CANTO
TERZO
Argomento
La
fiera serpe uccide Risamante,
Perde
il destriero e nella grotta scende;
Le
vien la donna frigia e 'l figlio inante,
La
qual dell'esser suo conto le rende.
Compar
la fata e a lei dona il diamante,
Poi
fa, ch'in uno specchio ella comprende
Sua
chiara stirpe, e indi uscendo fuora
Trova
il cavallo e buon albergo ancora.
O
gran virtù de cavallier passati
Che
con tanta pietà l'armi portaro,
E
senza obligo aver, cortesi e grati,
Sempre
per gli innocenti il brando opraro,
E
fra tanti perigli, ove chiamati
Furon,
le proprie vite avventuraro
Per
salvar quelle di persone strane,
Alla
lor patria e al sangue lor lontane.
Credo
ch'a nostra età pochi sarieno,
Ch'a
rischio si mettesser per altrui,
E
non pur che lasciare il patrio seno
Per
gir in difenssion non so de cui,
Ma
che 'l padre volesse che vien meno
(O
s'altri è di più merito di lui)
Senza
premio aiutar d'una parola,
Non
che esponer la vita ch'è una sola.
Quanti
orfani oggi son cui sono oppresse
Le
facultà che de lor padri foro
Per
non aver (non chi al morir s'appresse)
Ma
chi opri pur la lingua in favor loro;
Come
fusse il parlar grande interesse,
Se
lor prima la man non s'empie d'oro,
Pochi
avvocati son che tor l'impresa
Voglian
d'aprir la bocca in lor difesa.
Ma
fra quei pochi ho da lodar il cielo
Ben
io di tai che non di questi sono,
I
quai cercan con fede e amico zelo
Di
sollevarmi ove sì oppressa sono;
Di
cui mai cessarò di alzar al cielo
L'immensa
cortesia, l'officio buono,
Riconoscendo
le grate opre sole
A
mio poter con fatti e con parole.
Dovrian
pur imitar questi ch'io dico,
Tant'altri,
in cui l'empia avarizia ha regno;
Dovria
pur di pietade essere amico
Ciascun
di lor con questo esempio degno.
Giovan
Giacopo onor del Gradenico
Lignaggio
imiti ogni leggiadro ingegno,
Giovan
Vincenti illustre imiti, e il raro,
E
buon Tomaso Cernovicchio a paro.
Ne
debbono esser ben degli altri ancora
Di
tal bontà che mal starebbe il mondo,
Ma
come gli potrei discerner fuora
Di
numero sì grande e sì profondo?
Questi
che mi difendon d'ora in ora,
Questi
che d'aiutarmi han tolto il pondo,
Agli
effetti conosco e al buon volere,
C'han
verso me senza desio d'avere.
Gentil
guerrier fu il principe Risardo,
Che
si mostrò de tal bontade allora,
Quando
a torsi l'assunto non fu tardo
Di
liberar la bella Raggidora;
E
se ben poscia il giovene gagliardo
A
novello cammin volse la prora,
Come
vi narrerò, non l'incolpo io
Che
pur a questo fin di corte uscio.
Ogni
più gran signor del tracio regno
Col
magnanimo figlio il re incamina;
Ei
veste sopra l'arme un manto degno
Che
di sua man gli avea tessuto Ersina,
E
s'allaccia lo scudo, ov'è il disegno
D'una
vaga donzella pellegrina,
La
qual, mirando il ciel, mostrar volea
La
speme ch'ei di vincer sempre avea.
Ma
perché son vari i soggetti, e i versi
Vari
e l'un l'altro il proseguir contende,
Tal
io son, qual fanciul che di diversi
Fiori
formar bella ghirlanda intende,
Che
acciò del bel d'ognun possa valersi
Non
sempre il giglio o la viola prende,
Ma
or l'uno or l'altro, e in variar colore
Si
serve alfin d'ogni suo colto fiore.
Però
lasciando il buon Risardo un poco,
A
Risamante voglio far ritorno,
La
qual sì come ho detto in altro loco,
A
un bel giardin giunse per caso un giorno.
D'acanto,
gelsomin, narciso e croco,
E
d'ogni altro bel fior vago e adorno,
E
di bossi e ginepri intorno cinto
Da
un verde muro d'arbuscei distinto.
