provar mi vanto,

Che la Regina mia sol si ritrova,

I cui begli occhi e 'l cui bel viso santo

Non pur non cede alla bellezza altrui,

Ma non è volto uman simile a lui.


Parve a ciascun superba e arrogante

La sua proposta e ne diè segno in vista.

Ma tu, bella fanciulla, che sembiante,

Che cor fu il tuo per così strana vista?

Il re, che vede, che quel fier gigante

La bella figlia sua turba e contrista,

Le dice, figlia mia sia il pensier vostro

Di trovar chi difenda il pregio nostro.


Io, quanto a me, sulla mia prometto

Al cavalier che non gli sia mancato,

E poi che 'l vostro almo e leggiadro aspetto

Sparge un gridochiaro e sì lodato,

Non troverete un cavallier perfetto,

Che vi difenda il pregio che vi è dato?

Vada pur il guerrier, ch'avrà ben cura

Di difendervi alcun, state sicura. –


Notò Macandro altier che la richiesta

Non pose in lui terror molto né poco,

E si partì con un crollar di testa,

Quasi sprezzando ognun, ch'era in quel loco.

Partito l'empio in corte altro non resta

Da ragionar, che del futuro gioco,

Che tanto aggrada lor, quanto dispiace

La gran superbia del gigante audace.


Erano alcuni per gran ventura,

Ch'era in Atene Apollideo venuto,

Cui lo scettro devea di quelle mura,

Che fondò de la cetra il suono arguto;

E 'l re de Sparta e quel di età matura

Griante così forte e così astuto.

Eravi anco Aliforte di Tessaglia,

Che brama esser il primo alla battaglia.


Non vede il franco re d'Arcadia l'ora,

Che 'l fier Macandro alla battaglia sfide,

E gode di trovarsi ivi a quell'ora,

Il medesmo pensier fa Polinide.

Costui venne del Regno, ove Etna ogn'ora,

Sospirando Tipheo, s'accende e stride;

Nipote era del re per la consorte,

E venne dianzi a visitar la corte.


Io vuo' dir che suo padre era fratello

De la regina moglie di Cleardo,

Che fur del re Alismondo e questo e quello

Figli, qual fu a suoi tanto gagliardo.

Poi morto lui fu fatto re novello

Il suo figliuol che si nomò Brancardo,

Padre di Polinide, c'ho narrato,

E di tutta Sicilia incoronato.


Quel tutto e la sera i cavallieri,

Ch'uscir devean contra il gigante strano,

Spesero in governar l'arme e i destrieri

Per non caderfacilmente al piano;

E ben ch'ognun d'esser vincente speri,

(Se la ragion la vittoria in mano)

Non però vol mancar di porsi a mente

Ogni aviso più pronto e diligente.


A pena l'alba in oriente apparse

Per far l'antiqua scorta al novo giorno,

Che d'alto suon tutta la terra sparse

Del gran Macandro il formidabil corno.

Subito in piazza Apollideo comparse.

E rispose al gigante ingiuria e scorno.

In tanto il popol vano di natura

Corse in gran fretta ad occupar le mura.


Il Principe teban licenza tolse

Prima dal re, poi dalla regia figlia,

senza il suo consentimento volse

Torcer un dito al suo destrier la briglia,

Indi uer le gran porte il freno volse

Con pochi che 'l seguir di sua famiglia,

E il re con la figliuola e la mogliere,

Anch'ei venne sul muro per vedere.


Le cecropie donzelle e preghi e voti

Fanno alla casta e bellicosa dea,

Perché 'l lor cavallier l'arcion non voti,

E mantenga l'honor di Celsidea,

E ei; pregando che d'effetto voti

Non vadino i pensier, ch'in mente avea;

Lei mira nel passar, ch'in mezzo splende

Di cento belle e 'l cor gli instiga e accende.


Erane occulto il cavaliero amante

Da che mirò le belle luci sole,

E dentro si struggea, qual cera inante

Rapido foco, o neve esposta al sole.

Ma nol rendeva Amor così arrogante,

Che osasse a isguardi aggiunger le parole;

Tacito egli adorava il divo aspetto,

Ch'era sol refrigerio all'arso petto.


