CANTO
SECONDO
Argomento
Uccide
il rio gigante il guerrier strano,
E
dà di sé notizia al re Cleardo.
Bandisce
il re una giostra. Il buon Silano
Dal
mar patisce assalto aspro e gagliardo.
D'Egitto
in Tracia si conduce il nano.
A
lui promette il Principe Risardo
La
donna liberar dolente e bella;
E
ei dà lor de casi suoi novella
Non
deve alcun di sé presumer tanto,
Che
fuor di sé ciascuno abbia in dispregio,
Benché
sia ricco, e onorato, quanto
Possa
esser uom di sangue illustre e regio.
Se
ben avesse in dosso il regio manto,
E
risplendesse di un valor egregio.
E
fusse ogni saper di Febo in lui
Non
dee per lodar sé dar biasmo altrui.
Ogni
persona deve esser umile,
E
benigna mostrarsi e d'amor piena,
Che
l'umiltà lega ogni con gentile
Con
dolce e soavissima catena.
La
superbia all'incontro è rozza e vile,
E
in danno proprio i suoi seguaci sfrena,
E
Niobe e Penteo, e altri fé perire
Sul
colmo dell'orgoglio e dell'ardire.
Quando
più credono esser sulla ruota,
E
goder di fortuna i beni incerti
Questi,
ch'ella a sua posta aggira e ruota,
Lor
fa provar mille travagli certi,
E
gli getta nel fondo; e lor fa nota
Qual
pena era spettante ai lor demerti,
Come
del re Macandro udir potrete
Voi
che per legger queste carte sete.
Lasciai,
che 'l terzo dì, quando inchinava
Il
sol lo sparso crin tepido e giallo;
E
che doglioso il re con gli altri stava
Per
non veder ch'altri venisser in ballo.
Un
Cavallier, ch'alla ventura andava
Ornato
riccamente egli e 'l cavallo,
nella
città fu per ventura entrato,
Dove
il successo udì, ch'io ho narrato.
Il
cavallier parea gagliardo e franco
Alla
presenza e sopra ogn'altro ardito.
Era
sua insegna in verde scudo un bianco
Giglio,
era verde e candido il vestito.
A
pena entrò, che gli fur cento al fianco,
Che
gli fero accoglienza e grato invito;
Altri
porta al gran re di lui le nove,
Altri
a lui narra il caso e 'l cor gli move.
Onde
subitamente al re venuto,
Com'uom
cortese e d'animoso core,
S'offerse
inanzi al termine statuto
Mostrar
contra il gigante il suo valore.
Il
re, che non sperava altronde aiuto,
Creder
si può, che l'accettò di core.
Tutto
il popolo allora a i merli corse,
E
maraviglia al fier Macandro porse.
Il
cavallier, per ch'era tarda l'ora
Del
dì prefisso al termine narrato,
Con
licenza del re ritornò fuora
Ben
a destrier, di nobili arme ornato.
Gran
cosa da notar fu vista all'ora,
Che
tosto ch'egli uscì cascò sul prato
L'effigie
che dai rami alta pendea,
Che
tanto il gran Macandro in pregio avea.
Quanto
al gigante il caso increbbe e spiacque
Di
veder la sua dea premer la terra,
Tanta
a Greci nel cor letizia nacque,
Che
'l tennero a buon fin di quella guerra.
Il
cavalliero a cui l'augurio piacque,
Sfida
Macandro e al corso si disserra,
Macandro
pien di rabbia anch'ei si stese,
E
così l'un ver l'altro il corso prese.
Lo
strano cavallier, ch'era del gioco
Mastro,
a incontrar l'empio Macandro venne
Sotto
lo scudo e dar si fece loco,
Che
l'usbergo il gran colpo non sostenne.
L'asta
in più schegge al ciel volò del foco,
Ma
la piaga nel fianco il ferro tenne,
Donde
in gran copia il sangue fuor si spinse,
E
'l puro acciar di rosso fregio tinse.
Come
d'alta montagna interna fonte
Esce
con furia e ruinosa scende
Con
torta via per la sassosa fronte,
E
largo il fiume al pian conduce e rende;
Così
dal vivo e animato monte,
Come
Macandro par, si sparge e stende
Con
larga il sangue e furiosa vena,
E
fa un lago apparir sopra l'arena.
Dall'empio
fu nell'elmo il guerrier colto,
Ma
nol passò, ch'era di tempra eletta;
Sì
spezzò l'asta e 'l cavallier fu molto
A
trovarsi vicin soprall'erbetta;
Pur
si ritenne, e 'l fren presto raccolto,
(Ch'era
caduto) il destrier punse in fretta,
Ch'al
gravissimo incontro in terra posto
Le
groppe avea, ma rilevossi tosto.