In
mezzo è un largo e bel boschetto ombroso
Di
vermigli rosai fioriti e belli,
Il
resto è tutto netto e spazioso,
E
sol produce erbette e fior novelli.
Trasse
la donna a prendervi riposo
L'odor
de fiori el canto de gli uccelli;
Smonta
di sella e 'l freno al destrier tolle
Si
cava l'elmo e siede all'ombra molle.
Dell'umil
bosco alla soave ombretta
Disegna
un sonno far dolce e quieto,
Ma
non è appena acconcia in sull'erbetta
Ch'un
gran romor sente dentro il roseto;
S'alza
ella tosto, e ripon l'elmo in fretta,
E
move il piè con passo muto e cheto;
Ma
poi rimase al subito apparire
Di
quel che vide incontra sé venire.
Vide
una serpe uscir tra fiori e foglie,
Non
sò se iacolo era o anfesibena,
Ch'in
Africa ad ogn'altra il vanto toglie
In
esser grande e di veleno piena;
Dell'oro
altiera e delle verdi spoglie
La
velenosa coda in giro mena,
Salta
dei cespi sibilando fuori
E
strugge col suo fiato l'erbe e i fiori.
Di
mezzo 'l bosco d'incarnate rose,
Che
tutto arse e pestò col suo furore,
Uscì
improvvisa, e nella donna pose
Un
non so che di spasmo e di terrore;
Ma
pur lo scudo al collo si ripose,
Tolse
la lancia in man, riprese core,
E
con quella acconciossi a far contrasto
Alla
fiera che vien per trarne pasto.
L'ingorda
fiera con aperta bocca
Le
corre sopra, e corla già non puote;
Ma
'l ferro incauta della lancia imbocca,
Che
oppon la donna e sé fora e percote.
La
donna sempre più la punta imbrocca,
E
fa che 'l drago invan s'aggiri e ruote.
Si
fora il drago, e per la doglia dira
Quanto
più può si scuote e si ritira.
Simil
battaglia in quella antica etade
Cadmo
fé già col drago orrendo e diro,
Che
viste l'ossa dei compagni amate
Li
scorse giunti all'ultimo martiro.
Poi
che non men di membra ismisurate
Era
questo di quel che uccise il Tiro,
Né
men ha Risamante arte e valore
Del
generoso figlio di Agenore.
Segue
ella il drago valorosamente,
E
più ch'ei si ritira ella va innanzi,
Né
val che ritirandosi il serpente
Cerchi
fuggir la morte ch'avea inanzi;
Perché
nel farsi indietro incautamente
Cadde
nel buco, ond'era uscito dianzi,
Né
dalla donna fu prima scoperto,
Che
bosco lo tenea chiuso e coperto.
Poco
men che non cadde la donzella,
Che
venia dietro in quella tomba scura,
Ma
in quel che traboccò la bestia fella
Lasciò
la lancia e fu sua gran ventura.
Sciolta
da quel impacciò, disegn'ella
Quindi
partir cercando altra avventura,
Ma
trovò che 'l destrier fuggito altrove
Per
tema era del serpe e non sà dove.
In
questo ode una voce all'improvviso,
Che
dice: – O nobilissima guerriera,
Non
ti partir del bel giardin t'avviso,
Se
pria non scendi in quella tomba fiera,
Che
quindi in guiderdon del serpe ucciso
Col
premio uscirai fuor ricca e altiera.
Entra
pur là dove la serpe orrenda
Cadde,
se vuoi veder cosa stupenda. –
Risamante
a quel grido rivoltosse
E
non veggendo alcun non si ritarda;
Ma
per saper ciò ch'in quel loco fosse
S'accosta
al buco e 'l capo china e guarda,
E
viste dentro alcune scoglie grosse
Sporgersi
in fuor, la giovene gagliarda
Con
man s'attacca all'orlo e i piedi cala,
E
si fa de le pietre appoggio e scala.
Pensa
fra sé la vergine scendendo
D'aver
il capo a premere o la pancia
Od
altra parte di quel drago orrendo,
E
racquistar la già perduta lancia;
Ma
vede, giunta in piana terra essendo,
Che
quanto ell'ha pensato è sogno e ciancia,
Perché
vi trova in scambio del dragone
Una
nobil matrona e un bel garzone.