All'aprir de la porta e all'uscir fuore

Con molto ardir che , l'altiero Ismeno,

Brillò nel volto e giubilò nel core

Il gigante di gaudio e d'amor pieno.

E certo di restarne vincitore,

E d'antepor al greco il pregio armeno,

Si move anch'ei, ma pria che gli risponda

Rivolge il guardo alla palladia fronda.


Appeso a un ramo avea del Sacro Olivo

Un'effigie di donna alma e gentile,

D'un aspettonobile e sì divo,

Che raro alcun se gli trovò simile,

A questo che parea, non finto, vivo,

Sì lo ritrasse un diligente stile,

Inchinossi l'altier divoto e fido,

E roppe insieme il ciel con questo grido.


– Ben che degn'io non sia d'un favor tale,

O de l'Armenia e del mio cor Regina,

Ch'essendo un cavallier vile e mortale

Esaltar cerchi una beltà divina;

Pur accetta il voler pronto e leale,

Che sol la tua grandezza adora; e inchina,

E degna, ch'io per te vinca or gli Achei,

Che poi voglio anco in ciel vincer gli dèi.


Con questo allentò il freno e punse il fianco

Al suo destrier, che per lo prato corse;

L'Agenoreo guerrier non fece manco,

Che dritto verso lui la briglia torse,

E andollo a colpirardito e franco,

Che maraviglia ai circonstanti porse;

Nell'incontrar per colpa del cavallo

Pose la lancia il fier gigante in fallo.


Non così il teban che proprio giunse

Il fier Macandro a mezzo de lo scudo,

Ma doppio e ben ferrato indarno il punse,

Quantunque fosse il colpo acerbo e crudo.

E perché troppa forza al braccio aggiunse

Fracassò l'asta insino al ferro nudo,

Né si piegò il gigante, né si mosse

Come una torre innanzi al vento fosse.


Dall'impeto i cavalli trasportati

Con poco lor disconcio oltra passaro,

E poi ch'un pezzo andar, furon voltati

Da i cavallier, ch'incontra si tornaro.

Macandro bestemmiò le stelle e i fati,

Quando conobbe il suo difetto chiaro,

E l'assaltò una furia di maniera

Ch'Aletto è più placabile e Megera.


Già tratto il brando, onde più genti estinse

Il buon tebano innanzi si facea,

Quando il gigante addosso se gli spinse,

E con quella gran colera ch'avea,

Prese col braccio orrendo e in guisa strinse

L'elmetto del campion di Celsidea,

E se 'l tirò con tanta forza al petto,

Che fu a cadere il cavallier costretto.


Vide a questo ciascun che forza estrema

Avea il gigante e non minor destrezza,

E 'l re (non che perciò s'affligga o tema)

Ben si maravigliò di sua fierezza.

Le donne argive, a cui speranza e tema

Combattea 'l cor, c'han fama di bellezza

Molto si contristar, che 'l guerrier greco

Fusse caduto e la lor gloria seco.


Ma ben maggior fu la vergogna e l'ira,

Ch'Apollideo di questo caso prese,

Onde col brando la battaglia dira

Volea seguir per vendicar l'offese;

Se non che'l re, ch'a questo avea la mira,

Tosto un messo mandò, che gliel contese,

E insieme gli ordinò secondo il patto,

Che 'l vincitor lasciasse satisfatto.


Lo scudo, ove la figlia di Peneo

Si vedea ornar d'un novo arbor la terra,

Lascia dunque al gigante Apollideo,

E torna vergognoso nella terra;

E nell'entrar del giovene cadmeo

Uscì Aliforte alla seconda guerra,

Che di tanti color vestir gli piace,

C'aver suol l'arco annunciator di pace.


Era questo garzon molto gagliardo,

Ma di natura vano e arrogante,

Onde vantossi innanzi al re Cleardo

Di riportar lo scudo del gigante.

Venne sì com'io dissi né più tardo

Di lui fu l'avversario a farsi inante,

Corsero il campo e presero la volta

Con l'aste basse e con la briglia sciolta.


Colse Macandro il guerrier di Tessaglia

Pur allo scudo e picciol botta,

Che senza aprirli pur piastramaglia,

Volò al ciel l'asta in mille tronchi rotta;

Né più felice uscir della battaglia

Lo vide il re della palladia frotta

Del buon teban, quando nell'elmo urtollo

Macandro sì che dell'arcion gettollo.