Del
colpo felicissimo che dato
Al
fier gigante il cavalliero avea,
Si
rallegrò ciascun del greco stato,
E
se ne rise il re con Celsidea.
Il
fier Macandro intanto era tornato,
Che
della piaga molto si dolea,
Pur,
credendo esser stato vincitore,
Temprava
al quanto il grave suo dolore.
Ma
quando incontra il cavallier si vede
Col
ferro in mano e che la sella preme,
Così
gran rabbia il cor gl'ingombra e fiede,
Che
'l tempestoso mar tanto non freme.
Tosto
del brando anch'ei la man provede,
E
va sopra il guerrier, che nulla teme,
E
lo gravò di sì pesanti some,
Ch'a
tutti i Greci fé arricciar le chiome.
Sì
forte lo percosse a mezza fronte,
Che
gli tolse ogni senso, e avrebbe reso
L'alma
smarrita al regno di Acheronte,
Se
l'elmo fin non lo tenea difeso.
Smarrite
quelle forze invitte e pronte,
Per
lo prato il destrier correa disteso;
Macandro
irato il tempo allor non perde,
E
sel pone a seguir per l'erba verde.
Ma
come altera e ben fondata pianta,
In
cui gran vento ogni sua forza impiega,
Che
non però dal piè la svelle o schianta,
Ma
gli alti rami al quanto inchina e piega,
Cessato
quel furor con altrettanta
Forza
la chioma al ciel dirizza e spiega;
Così
il guerrier, dal colpo che gli porse
Macandro
e 'l fé piegar, tosto risorse.
Con
quell'estrema furia, che si puote
Pensar
ch'ira e dolor nel cor gli ha posta,
Il
caval gira poi che si riscuote,
E
al nemico suo la spada accosta,
E
sulla spalla destra ove 'l percuote,
Gli
rende con gran forza la risposta;
Ciò
che tocca apre, e sulla coscia scende,
E
arme, e carne e ogni riparo fende.
Macandro
ancora il colpo all'elmo segna
Del
cavallier con tutto il suo potere,
Alza
ei lo scudo e sulla vaga insegna
Del
giglio il brando impetuoso fere.
Ben
crede il cavallier, ch'in Parthia regna
Farlo
in due pezzi al pian morto cadere;
Taglia
lo scudo e taglia anco il cimiero,
Ma
resse l'elmo al colpo orrendo e fiero.
Stordito
dal gran colpo il campion greco
Tutto
alla groppa del destrier si stende,
E
sì l'aspra percossa il rende cieco,
Ch's'è
ben notte o giorno ei non comprende;
Il
feroce Macandro, ch'usar seco
Alcuna
cortesia già non intende,
Gli
afferra il manco braccio, e ha certa fede
Di
trarlo in terra e averne il pregio crede.
Ma
nel tirar, che fece in sé rivenne
Il
cavallier più che mai fosse ardito,
È
rilevato in sella si mantenne,
Onde
Macandro prese altro partito,
E
tentò di venir (ma non l'ottenne)
Seco
alle braccia e gli ne fece invito;
Ma
l'esperto guerrier col brando in mano
Quanto
era lungo il tiene a se lontano.
Macandro
disdegnoso che conosce,
Ch'alcun
de suoi pensier non avea effetto,
Poi
che 'l guerrier tien strette ambe le cosce,
E
non lascia accostar petto con petto;
Per
dargli (se esser può) l'estreme angosce,
E
mandargli lo spirito al stigio tetto,
Ripiglia
il brando e drizza il colpo crudo
In
loco tal che nol difende scudo.
Sulla
sinistra spalla un gran fendente,
Che
sparato l'avria fin sulla sella,
Gli
segna, ma 'l guerrier subitamente
Schiva
d'un salto la percossa fella,
E
poi caccia la spada aspra e pungente
Sopra
la coscia all'alma empia e ribella;
Passa
la punta ria tra 'l ventre, el fianco
Due
palmi, e 'l fa venir di vita manco.
Di
quattro piaghe sanguinoso cade
Il
parthio re, ma pria che giunga a morte;
Sì
come ancora amore lo persuade,
Dice
che non gli duol della sua sorte,
Ma
che per esaltar quella beltade,
Ch'egli
amò sì non fusse ancor più forte,
E
sol gli incresce e dà pena infinita,
Poi
che per lei servir non ha più vita.
Già
tutto il fatto avea dalla muraglia
Scorto
Cleardo e tutta insieme Atene;
Però
che da vicin fu la battaglia
Fatta
e ciascun potea mirarla bene.
Onde,
come a quel re la Parca taglia
Lo
stame e 'l mira spento in sull'arene,
Scende
dal muro e corre ogni persona,
E
'l vincitor di lode orna e corona.