Il
giovenetto non giungeva ancora
Ai
tredici anni, e era fresco e bello
Come
giglio, ch'al nascer dell'aurora
Apra
le foglie e spiri odor novello.
Tanta
delicatezza in lui dimora,
Che
sembra il viso e 'l crin fatto a pennello;
Par
proprio, che dipinte abbia le membra,
E
tanto è bianco, che di neve sembra.
Biondissima
ha la chioma e inanellata,
E
'l ricco vel, che 'l suo bel corpo ornava
È
d'una seta bianca delicata,
Ch'un'estrema
lascivia dimostrava;
Negli
occhi è d'aria poi sì dolce e grata,
Che
a chi lo mira il cor del petto cava;
Di
lui più in somma dir non si potria
Se
non ch'è tutto amore e leggiadria.
Stupisse
la donzella, che comprende
Sì
bel fanciullo in quella tomba chiuso,
Qual
riverente incontra se le rende,
Come
in gran corti a praticar fosse uso.
La
matrona gentil, ch'i lumi intende
Nella
donzella allor scesa là giuso,
Con
maniera cortese la saluta,
Dicendole:
– tu sii la ben venuta.
È
pur gionto quel dì bramato e caro,
Nel
qual son tratta fuor d'ogni periglio,
E
schiverà di morte il colpo amaro
Questo
mio dolce e mal veduto figlio;
Or
potremo uscir fuori al giorno chiaro,
Che
giunto è il fin del nostro lungo esiglio;
E
pur tu Risamante sei cagione
Stata
di liberarsi di pregione.
Di
che ti lodo e ti ringrazio tanto,
Che
fin ch'in me sarà spirto di vita
Non
serò mai per iscordarmi quanto
Obbligo
t'ho d'un'opra sì gradita.
E
perché intendi il caso tutto quanto,
Ch'a
te render mi fa grazia infinita,
Sediamo
insieme, ch'io vo farti espresso
Quando
ti piaccia udir tutto il successo. –
L'alta
guerriera stupefatta resta
Che
la sappia costei chiamar per nome,
E
brama udir la cosa manifesta
E
perché qui venisse e quando e come;
Onde
si trasse l'elmo della testa
E
mostrò fuor le crespe aurate chiome,
E
a seder si pose accanto a quella,
Dimostrandosi
in un cortese e bella.
Quel
garzon la mirava attentamente
Ch'altro
bel volto a giorni suoi non vide,
Ma
per li teneri anni amor non sente,
E
con semplicità la guarda e ride.
La
madre incominciò: – Del re possente
Del
frigio pian che fu nomato Aclide
Io
fu consorte, e vissi un tempo al segno
Contenta
di tal sposo e di tal regno.
Ma
quel possente dio, d'Amor io parlo,
Che
doma i mostri e in ciel vince anco i dèi,
Invido
del mio ben venne a turbarlo
E
interroppe tutti i piacer miei,
Perché
mentre il mio re (per aiutarlo)
Va
al regno lidio contra i siri rei,
Un
re cortese alla mia corte giunse
E
del suo amor il cor m'accese e punse.
Venuto
era costui sin da ponente,
Dove
reggea tutto 'l paese ibero;
E
perché valoroso era e possente
Avea
lasciato il suo felice impero,
E
gìa cercando tutto l'oriente,
Ogni
avventura, ogni periglio fero,
Di
mostrar sua virtù desideroso,
E
di farsi immortal e glorioso.
Sanno
i dèi quel ch'io feci per levarmi
La
nova passion dal fragil core,
Ma
non ebbi poter di ripararmi
Contra
le troppo invitte arme d'Amore.
Confesso
ch'io dovea prima privarmi
Di
vita che far mai sì grande errore,
Ma
quando poi questo bel frutto guardo
Che
di ciò nacque, anco a pentirmi tardo.
Dico,
che di quel re, che dimostrosse
Non
men di me, ch'io di lui fosse acceso,
Rimasi
pregna in tempo che trovosse
Il
mio signor a quella guerra inteso;
Poi
quando a noi di Lidia ritirosse
Gravida
mi trovò, del non suo peso,
Né
potei il fallo mio sì ben coprire
Ch'egli
venne la cosa a discoprire.