Non fu sì tosto in terra che risorse

Il cavalliero e rimontò in arcione,

E 'l proprio scudo all'avversario porse

Con la gemmata insegna del pavone,

Indi ver la cittade il freno torse,

E mal contento uscì della tenzone.

Intanto di giostrar tolse l'assunto

Un altro cavallier, ch'era già in punto.


Di Sparta era costui signor ch'io dico

Dell'Amphionio re figliol minore,

liberal, sì di virtute amico,

Che Sparta se lo elesse per signore.

Venne egli incontra al vincitor nemico

Per emendar del suo fratel l'errore;

Porta ben nello scudo anch'ei l'alloro,

Ma sopra l'elmo ha una corona d'oro.


Non ebbe il buon Algier (così nomosse)

Del frate Apollideo più destra sorte,

Ch'all'incontro il terren verde percosse

Restando in sella il suo avversario forte.

Griante dopo lui ratto si mosse,

Il più prudente cavallier di corte,

E Macandro sfidò sdegnoso e fiero,

Ch'era del quarto onor lieto e altero.


Quel ch'ad ogn'altro cavallier successe

Col fier Macandro anco a Griante avvenne,

Ch'all'incontro il terren col tergo presse,

E 'l re de Parthi in sella si sostenne.

Risorto il cavallier lo scudo cesse,

E ripreso il cavallo indietro venne.

Intanto il re d'Arcadia, Elion detto

Contra Macandro espose il franco petto.


Ha nello scudo una pantera pinta,

Con arme bigie e sopraveste tale,

Così il destriero avea la spoglia tinta

Però di color vero e naturale.

Macandro intento ad acquistar la quinta

Gloria, com'abbia messo al destrier ale

Venne a colpirlo con tal furia in fronte,

Che 'l pose a terra e v'avria posto un monte.


In questo Polinide, che nepote

Era del greco re per la mogliera,

Mont'a cavallo e 'l fren gli allenta e scuote,

E Macandro incontrò, che già mosso era.

Ma dell'arcion piegar pur non lo puote;

Anzi cadde egli ancor con gli altri in schiera,

E diè a Macandro il verde scudo in mano,

Ove pinto una spica era di grano.


Gli lo scudo e dietro il suo destriero

per pigliarlo e rimontarvi sopra,

Ma 'l caval corre via tanto leggiero,

Che d'acquistarlo era difficil l'opra;

Non cessa di seguirlo il cavalliero,

Alfin che non si celi e non si copra,

Corre il cavallo e tal vantaggio acquista,

Ch'esce in breve ora al suo signor di vista.


Polinide pur va dietro la pesta,

Finché cacciossi in mezzo un bosco folto,

E or per quella strada, ora per questa

Cercollo assai, per che l'amava molto.

Una vaga donzella alfin l'arresta,

La qual gli viene incontra a freno sciolto,

E tenendo il destrier che più non gisse

Sciolse la lingua, e tai parole disse.


Dimmi per sorte, o cavalliero, avresti

Visto un guerrier d'aspetto ardito e franco

Quindi passar con belle e ricche vesti,

Di cui l'insegna in verde è un giglio bianco?

Rispose il buon Tinacrio: – Non han questi

Occhi miei tal guerrier mai veduto anco.

Che nome è 'l suo? – – Nol so, – disse la dama

Sol lo conosco all'abito e per fama.


Ho bisogno di lui perché mi cavi

D'un gran martir che nel mio petto ha stanza,

Poi ch'egli vince tutti i casi gravi,

Tanto è maggior la sua d'ogni possanza.

Ben narrereiti i miei tormenti pravi,

E quel dolor, ch'ogni dolor avanza,

Se non c'ho troppo fretta di trovare

Quel gentil cavallier, che non ha pare.


Io lo vado cercando in ogni banda,

Ma sempre al desir mio contrario il fato

In loco a lui lontan mi gira e manda:

Pur ho per spia che qui d'intorno è stato.

Forse al Castel sarà della Ghirlanda,

Dove concorre ogni guerrier pregiato

A la ventura apparsa di novello

Nel paese di Dacia in quel castello. –


– Deh (disse Polinide alla donzella)

Narrami questa impresa in cortesia,

Dimmi come sia strana e come bella,

Di che periglio e di che gloria sia.