Avea
nel fodro il brando egli tornato,
E
ne veniva a passo tardo e lento;
E
giunto alle gran porte ove il re grato
Stava,
lasciò la sella in un momento.
Il
re lieto l'abbraccia, e 'l vole a lato
Di
sé, l'esalta e loda il suo ardimento,
Ma
la sua cortesia più loda molto,
Che
dalle spalle gli ha quel tedio tolto.
Il
guerrier che gentile era e cortese,
Grazie
rendendo al re la lingua sciolse,
E
l'onor tutto alla sua figlia rese,
Tutta
la lode a lei conceder volse.
Lo
prega il re, c'ormai voglia palese
Scoprir
la faccia, ond'ei l'elmo si tolse,
E
mostrò, che 'l guerrier sì forte in sella
Era
una gentilissima donzella.
Si
tolse l'elmo e discoprì le bionde
Chiome
dell'or più terse e luminose,
E
due stelle apparir tanto gioconde,
Che
per invidia il sol nel mar s'ascose;
Movean
le guancie fresche e rubiconde
Invidia
ai gigli e alle purpuree rose,
La
man, che disarmata anco tenea,
La
neve di candor vincer parea.
Com'ella
a tutti il bel viso scoperse,
Che
tutti in lei tenean fiso lo sguardo,
Parve
a ciascun colei, per cui converse
Macandro
il piè nel regno di Cleardo.
Quella
a cui il miser già li scudi offerse
Prima
che morte in lui scoccasse il dardo,
E
si maravigliar non men di questo,
Che
del valor che vider manifesto.
Come
chi fosse alla presenza quando
Tiensi
donna talor lo specchio inante,
E
ora il viso natural mirando
Venisse,
ora in quel vetro il suo sembiante,
Non
saprebbe ogni parte esaminando,
Qual
cosa fusse in lor dissimigliante;
Così
parve costei del re de' Parthi
L'amata
in tutte assimigliar le parti.
Volse,
che si portasse ivi il ritratto
Il
re, ch'ancor giacea sopra il terreno;
E
il pinto e il ver parve ad un modo fatto,
Quando
propinqui fur né più né meno.
Il
re la prega a dir, perch'avea tratto
Di
vita un che 'l suo onor chiaro e sereno,
Rendea,
ch'altra non fu che sì splendesse;
E
la cortese figlia il tutto espresse.
Perché
sappiate il ver, questa donzella,
Per
cui morto Macandro in terra giacque,
Che
Risamante per nome s'appella,
Con
la bella Biondaura a un parto nacque,
Figlie
del re d'Armenia e questa e quella,
Pari
in tutto fra lor, come al ciel piacque,
Eccetto
ch'una è molle e delicata,
E
l'altra va come guerriero armata.
Al
nascer di costei, perché le stelle
La
inclinavano ad opre alte e leggiadre,
Celidante
gran mago, allor ch'imbelle,
E
fanciulla era ancor, rubolla al padre;
Tal
che dolente il re di tai novelle,
Poi
che la moglie sua non fu più madre,
Lasciò
morendo a quella che rimase,
L'eredità
de le sue regie case.
Per
questo non rimase Celidante
Con
diligenza e con paterno amore
D'allevar
la fanciulla Risamante,
Di
cui previsto avea l'arte e 'l valore,
Tal
ch'ella poscia a tutti gli altri inante
Andò
nell'arme e n'ebbe eterno onore.
Stette
gran tempo seco ella celata
Dentro
una rocca in mezzo il mar fondata.
Ma
poi ch'errò diece sette anni il sole
Per
lo cerchio, ond'apporta il caldo e 'l gelo,
Il
buon mago avvertì la regia prole
Dell'onorato
suo paterno stelo.
Ond'ella
fé con umili parole
Alla
sorella dir che poi che 'l cielo
Le
fé nascer d'un padre e tanto eguali,
Nel
dominar doveano anco esser tali.
Volea
inferir che l'accettasse in parte,
Come
volea ragion, del patrio impero,
Ma
la sorella simulò con arte,
Benché
da molti avesse inteso il vero;
E
così fé risponderli da parte
Di
lei che non avria sì di leggiero
Pensato,
non che mai creduto, ch'ella
Esser
potesse a lei carnal sorella.
Ch'una,
che n'ebbe il fato in man condusse
D'un
ladro che la uccise di sua mano;
Ma
quando ben colei, che 'l ciel produsse
Seco
fosse ella e ciò le fosse piano,
Non
pretendea, che sua di ragion fusse
La
metà di quel regno, ch'avea in mano
Poi
che morendo il re la regia soma
Lascia
a lei sola e l'altra pur non noma.
Per
questa aspra risposta Risamante
Sdegnossi
contra lei di giusto sdegno,
E
valorosa e d'animo prestante
Armata
ogni città cerca, ogni regno,
E
giova a questo e a quel, perché le tante
Sue
cortesie dian opra al suo disegno,
Fa
beneficio a questo e a quel signore,
Perché
al bisogno suo le dia favore.