Era
stato da me diviso un anno,
Quando
fece di Lidia a me ritorno,
E
discoperto il mio amoroso inganno
Mi
vol col brando far l'ultimo scorno.
Io
scampo la sua furia e con affanno
Vengo
e do qui questo fanciullo al giorno,
Dove
mossa a pietà del mio periglio
Una
fata aiutommi e diè consiglio.
E
perché non cessava da ogni lato
La
persecuzion di mio marito,
Che
pur volea punirmi del peccato
Ch'avea
commesso avendolo tradito,
Ella
m'avvisa che col dolce nato
In
questo loco io stia chiuso e romito,
Perché
secura esser non può mia vita
Fin
che quella del re non è fornita,
E
perch'alcun di quelli non potesse,
Ch'andavano
spiando mia persona,
Trovarmi
in questa grotta e non mi desse
In
mano alla sdegnata sua corona,
Pose
qui quella serpe acciò che stesse
Alla
mia guardia contra ogni persona;
E
mi disse: «Di qui non ti levare,
Sin
che 'l dragon morendo non dispare.
Perché
in quell'ora, in quell'istesso punto,
Ch'essendo
ucciso sparirà il dragone,
Sarà
rimasto il tuo signor defunto
E
tu sciolta sarai della pregione;
E
sappi, che quel drago esser consunto
Non
deve per valor d'alcun barone,
Ma
per man d'una vergine gentile
Che
non ha paragon da Battro, a Thile».
E
mi disse, c'hai nome Risamante,
E
di chi figlia sei mi diede avviso. –
Volea
seguir la donna ancor più avante,
Quando
lor sopravenne all'improvviso
La
gentil fata, ch'ella disse inante,
Che
salutolle con giocondo viso;
E
elle sorte, e quel fanciul cortese
Tosto
il saluto a quella fata rese.
La
bella fata che l'amava molto
Abbraccia
Risamante come figlia,
E
mille volte bacia il suo bel volto
E
quella bocca a par d'ostro vermiglia;
E
avendosi poi di dito tolto
Un
annel le lo porse e disse: – Piglia,
Che
questo annel che tal rende splendore
Ti
dono in premio del tuo gran valore.
Sappi
c'ha in sé molta virtù nascosa
Che
val contra ogni incanto e ogni paura,
E
rende l'alma franca e animosa
Contra
ogni strana, orribile avventura;
Ma
non mi basta così picciol cosa
Perché
di farti maggior grazia ho cura,
Tanto
sono a tuoi merti affezionata,
Ch'esser
ti voglio in maggior cose grata.
Mostrar
ti vo' quando ti sia in piacere
Molti
di tua progenie illustre e degna,
In
uno specchio onde ciascun vedere
Puote
la stirpe sua prima che vegna;
Ma
gli è ben ver, ch'alcun no 'l pote avere,
E
d'acquistarlo indarno alcun disegna,
Però
che si riserba a un cavalliero
Che
non è nato ancor, del greco impero. –
Così
dicendo un picciol uscio aperse
Dove
alcun mai non era ancora entrato,
La
figlia dentro a quella il piè converse
E
entrò seco in un ostel fatato;
E
per virtù di quel annel disperse
Molte
ombre rie che le venir da lato.
La
matrona e 'l bel figlio anco provarsi
D'entrar,
ma fur costretti a ritirarsi.
Buio
era il loco, ove passò la fata
Come
la notte ivi suo albergo avesse,
Ma
quando la cortina ebbe levata,
Che
lo specchio impedia che non lucesse,
Subito
fu da quello illuminata
E
parve, che col raggio il sol vi desse;
La
fata lui scoperse e diede in luce,
Ed
ei fé veder lei con la sua luce.
Era
quel bel cristallo al muro appeso
Chiuso
in un studiol d'oro lucente.
Come
v'ha Risamante il guardo inteso
Dentro
ondeggiar vede infinita gente,
E
per quel ch'alla vista ebbe compreso,
Tutti
d'ingegno e d'animo eccellente;
Chi
l'elmo ha in testa e chi corona d'oro,
Ma
non conosce alcuno ella di loro.