Perch'io disegno di venir a quella,

E sarà forse la vittoria mia. –

Quando la donna la preghiera intese

Subitamente del destrier discese.


E disse: – S'hai di venir meco brama,

Monta in arcion, che verrò dietro in groppa,

E come udii, ti narrerò per fama

L'alta avventura, ove più d'un s'intoppa. –

Il cavallier, che di trovarsi brama

A quella impresa avventurosa troppa,

Accetta il proferir della donzella,

Prende la briglia e salta nella sella.


In groppa la donzella se gli mise,

Poi verso Dacia presero il sentiero,

E cavalcando, come ella promise,

Così narrar comincia al cavalliero.

La Regina di Dacia, a cui conquise

Lo sposo già destin crudel e fiero,

Come a lui piacque, erede si rimase

Nelle regali sue splendide case.


E avendo quel cor che già tempo ebbe

La casta Dido inverso il suo consorte

(Come aver ogni vedova dovrebbe,)

Che non aperse a van desir le porte,

La sede marital, ch'al suo re debbe,

Pensò di mantener fino alla morte,

E poi ch'avea perduto il suo Signore

Di viver senza sposo e senza amore.


Or per sciagura un cavallier un giorno

In quella corte venne a dar di petto,

E di costei mirando il viso adorno

(Ch'era ancor fresca e di leggiadro aspetto)

In guisa n'arse, che la notte e 'l giorno

Traea caldi sospir dall'arso petto.

Duca di Transilvania il giovene era,

Bello di viso e di real maniera.


D'altro già mai non pensa, altro non brama,

Altro non cerca il giovene infelice

Che d'ottener la desiata dama,

Che sola far lo può lieto e felice.

D'arrischiar vita, facultade e fama,

Per ogni via che lice, o che non lice,

Non si cura egli, pur c'abbia il suo intento,

C'avutol sia poi di morir contento.


In corte era un garzon, che 'l re allevato

Sin da fanciul d'ignobil schiatta avea,

E era alla regina il più fidato,

Il più caro di molti, che tenea.

Pensa poter costui rendere ingrato

Con danari e proporli ogni opra rea

Il duca e 'l trova e come meglio puote,

Prova la mente sua con queste note.


«Tu sai Parmin (così nomar l'udia)

Che mentre stato in questa corte io sono,

Io servitù da te, cortesia

Da me n'avesti e più d'un ricco dono;

E parmi che tra noi contratta sia

Già sì grande amicizia che non sono

Così grandi servigi, ov'io vedessi

D'apportarti piacer, ch'io non facessi.


E così credo ancor, che dal tuo canto,

S'io ti scoprissi un certo mio bisogno,

Tu saresti prontissimo altrettanto

Ad essequir quel ch'io bramo e agogno,

E porresti ad effetto il desir tanto,

Che senza il tuo favor reputo un sogno;

E se in questo mio affar sarai discreto,

Tu ricco e io sarò contento e lieto».


Parmin, ch'avea già fatto esperienza,

Ch'egli era un ricco e liberal signore,

Gli disse: «Ormai devresti conoscenza

Aver del mio ver te concetto amore;

Narrami questa tua nova occorrenza;

Fa ch'io sappia quel c'hai chiuso nel core,

Che non son cose al mondo così grandi,

Ch'io non facessi a un sol de tuoi comandi


Rispose il cavallier: «Poscia che veggio,

Che sei sì pronto e di servirmi hai brama,

Sappi che molti son, ch'io vaneggio

Per la beltà d'una leggiadra dama,

E ogni giorno andrò di mal in peggio

S'io non ottengo lei che 'l mio cor brama;

Se non mi dai, Parmin, presto soccorso

Io son al fin già di mia vita corso».


«Dimmi qual è costei (Parmin gli disse),

dubitar, ch'io non la vinci e dome».

«È la Regina che 'l mio cor trafisse,

Rispose Amandrian (così avea nome)

«In lei le voglie mie son ferme e fisse,

Ne' suoi begli occhi e nell'aurate chiome.

Io te l'ho detto, ora che l'odi e sai,

Non mi mancar, poi che promesso m'hai».