Il
caso raccontò l'alta guerriera
Al
re Cleandro, e del gigante aggiunse
Che
per la sua sorella venuto era,
La
cui bellezza il cor gli accese e punse.
Il
re, ch'udì tutta l'istoria vera,
Poi
che la donna in suo favor consunse
L'empio
gigante, a lei grato s'offerse,
E
d'aiutarla in tutto si profferse.
Risamante
al buon re grazie ne rese,
E
perch'ormai vincea la notte il giorno,
Il
re con gli altri nell'arcion ascese,
E
al palagio suo fece ritorno.
Ma
la regina e Celsidea cortese
A
Risamante fur subito intorno,
E
in una stanza l'arme li spogliaro,
E
di femminile l'abito l'ornaro.
Lascio
di dir la festa e l'allegrezza,
Con
l'onor che fu fatto alla donzella,
Che
come donna avea tanta bellezza,
Quanto
valor come guerrier in sella.
Già
Celsidea così l'ama e apprezza
Che
quella notte vol passar con ella,
E
così giro insieme a riposarse,
Sin
che la fresca aurora in cielo apparse.
Come
l'altro matin le sveglia e desta
Le
belle donne si levar di letto,
L'una
si cinse la feminea vesta
L'altra
il solito acciar fuor che l'elmetto.
Ma
Celsidea n'uscì dogliosa e mesta,
Che
la guerriera ha del partir già detto.
E
il re supplicò, che lei pregasse,
Che
per tre giorni ancor seco restasse.
E
così a preghi lor sì fu restata
Altri
trè dì, poi quindi accomiatosse
Con
general dolor, tanto era grata,
Così
ad amarla ogni persona mosse.
Costei
passò d'Europa in Asia armata,
E
tanto andò, ch'a un bel giardin trouosse,
Ma
vuò lasciarla quì, Perché in Atene
Rimaner
con Cleardo Or mi conviene.
Il
qual per allegrezza dell'avuta
Vittoria
contra il barbaresco ardire,
La
più solenne giostra, che veduta
Sì
fusse ancor fé in publico bandire,
Di
cui la fama con la tromba arguta
Fa
in ogni parte la novella udire,
E
presta occasion felice al mondo
Di
veder la nipote d'Alismondo.
Vi
fece il re della Soria passaggio,
E
'l re di Persia e un suo fratello forte,
Si
pose anco il re d'Africa in viaggio,
E
mille altri lasciar la propria corte,
Sol
per veder l'Achivo almo legnaggio
Si
move ognun ver le Palladie porte.
Venir
ciascuno al lito Acheo disegna
Sol
per veder quella fanciulla degna.
Ode
anco Italia il fortunato grido,
Onde
Cecropia al ciel suoi pregi estolle,
Tal
che Silano col fedel Clarido
Lascia
del Lazio anch'ei l'altero colle;
Silano
unico principe del lido
Saturnio
anch'ei si crede all'onda molle,
E
per due dì propizio ebbe al suo intento
L'aria
chiara, il mar queto e in poppa il vento.
Per
due giorni e due notti al legno arrise
Fortuna
sì che più nocchier non chiede,
Ma
'l seguente matin sua speme uccise
Che
'l cielo, il vento e 'l mar si rupper fede.
Levossi
un vento allor ch'in aria mise
L'oscure
nebbie, el sol più non si vede,
Di
spessi lampi il ciel rifulge intorno,
El
vento e l'aria, el mar minaccia scorno.
L'onda
tumida cresce a poco, a poco,
E
ad Aquilon contrasta e al ciel ribelle,
E
l'acqua sbalza alla sfera del foco,
Che
par che voglia in sen chiuder le stelle.
Giove
al fulmineo stral fa cangiar loco
E
le torri percuote, e i tronchi svelle,
E
'l cielo e 'l vento, e 'l mar fanno tal guerra,
Ch'abissa
il vento, il mar, l'aria e la terra.
Il
misero nocchier pallido e smorto,
Ancor
che sia di gran terror confuso,
Di
far non resta industrioso e accorto
Ciò
che conviensi al navigabil uso,
Comanda
a questo e a quel, ma 'l vento a torto
Ne
porta il grido e ne riman deluso,
Ch'alcun
de naviganti non l'intende,
Ma
pur ciascuno al proprio officio attende.
Grida
il mesto nocchier che sia disciolta
Quella
fune che tien la maggior vela,
Che
spera pur che 'l tempo abbi a dar volta,
Ma
non può far sentir la sua querela.