V'erano
donne assai belle e ornate,
Fra'
quai venne una alla guerriera inanzi.
–
Costei, disse la
fata, di beltate,
D'ingegno
e di valor credo t'avanzi;
Né
pur a te, ma a quante donne nate
Saranno
all'età sua passerà innanzi;
Del
re di Cipro sia da te concetta
Unica
figlia, Salarisa detta.
La
sposerà quel re bello, e altero
Il
qual di Celsidea sarà figliuolo,
E
d'un altro famoso cavalliero
Di
cui la gloria andrà pel mondo a volo.
Or
non veste arme e non possede impero,
Ma
non trovo io dall'uno all'altro polo
Più
nobil sangue, ovunque il Sol risplende,
Poi
che la stirpe sua dal ciel discende.
D'Ulisse
il ceppo vien del giovenetto,
Che
fu nepote al re dal sommo coro;
Floricelso
tuo genero sia detto,
Vedilo
là c'ha in man lo scettro d'oro.
Vedi
Cleardo, non quel ch'or soggetto
È
al caldo e al gel ma un successor di loro,
Poi
Celsidoro, e indi Florideo
Con
due figlioli, Ippolito e Liseo.
Tutti
questi regnar denno in Atene,
E
altri assai di queste proli antiche,
Di
cui, perché son tanti, non conviene,
Che
tutti i nomi ad un ad un ti diche.
Ecco
Silvestro dopo questi viene,
Il
qual nutrito nelle selve antiche
Fia
di Nauplia naval città pregiata,
Che
Napoli da poi sia nominata.
Che
mentre il padre avrà dai Traci assedio,
Di
nascosto il fanciul metterà fuore,
Il
qual cresciuto poi sara 'l rimedio
Del
regno suo per lo suo gran valore,
E
leverà d'Atene in lungo tedio,
Di
cui sarà legittimo signore,
E
siederà nel racquistato scanno
Poi
che scacciato avrà l'empio tiranno.
Onde
avendo sanato il patrio regno
De
le piaghe acerbissime e mortali,
Acquisterà
quel nome illustre e degno
Che
scenderà ne' germi suoi regali;
Medico
della patria, che d'ingegno,
E
di valor i dèi vince immortali,
Di
Febo e d'Esculapio più perfetto
Da
tutta Grecia sia chiamato e detto.
Per
lunghissima etade i successori,
Pur
col nome de' Medici sien poi
Di
Napoli e d'Atene possessori,
E
'l fior saran di tutti gli altri eroi,
Del
ceppo uso a produre imperadori,
Portar
poi veggio un ramo i frutti suoi
Nella
gentil Etruria, e fermar quivi
L'alme
radici e i germi illustri e divi.
Fra
quai vedi un Giovanni alla presenza
Non
tralignar dal suo splendor antico,
La
cui virtù difenderà Fiorenza
Dal
Milanese suo crudel nimico;
D'animo
invitto e singolar prudenza
Ecco
Vieri, e di virtute amico,
Vedi
un altro Silvestro di tal gloria
Ch'i
scrittor ne faranno eterna istoria.
Cosmo
segue dapoi di valor tale,
Che
non avrà 'l miglior tutta Toscana,
Ricchissimo,
cortese, e liberale,
Di
fama a' tempi suoi chiara e sovrana;
Pietro
gli è dietro di virtute eguale,
Di
senno e di bontà vie più, ch'umana;
Quell'altro
è Giuliano. (ah, dura sorte)
Che
gli sia dato a tradimento morte.
Lorenzo
nobilissimo e pregiato
Quanto
altro sia di questa eletta schiera,
E
questo che gli vien dal destro lato,
Anzi
ti affermo e dico alma guerriera,
Che
fra tanti che t'ho fin qui mostrato
Alma
non v'è più nobile e altera;
Giulio
è quel poi, ch'avrà sì degne some
D'onor
che muterà l'abito e 'l nome.
Questo
da Giulian; ma dal germano
Lorenzo,
o bella stirpe che discende,
Un'altro
Pietro e un altro Giuliano,
E
un altro Giovanni al mondo rende;
Costui
prudente, splendido e umano
Veste
altro manto e altro nome prende,
E
pontefice sia detto dal mondo
Ch'allor
sia grado a null'altro secondo.