Parmin rimase attonito e confuso,

De la promessa sua molto pentito,

Ma il cavallier, ch'era in tal pratiche uso,

Tosto un ricco rubin gli pose in dito.

Disse tra sé Parmin, s'io me ne scuso,

S'io lascio di accettar questo partito,

Quando mai più di farmi ricco il tempo

Verrà, s'io non mi faccio or, che n'ho tempo


Fece animo, e gli disseAmandriano,

Grande è la tua richiesta e assai mi doglio,

Che vogli, ch'io ti tenga in cosa mano

Troppo nefanda, il che mai far non soglio;

Pur perché 'l detto mio non resti vano,

E per tua gentilezza oprar mi voglio;

Dimmi pur tu ciò, che ti par che faccia,

Che 'l tutto son per far, pur ch'io ti piaccia».


Il cavallier, ch'innanzi avea pensato

Come ingannar potesse la regina,

Rese Parmin benissimo informato

Del modo onde gabbarla ei si destina.

Lascia Parmino il duca innamorato,

E verso la real stanza cammina,

E trova con bel modo occasione,

Che la Regina il manda a Belgirone.


Belgiron di tre leghe era lontano,

Da diporto un castel vago, e adorno,

Qui (secondo insegnolli Amandriano)

Fa quella notte il rio Parmin soggiorno;

Poi, quando spunta il sol dall'oceano,

Fa in molta fretta alla città ritorno,

Va alla regina, e voler farla accorta

Mostra d'un caso, a suo parer, ch'importa.


La regina l'ascolta volentieri

(Ch'ogn'un d'udir da novo ha gran diletto)

E fa le damigelle e i camerieri

A un cenno sol partir dal suo cospetto.

Narra Parmin: «Signora, io fui pur ieri

A Belgiron, come m'avete detto,

Dove essequito il vostro alto comando

Per lo cortil men vo iersera errando.


Mentre soletto al fresco erro e passeggio,

E miro il prato verde e 'l ciel sereno,

Moversi il suolo a me propinquo veggio,

Come una talpe sia sotto il terreno.

Mi fermo e guardo e nel guardar m'aveggio,

Che s'alza il prato e fa gravido il seno,

Né molto sta, che dal terren produtto

Vien un felice e mostruoso frutto.


Io vidi con questi occhi e a pena loro

Posso anco prestar fede e pur fu vero,

Con bianco pelo e picciol corno d'oro

Uscirmi incontro un bel giuvenco altiero.

Fioria sotto il suo pièbel tesoro

Di chiare gemme, che abbagliar mi fero.

Dico ogni fior ch'egli calcando venne,

Di perla o di rubin la forma ottenne.


Confuso di sì strana maraviglia,

Io non so allor quel che mi debba fare;

Sul principio un desir m'afferra e piglia

D'empir le man di quelle pietre rare;

Ma novello pensier poi mi consiglia,

Ch'io provi il bel giovenco di acquistare,

Che non invidio all'eritree maremme

S'acquisto il tor che fa fiorir le gemme.


Stendo la man per afferrargli un corno,

Ma quel si scuote e al mio desir non cede,

Et io lo vo pur circondando intorno,

E affatico invan la mano e 'l piede.

Alfin nel primo mio pensier ritorno

Di farmi almen di quel tesoro erede,

Mi chino e apro la man, ma quel non meno

Sotto la palma mia sgombra il terreno.


Poi che quello ottener non posso e vaglio,

Ritorno al toro e quel s'arretra e fugge,

Or con quello, or con questo io mi travaglio

E dolor e desir l'alma mi strugge.

Il toro alfin veggendo il mio travaglio

Si volge a me, né come toro mugge,

Ma com'uom, ch'intelletto abbia e loquela

Il fin di questo error m'apre e rivela.


«Non è fatto per te, Parmin (mi dice),

La strana e felicissima avventura,

Né 'l mio tesor toccare ad alcun lice,

E d'acquistarmi indarno altri procura;

Sol la regina tua può gir felice

Del ben di cui il maggior non natura,

La ricca preda a lei sola si deve,

Per un disturbo rio ch'aver de' in breve.