Il
mar superbo intanto aggira e volta
La
nave, che si strazia e si querela;
Né
pur del morto gli ha parte levato,
Ma
nel vivo anco l'acqua ha penetrato.
Ben
si tenner perduti i naviganti,
Scorto
l'onda nemica entrar nel legno,
E
con gridi amarissimi e con pianti
Chieser
mercede al sommo eterno regno.
Solo
non perde il cor fra tanti e tanti
Né
sa un minimo usar di viltà segno,
Silano
invitto e 'l suo fedel consorte,
C'hanno
il cor saldo, el volto ardito e forte.
De
naviganti alcun corre a gran fretta
Le
fissure a turar, dov'entra il mare,
Altri
co 'l cavo legno in mar rigetta
L'onde,
che prima entrar salse e amare.
Ecco
intanto repente una saetta
Dalla
celeste man sul pin scoccare,
Che
l'arbor spezza e 'l timon arde, e seco
Manda
il miser nocchier nel mondo cieco.
Questo
fu ben lo stral crudo e funesto,
Ch'uccise
un solo e passò a tutti il core;
Ch'a
tutti è ormai ben chiaro e manifesto
Non
esser scampo a quel mortal furore.
Fu
dunque con Silan Clarido presto
Quel
partito a pigliar, che fu il migliore,
Ricorsero
al battel, ch'era vicino
Per
iscampar l'orgoglio empio marino.
Volean
molti seguir l'esempio loro,
Ma
questi lo vietar co 'l brando nudo,
E
dal legno si sciolsero e da loro,
Che
restar preda al Mar vorace e crudo.
Non
san se son vicini all'Indo o al Moro,
Che
fan le nubi al dì riparo e scudo,
Gli
è 'l ver, che 'l lampo apria sovente il velo,
Né
li mostrava altro che 'l mar e 'l cielo.
Come
poi si trovasse in miglior stato
Col
buon Clarido il giovane Silano,
E
come al lido poi fusse salvato
Dalla
furia del mar crudo e insano,
In
altra parte vi sarà contato,
Ch'ora
un poco lo stil volgo lontano,
E
lascio questi in sì dubbiosa sorte,
Per
gir in Tracia alla superba corte.
È
una Città posta all'estremo lido,
Che
da Bitinia il Bosforo disgiunge,
Quinci
il mar d'Helle appar fra Sesto e Abido,
Quindi
le rive Eusin percote e punge;
Bizanzio
è detta; il cui superbo grido
Dal
basso centro al ciel superno giunge,
E
l'occaso non v'ha né l'oriente
La
più feroce e bellicosa gente.
Era
gran tempo in lei stato Agricorno
Imperador
del gran popolo di Marte,
Del
cui valor giva la fama intorno,
Dando
soggetto alle più dotte carte.
Avea
un figliuol d'ogni virtute adorno,
D'ogn'alma
dote e d'ogni nobil arte,
Ch'in
tutte l'opre eccelse, alme e leggiadre
Fu
raro al mondo e fu maggior del padre.
Oltra
questo garzon, che fu Risardo
Nomato,
egli ebbe ancora una donzella,
Che
come quel cortese era e gagliardo
Così
fu questa al par d'ogn'altra bella.
Fu
detta Ersina e l'amoroso dardo
Non
facea ancor per lei piaga novella;
Non
era stata ancor nell'altrui petto
Cagion
di gaudio o di contrario effetto.
Questo
perché sì saggia era e modesta,
E
di sì ornati e nobili costumi,
Che
la sua gran beltà non manifesta,
E
tiene ascosi i due leggiadri lumi,
Perché,
essendo non men che bella onesta,
Non
vol ch'alcun si strazi e si consumi,
Non
vol ch'alcun per lei senta cordoglio
Che
s'ha ben molle il viso, ha 'l cor di scoglio.
Or
mentre sta l'imperator felice
Di
questa altera vergine e del figlio,
E
seco in sala è un dì l'imperatrice
Con
grave aspetto e con sereno ciglio,
E
la Tracia d'eroi schiera vittrice
Con
tutto il regio suo maggior consiglio,
Appar
tra que signori un picciol nano,
Con
un ricco vestir leggiadro e strano.
Di
sì rara bellezza è 'l nano adorno,
Che
me' Cupido alcun pittor non finge,
Di
tutti il guardo a sé tira d'intorno
Quel
bel color che 'l viso orna e dipinge,
Mesto
e umil s'inchina ad Agricorno
Il
nano, e a gli altri e ogn'un di pietà cinge;
Si
sforza di parlar, ma nella gola
Il
suo dolor gli chiude la parola.
Alfin
tanto il desio gli infiamma il petto,
Che
rompe del dolor l'aspra catena,
E
apre il varco al suo dolente affetto,
Malgrado
del suo mal, della sua pena;
E
spiega il suo mestissimo concetto
Che
di sospiri e lagrime incatena,
E
fa ch'ogn'alma di pietà sfavilla,
Mentre
le belle lagrime distilla.