Questo
è un nipote suo duca di Urbino,
Detto
Lorenzo, e quella che gli è a canto
D'aspetto
veramente almo e divino
Cui
portar vedi la corona e 'l manto,
Caterina
è sua figlia, che destino
Avrà
felice e fortunato tanto
Che
sia di re consorte e di re nuora,
Di
tre re madre e d'una figlia ancora.
In
Francia se n'andrà questa a marito,
Ma
il suo fratel, ch'è quel che vienle appresso,
Detto
Alessandro, venirà tradito
Essendo
duca, e crudelmente oppresso
Lascierà
Guido. Ippolito vestito
Di
virtù è quello e è Asdrubal con esso.
Ma
lascia questo ramo e quando quello:
Lorenzo
è quel del gran Cosmo fratello.
Vedi
Pietro Francesco, e vedi insieme
Giovanni
il figlio, il qual seco conduce
La
moglie uscita del sforzesco seme
Di
cui verrà l'altro Giovanni in luce.
Ecco
quel dalle imprese alte e supreme
Ch'ornera
'l mondo con sì chiara luce,
Dico
il secondo Cosmo, il cui valore
Vincerà
ogni altro suo predecessore.
Duca
sia di Fiorenza giovinetto
Di
diciottanni il generoso figlio,
Per
li suoi merti e di sua stirpe eletto
Di
volontà di tutto quel consiglio;
Indi
gran duca di Toscana detto,
La
qual ei guarderà da ogni periglio,
Né
certo il più degno uom vederà mai
Il
sol che spiega in ogni parte i rai.
Ma
che dirò di sua progenie bella,
Di
figli e figlie al mondo illustri e rare,
Questo
Giovanni e quel Garzia s'appella,
Qua
Ferdinando e colà Pietro appare.
Ecco
Maria, Lucrezia e Isabella,
Ma
sopra tutti egregio e singolare
Vedi
FRANCESCO di virtute amante,
Degno,
che di lui scriva Apollo e cante.
Granduca
di Toscana sta secondo,
Di
cor tanto magnanimo e preclaro
E
di sì acuto ingegno e sì profondo,
Ch'umana
stima non può girli a paro;
Ben
mostrerà venir da quel facondo
Ulisse,
anzi più sia splendido e raro.
O
felice Francesco senza fine
Per
doti sì mirabili e divine.
Ma
più felice e fortunato assai,
Poi
che per grazia di benigna sorte,
Donna
la più gentil, che fusse mai
T'è
dal ciel destinata per consorte,
Poi
che perduta quella prima avrai,
Colpa
di acerba inevitabil morte.
Dico
Giovanna d'Austria, onde concetto
Ne
sia Filippo Cosmo giovinetto. –
Così
disse la fata e aggiunse poi
Volgendo
a Risamante le parole:
–Specchinsi
in quella donna gli occhi tuoi,
Che
sia seconda aurora a sì bel sole,
Non
trova il tempo negli annali suoi
Notata
ancor di lei più degna prole;
Nascerà
questa in grembo alla marina,
Di
stirpe generosa e pellegrina.
Nel
glorioso e fortunato seno
dell'Adria
ha da fondarsi una cittade,
Ch'altra
il ciel non vedrà sopra il terreno,
Di
più grandezza o di maggior beltade;
Con
catena d'amor, senz'altro freno,
Vivrà
sua gente unita in libertade;
VENEZIA
il nome sia chiaro e giocondo
Che
durerà sin alla fin del mondo.
Di
quel Dominio i Nobili potranno
Drittamente
esser principi chiamati,
Sì,
perch'a regger molti regni avranno,
Sì
per la nobiltà degli antenati,
Sì
perché d'esser principi saranno
Abili
tutti in quel consiglio nati,
E
sia l'un dopo l'altro quasi certo
D'esser
il primo in lei, quand'abbia al merto.
D'una
delle cui case illustri e degne
Che
dei CAPPELLI è la famiglia eletta,
Verrà
costei dalle regali insegne
Col
tempo in luce e sarà BIANCA detta.
Ella
per sua virtù d'ogni altro spegne
La
gloria della sua stirpe perfetta,
Anzi
più accrescer dee col suo valore
De
gli avi eccelsi suoi l'alto splendore.