Sappi, ch'in breve un re forte e possente

Le ha da far gverra e porla in gran tristezza,

Perché con l'or le mancherà la gente,

E sarà in gran necessità e strettezza,

E però un savio mago suo parente

Pose nel piede mio questa richezza,

Avendo l'empio suo caso preuisto,

Perch'al bisogno ella ne fesse acquisto.


Or che 'l tempo è venuto, io m'ho scoperto

A te, che sei fra tutti i suoi più fido,

Però diman la trova e falle aperto

Il ben che dentro a me chiudo e annido.

Dille che venga sola e sia coperto

Il suo venir, alcun ne senta il grido;

Giunga di notte e fuor che te non sia

Altri che venga a farle compagnia.


Prenderammi ella, e sia vittoriosa

Sol per virtù de i preziosi sassi».

Così dicendo entro la tana ascosa

Insieme ritirò le pietre e i passi.

Allor s'aggiunse in un la terra erbosa,

E io restai in pensier con gli occhi bassi,

Né tutta notte mai potei dormire,

Tanto avea di condurmi a voi desire».


La semplice regina, che gran fede

Avea in Parmin per lunga esperienza,

Tutto quel ch'ei le dice ascolta e crede,

Quando men gli devea prestar credenza;

E molto più da credere le diede,

Perch'era il ver ch'un zio d'alta scienza

Ella ebbe già nell'arte di Medea,

Che l'avventura fatta aver potea.


Subito entra in pensier che re sia quello

Che le ha da mover guerra, e come e quando;

E già più d'un discorso iniquo e fello

La dubbia mente sua vien conturbando.

Già, come a lei vicin fosse il drappello

De nemici, si pensa ir preparando:

È donna, il caso è grave che la preme

E breve il tempo, ond'ha ragion se teme.


Gli è ver ch'assai le speme e conforto

Quel che le ha detto il suo fedel Parmino,

Chel felice giovenco da lui scorto

Può trarla d'ogni crudo, empio destino.

Onde non crede mai che resti morto

Il giorno per poter porsi in camino.

Non vede l'ora mai che giunga sera

Per gir a Belgiron con l'aria nera.


La notte era lunghetta e la via corta

Sì che spera di far presta tornata,

Né farà l'alba al sol l'usata scorta

Ch'ella nel letto suo sia ritornata.

Come la notte in ciel le stelle apporta

E ch'al suo loco è tutta la brigata,

Parmin due corridori in punto pone,

E aspetta, che dorman le persone.


Ma vince il sonno ogn'alma e sparge a pena

Del suo liquor lo smemorato oblio,

E Morfeo rappresenta in varia scena

Più d'un caso a mortali o buono, o rio,

Che la Regina fuor di casa mena

D'acquistar l'avventura alto desio,

E l'infido Parmin, di cui si fida

Ella, va seco e le è compagno e guida.


Sopra buoni destrier spronaro tanto

Ch'in men d'un ora giunsero al castello.

Dentro vegghiava Amandrian da un canto,

Ch'à un certo segno aprir devea il portello.

Stava ad udir; Parmin fa il segno in tanto,

Né stette il duca a dimandar chi è quello;

Ma chetamente aperse e senza luce

E la regina dentro si conduce.


Parmin l'incauta donna al buio tira

Dentro un ostel, dove non è persona;

E ecco Amandrian, ch'arde e sospira

Vien per sforzar la bella sua persona;

Ma la cosa non va, com'ei desira,

Che spesso avvien, quel ch'in proverbio suona;

Che per pena riman del suo peccato

L'ingannator a piè dell'ingannato.


Amandrian si crede ne le braccia

La bella donna aver ch'ama e desia,

Ma in quella vece una persona abbraccia,

Che non gli par, che la regina sia,

La qual così lo stringe e sì lo impaccia,

Che più tenaglia stringer non potria,

val che si dibatta e si dimene,

Che preso alfin e via portato viene.


Il medesimo fu fatto a Parmino;

La regina rimase al buio sola;

Più d'un ohimè sentì dirsi vicino

Che tutta la spaventa e disconsola.

Parmin non sente più; chiama Parmino,

E non s'ode rispondere parola,

Non vede tor, non vede cosa alcuna,

E comincia a temer di sua fortuna.


sapendo che farsi, afflitta e muta,

Senza punto dormir, con molto affanno,

Stette finché l'aurora in ciel venuta

Scoprì l'aurato suo lucido panno.