–
Sperando in voi
trovar giusta pietade,
Alto
e supremo imperador de traci,
Ho
cercato (dicea) queste contrade,
Lasciando
i campi egizi empi e fallaci,
Per
salvar una angelica beltade
Dalle
tirane man crude e rapaci,
Ch'avendo
ucciso il re Galbo d'Egitto,
Dan
colpa alla nipote del delitto.
Sono
ormai venti giorni, che fu morto,
E
non si sa da chi per certa prova,
E
accusan la giovane del torto
Dove
ogni fede, ogni bontà si trova;
E
perché Miricelso il figlio accorto
Altrove
il suo valor dimostra e prova,
Ha
preso ardir la setta empia e pergiura.
D'impregionar
la dolce, alma figura.
Per
usurpar quel regno all'innocente
L'hanno
posta in pregion crudel e fera,
Che
più stretto e più prossimo parente
Al
defunto signor di lei non era.
Tutta
Alessandria è per suo amor dolente,
E
per quel che si dice, invan si spera
Sua
libertà; per che sententiat'hanno.
Che
stia così rinchiusa in fin dell'anno.
Nel
qual tempo la giovane infelice
Ha
da trovar campion che la difenda
Da
un cavallier che la calunnia e dice,
Che
contra ognun che sua difesa prenda
Vol
provar ch'ella iniqua e traditrice
Fu
cagione a quel re di morte orrenda,
E
sosterrà per tutto l'anno intero,
Ch'ella
diede opra a sì crudel pensiero.
Ahi,
che se cavallier non viene intanto
A
provar, ch'innocente è Raggidora
(Così
ha nome la donna, ch'amo tanto)
Giungerà
senza colpa all'ultim'ora. –
Mancò
la voce a questo e crebbe il pianto,
Al
bel nano, che s'ange, e lagna, e plora.
Quando
pervenne a quel pietoso punto
Per
forza pose alle parole punto.
L'eccelso
imperator ch'in alto siede,
E
de principi intorno ha una corona,
Veggendo,
che 'l dolor sì 'l nano fiede,
Che
'l fià, che brama al suo parlar non dona,
Se
ben soccorso e aiuto non li chiede,
Sa
ben ch'ad altro fin ei non ragiona.
Però
dà gli occhi a suoi presso e lontano,
E
quai debba mandar pensa col nano.
Tutti
i traci guerrier giovani e forti
Erano
accinti a così santa impresa,
E
bramavan veder degli altrui torti
La
bella Raggidora esser difesa,
Ma
perché tutti allor s'erano accorti,
Che
più l'alma n'avea Risardo intesa,
Alcun
non fu che 'l suo pensier mostrasse,
Né
che prima di lui parlar osasse.
Risardo
in piè levato, con licenza
Del
padre, disse al nano; – or datti pace,
Che
ti prometto e giuro alla presenza
Del
mio signor, de tutto il popol trace,
Di
liberar costei da tal sentenza,
S'è
(come dici) ingiusta, empia e mendace
E
di farle acquistar quel regno ancora. –
E
s'andò a por in punto allora allora.
Di
tal promessa il nano consolato
Asciuga
da begli occhi il tristo umore.
E
'l re, mentre si rende il figlio ornato
Di
terso acciar ministro al suo valore,
E
ch'al grande armiraglio ordine è dato
Che
'l legno apparecchiar faccia megliore,
Vol,
ch'all'imperatrice esprima il nano
Più
particolarmente il caso strano.
E
dica la cagion, perch'ei sol viene
A
procurar per lei sì caldo aiuto,
Che
di tanti che 'l muro egizio tiene
Alcun
(fuor che lui sol) non è venuto,
Potrebbe
essere spia forse d'Atene,
(Disse
fra sé l'imperator astuto)
E
vien con questa fraude e questo inganno
Per
saper qui come le cose vanno.
Era
gran lite allor fra 'l tracio regno
Per
cagion de confini e 'l greco nata,
E
di questo romor, di questo sdegno
N'era
forse cagion la Tracia ingrata.
Or
questo re, c'ha in mente empio disegno
Di
destrugger (se può) la greca armata,
Pensa,
che 'l re Cleardo dal suo canto
Brami
di far a lui danno altrettanto.
Tratto
in disparte accanto alla regina
Per
volontà del re fu il nano assiso,
Che
con la voce angelica e divina,
Con
via più lieto e grazioso viso
Incominciò:
– La vaga e pellegrina
Fama
avea dato all'oriente aviso,
Tal
ch'era in ogni lingua, in ogni stilo
La
bellissima vergine del Nilo.