Oltra
questa gentil, cortese e bella
Donna,
di senno albergo e d'eloquenza,
Tanto
cara al marito e egli ad ella;
Tanto
cari a Venezia e a Fiorenza,
Questa
casa illustrissima CAPPELLA
Produrrà
spirti di rara eccellenza,
E
ornerà 'l mondo innanzi di costei
Di
mille chiari egregi semidèi.
Tra
quali un Nicolò con vivo raggio
Spargerà
per quei mari il suo splendore,
E
dopo di sì divo almo lignaggio
Il
gran Vicenzo uscir veggio e Vittore,
Indi
Bartolomeo cortese e saggio,
Degno
della gran Bianca genitore;
Ma
tu non puoi vederli manifesti
Perché
non son di tua prosapia questi.
Vestirà
a Bianca il bel corporeo velo
Che
porterà dal ciel tai privilegi
Bartolomeo,
né il suo fecondo stelo
Fiorirà
sol di questa donna i pregi,
Perché
d'un figlio ancor loderà il cielo,
Giovene
illustre e di costumi egregi.
Farallo
anco Vittor beato a pieno
Per
le tante eccellenze ch'in lui sieno. –
Stava
ad udir la bella Risamante
Mentre
così la fata ragionava,
E
i cari germi, che vedeasi avante,
Or
l'uno or l'altri con amor mirava.
La
gentil fata dopo lodi tante,
Ch'a
questi e ad altri di sua stirpe dava,
Col
velo ricoperse il sacro vetro,
E
con la figlia ritornossi in dietro.
Tornaro,
ove attendea col bel garzone
La
nobil donna, a cui la fata volta
Disse:
– Or puoi gir e star fra le persone
Ch'al
tuo persecutor la vita è tolta;
E
sappi, che in brevissima stagione
Questo
garzon, dove si vede accolta
Una
sì rara angelica beltade
Sarà
un de primi eroi di questa etade. –
Così
dicendo sparve e la guerriera
Dalla
matrona accomiatossi allora,
E
acquistata la sua lancia intera,
Ch'ivi
trovò, non fé lunga dimora,
Ma
ritornando al loco, onde scesa era,
Con
gran difficultà pur tornò fuora,
E
trovò che rifatto era il roseto,
Più
che mai di bei fior giocondo e lieto.
Tra
folte spine dunque e rami ombrosi
Si
pose a gir la donna in fin ch'uscìo,
E
poi che fu ne' prati spaziosi
Il
tralasciato suo camin seguio;
Di
trovar altri lochi perigliosi,
Altre
strane avventure è il suo desio,
A
piè lascia il giardin verde e fiorito
E
duolsi del destrier che le è fuggito.
Ma
non fé molti passi, che 'l destriero,
Già
per timor dentro una siepe ascosto,
Se
le fé incontro a mezzo del sentiero
Come
al giunger di lei si fusse apposto;
Lieta
la donna il prende di leggiero,
E
poi ch'in sella il fianco ebbe riposto
Lo
sprona sì che quella sera arriva
Ad
una villa detta Francariva.
In
quella villa un gentiluomo avea
Un
suo poder con ricco casamento;
E
se donna o donzella vi giungea,
O
cavallier, gli dava alloggiamento;
Ricco
era e sempre il suo largo spendea
In
usar cortesie gionto e d'intento,
Onde
per questo in tutto quel paese
Era
chiamato il cavallier cortese.
A
punto si trovava in sulla porta
Del
cortil, ch'era largo e spazioso,
Quando
passò la donna, e da lui scorta
Fu
per guerrier d'aspetto valoroso;
Il
gentiluomo a dismontar l'esorta,
Ch'era
tempo di albergo e di riposo.
Dal
prego e dal bisogno la donzella
Vinta
fermossi e dismontò di sella.
Tosto
un servo il destrier piglia e alloggia,
Lo
sfrena e biada assai gli mette inante;
Altri
per vari lochi o scende o poggia,
E
la cena apparecchia in uno istante.
Il
cavallier condusse in una loggia
A
disarmar la bella Risamante.
Ma
qui do fine al ragionar presente
E
la man riposar voglio e la mente.
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