Come desto ogni uccello il saluta,

E rende il bel matin più verde l'anno,

La donna innanzi a sé stupenda e nova

Una superba macchina ritrova.


In forma di piramide è composta

E risplende e traspar come un cristallo.

Nell'alta cima una ghirlanda è posta

Di rossi fiori assai più che corallo.

La donna sbigottita se le accosta

E vede in penitenza del suo fallo

Dentro Parmino e 'l transilvanio duce,

Che 'l muro al guardo suo chiaro traluce.


La Regina conosce ognun di loro

Ma il fatto ancor discerner ben non puote;

E ecco nella pietra in lettere d'oro

Vede uniti i caratteri e le note

Che le scoprir la finzion del toro

E le fer tutte quelle fraudi note.

Lesse poi che Parmino e 'l duca esterno,

De la pregion non uscirà in eterno


S'un cavallier non vien d'ingegno tale,

Di tal valor, che quell'incanto opprima,

E spogli la piramide fatale

Della girlanda posta in su la cima.

«Quando (era scritto) alcun pur metta l'ale,

E voli ad acquistar la spoglia opima,

Se re fia quel ch'avrà sì ricco pegno,

Non sia cacciato mai del proprio regno.


Ma se sarà privato cavalliero

Quel ch'avrà la ghirlanda in sua balia,

Sarà col tempo assunto a qualche impero,

Né sia cacciato mai di signoria.

E se a donna o donzella il cerchio altero

Venirà nelle man, sicura sia,

Che la sua castità le sia guardata

Contra ogni mente disleale e ingrata.


E per ch'abbia ciascun conoscimento

Di chi quest'opra tanto importante,

Sappi che ti guardò da tradimento

Nobil Regina, il vecchio Celidante».

La Regina, compreso il fiero intento

Del servo avaro e dell'audace amante,

Scopertasi alla gente del castello

Lor palese il caso iniquo e fello.


Sparsesi il grido, onde più d'un provato

S'ha poi per acquistar tanta corona.

Un gran martello d'or quivi è attaccato,

Con cui si batte il marmo, che risuona.

Allor s'apre una porta, ond'esce armato

Un re che sembra al volto e alla persona

Il re di Dacia, che fu già diletto

Sposo della Regina ch'io t'ho detto.


Il qual combatte con sì gran possanza,

Che vince ogni guerrier gagliardo e forte,

E lo caccia per forza in quella stanza

Donde egli è uscito e poi serra le porte,

E se non è chiamato a nova danza

Da novo suon non esce nella corte. –

Così la donna cavalcando parla

Al cavallier, che stava ad ascoltarla.


Ma non son di costor per dirvi tanto,

Ch'io non pensi tornar nel greco regno,

Dove il gigante avea la palma e 'l vanto

Tolto di man a ogni guerrier più degno.

Dissi, ch'Algier, ch'in Sparta ha 'l regio manto

Gli ha lo scudo e 'l Teban lasciato in pegno,

Elion, Aliforte e quel prudente

Griante, e Polinide finalmente.


Oltra questi Macandro al pian distese

Molti altri e acquistò palma novella,

E gli scudi da lor ch'in premio prese

Consacrò tutti a quella imagin bella;

Quando il re, non scorgendo in sue difese

Altri in quel punto apparrecchiarsi in sella,

Verso il palagio suo fece ritorno,

Ch'era già il sol propinquo al mezzogiorno.


Macandro vincitor lieto rimase

A mirar la sua dea, felice amante,

Il cui fervente amor lo persuase

A mostrar qui le sue prodezze tante.

Tornò tutta la gente alle sue case

Con replicar le forze del gigante,

E le donzelle avean tutte dolore

D'aver perduto il lor sì grato onore.


Ma Celsidea più ch'altri si sconforta

Che sia la gloria sua sì presto spenta,

Benché la sua modestia non comporta

Che se ne mostri afflitta e malcontenta.

Quel giorno e l'altro uscir fuor della porta

Contra il gigante uom non ardisce e tenta.

Nel terzo vi comparve un cavalliero

Di cui narrar nell'altro canto spero.




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