Pervenne
il suon altier di lido in lido
Là
ove son re nel regno de' Pigmei,
E
sì m'accende il cor con questo grido,
Ch'ogn'altro
e me in oblio posi per lei:
Tal
che lasciando il regno amico e fido
Soletto
in Alessandria mi rendei,
Quivi
me le diè in dono Amor protervo
E
me le dedicò perpetuo servo.
Gionto
trovai che troppo era lontana
La
fama al ver; che quanto n'avea inteso,
Una
relation fu scarsa e vana
Rispetto
a quel c'ho poi visto e compreso.
Non
narro la bellezza sopraumana,
Ch'è
de gli omeri miei troppo gran peso,
Basta,
che ovunque il sol dispiega i rai
Maggior
beltà non vide in terra mai.
Io
che l'amava e pace non potea
Con
questo amor trovar longi, né presso,
Se
non quando il bel viso alla mia dea
Veder
m'era dal ciel talor concesso,
Per
mitigar la fiamma che m'ardea
Non
mi curo mandar lettera o messo,
Ma
cangio in rozze e vil le regie spoglie
E
fo sì che per servo ella m'accoglie.
Poi
che non mi trovo atto a esercitarme
Nell'opre
illustri e a dimostrar valore,
E
col favor della virtù dell'arme
Acquistarmi
di lei l'altero amore,
In
altra guisa penso d'aiutarme,
E
d'un tal ben di farme possessore.
Mi
fingo umil di stato e faccio ch'ella
Fra
suoi mi accetta e per servo m'appella.
Uomo
non era alcun di me più desto
Nel
servir lei di tanti che tenia,
Era
ne gli occhi e nel parlar modesto,
Sempre
con gran prontezza la servia.
Tolse
ella tanto in grazia ogni mio gesto,
La
servitù, la diligenza mia,
Ch'a
me sol comandava, e dir solea
Ch'alcun
meglio di me non l'intendea.
Ella
nelle mie man tenea fidato
Le
sue più care cose, oro e argento,
Ogni
vestir più ricco e più pregiato,
Le
gemme, le ghirlande, ogni ornamento;
Io
cura avea del suo regale e ornato,
Com'a
lei conveniasi, appartamento.
E
sì crebbe il mio amor a poco a poco
Che
'l cor era poca esca a tanto foco.
Con
tutto ciò già mai non presi ardire
D'appalesarmi
a lei, che sempre alcuna
Donzella
meco la solea servire,
Al
mio ingordo pensier troppo importuna.
Alfin
un dì propizia al mio desire
Tra
le man mi si pose la fortuna;
Un
dì, ch'ella il bel crin tendeva al Sole
Senza
la compagnia, ch'esser vi suole.
Com'io
mi trovo solo in sua presenza,
E
che d'appalesarmi fo pensiero,
Il
rispetto ch'avea, la riverenza,
Il
timor de turbarle il cor sincero,
E
ch'irata mi scacci e dia licenza,
Trattandomi
da sciocco e da leggiero
M'avea
di tanto affanno il cor ristretto
Ch'io
fui per uscir fuor dell'intelletto.
Mentre
le belle chiome ella apre e stende
Ad
un balcon, per cui fa il sol passaggio,
E
in tal modo le scuote, acconcia e tende
Che
fa ch'ogni crin gode il solar raggio,
E
col dentato e schietto avorio attende
Quanto
son longhe, a far spesso viaggio,
Getto
un sospir sì caldo all'improvviso
Che
fa, ch'ella i begli occhi alza al mio viso.
Non
però mi fa motto e indarno stimo,
Che
cerchi quel ch'a lei sì poco tocca,
Onde
mesto il secondo aggiungo al primo,
E
fo che 'l terzo ancor più caldo scocca.
Veggendo
ella che 'l mal mio non esprimo
Pur
alfin per saperlo apre la bocca,
E
la cagion mi chiede dolcemente,
Che
mi fa sospirar sì caldamente.
Io
non rispondo a questa sua dimanda,
Ma
gli occhi abbasso e di sospir più abbondo,
Onde
ella ancor mi replica e dimanda
E
io sto pur tacendo e non rispondo.
Alfin
come patrona mi comanda,
Che
le palesi il mal che dentro ascondo,
Di
me si maraviglia e n'ha dispetto,
Che
scoprir non le voglia il mio concetto.
Come
sì accesa, e avida la veggio
D'intender
quel, ch'a lei discoprir voglio,
La
fo giurar che quel che dir le deggio,
Non
le darà né sdegno né cordoglio.
E
se ben troppo ardito erro e vaneggio,
Non
perderò quel ben ch'ottener soglio,
Anzi
ch'avrà di me qualche pietade,
Risguardo
avendo alla mia verde etade.
Ella
ch'avria pensato ogn'altra cosa,
Mi
giura e mi promette largamente,
E
io con faccia mesta e vergognosa
Il
mio stato real narro umilmente.
Poi
le discopro la fiamma amorosa,
Che
per la sua beltà m'arde la mente,
Con
la sommission ch'a me s'aspetta,
E
col modo miglior ch'amor mi detta.
Parve
che nel principio si turbasse
E
la vergogna il volto le dipinse,
Non
però ch'a miei danni l'incitasse
Quella
gran novità, che 'l cor le strinse;
Si
tacque un poco pria come pensasse
E
per risponder poi la lingua scinse,
Ma
in quel punto s'udir le regie genti
Empire
il ciel di gridi e di lamenti.
Per
intender la causa di quel pianto,
Con
la chioma sugli omeri negletta
La
donzella si move, e io ch'a canto
Me
gli spronava amor corro in gran fretta.
Vol
saper la cagion d'un romor tanto
Per
provederli in quanto a lei s'aspetta,
E
alla stanza del re prima s'invia,
Ove
il grido e 'l maggior tumulto udia.
Di
questa in quella camera la porta
Il
dubbio piè dov'ode il mesto accento,
Tanto
ch'arriva alla funesta porta,
E
fra donne e donzelle entra ben cento;
Come
dà l'occhio dentro riman morta,
Che
vede il re suo zio di vita spento
Giacer
fra 'l popol mesto e lagrimoso,
Di
più di venti piaghe sanguinoso.
Ella
riman sì sconsolata allora,
Che
si lascia cader co'crini inconti
Sopra
'l freddo cadavero, e uscir fuora
Fa
da begl'occhi suoi due caldi fonti.
Mentre
costei si strugge, e piange, e plora,
La
stanza empir duchi, marchesi e conti,
Ch'avendo
inteso il doloroso avviso
Cercavan
di saper chi l'avea ucciso.
Tra
questi cavallieri era un Lideo
Che
già d'Eubea in quelle parti venne;
Era
valente e spesso combatteo
Coi
più famosi e sempre il pregio ottenne;
Costui
gionto fra gli altri al caso reo,
Visto
il re morto, un mal giudizio fenne;
La
cagion non so dir, ch'a questo il mosse,
Basta
che giudicò, che così fosse.
Disse
e creder fé a tutti che nissuno
Pensato
non avria non che operato
Che
restasse di vita il re digiuno,
Che
non sperasse ereditar lo stato;
E
non essendo in quel reame alcuno
Che
possi per tal causa aver peccato,
(Che
Miricelso estinto era per fama)
La
colpa attribuiva a quella dama.
Parla
con lingua libera e superba
E
la sua autorità fede gli dona;
Mostra
che 'l gran dolor che nel cor serba
Quel
che dir non vorria fa che ragiona.
Dice
che giusta merita e acerba
Morte,
e tanto ogni petto instiga e sprona
Che
molti che maligno hanno il pensiero
Dicon
che parla mal, ma dice il vero.
Tutti
hanno di regnar l'animo ingordo,
E
credon, o di creder mostra fanno;
I
baroni più nobili d'accordo
Son
con Lideo che mostra ansia e affanno;
Secondo
il suo consiglio e 'l suo ricordo,
Senza
aver chi lo vieti, ordine danno
Che
sia posta in pregion la donna mia,
Come
del fatto ella colpevol sia.
Fur
seco presi ancor paggi e donzelle,
Che
vinti da minaccie e da promesse,
Confessaro
alle menti inique e felle
Ch'un
tanto error per sua cagion successe.
Non
essendo in contrario chi favelle,
Dunque
per tema il vero al falso cesse,
E
la innocente allor fu presa e vinta
dalla
malignità crudele e finta.
Vid'io
la bella man candida e pura
Ristretta
(ahime) da crudo laccio indegno,
E
vidi in carcer posta infame e scura
Colei,
che poco il mondo è d'aver degno.
Sepolta
l'innocente creatura,
S'hanno
tra lor diviso il suo bel regno;
E
il popol solo è quel, la plebe è quella,
Che
piange l'infelice damigella.
Or
poi che la natura ingiusta e avara
Non
mi diè forza all'animo conforme
Per
poter liberar donna sì rara,
Che
mi sforzò d'amor seguitar l'orme,
Ricorro
a questa patria illustre e chiara,
Dove
giustizia, ove virtù non dorme,
E
prego che vi piaccia aiuto darmi
Contra
li egizi rei con le vostre armi.
Così
contò l'innamorato nano
Della
donzella misera il successo,
E
intanto per punir l'Egitto insano
Il
buon Risardo in ordine fu messo.
Ma
poi che egli ha finito il caso strano
Di
raccontar come li fu commesso,
Vo'
qui finir questo mio canto anch'io
Poscia
di lor dirò ciò che seguio.
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