Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText
Modesta Pozzo de' Zorzi (alias Moderata Fonte)
Tredici canti del Floridoro

IntraText CT - Lettura del testo

  • CANTO TERZO
Precedente - Successivo

Clicca qui per nascondere i link alle concordanze

CANTO TERZO



Argomento


La fiera serpe uccide Risamante,

Perde il destriero e nella grotta scende;

Le vien la donna frigia e 'l figlio inante,

La qual dell'esser suo conto le rende.

Compar la fata e a lei dona il diamante,

Poi fa, ch'in uno specchio ella comprende

Sua chiara stirpe, e indi uscendo fuora

Trova il cavallo e buon albergo ancora.


O gran virtù de cavallier passati

Che con tanta pietà l'armi portaro,

E senza obligo aver, cortesi e grati,

Sempre per gli innocenti il brando opraro,

E fra tanti perigli, ove chiamati

Furon, le proprie vite avventuraro

Per salvar quelle di persone strane,

Alla lor patria e al sangue lor lontane.


Credo ch'a nostra età pochi sarieno,

Ch'a rischio si mettesser per altrui,

E non pur che lasciare il patrio seno

Per gir in difenssion non so de cui,

Ma che 'l padre volesse che vien meno

(O s'altri è di più merito di lui)

Senza premio aiutar d'una parola,

Non che esponer la vita ch'è una sola.


Quanti orfani oggi son cui sono oppresse

Le facultà che de lor padri foro

Per non aver (non chi al morir s'appresse)

Ma chi opri pur la lingua in favor loro;

Come fusse il parlar grande interesse,

Se lor prima la man non s'empie d'oro,

Pochi avvocati son che tor l'impresa

Voglian d'aprir la bocca in lor difesa.


Ma fra quei pochi ho da lodar il cielo

Ben io di tai che non di questi sono,

I quai cercan con fede e amico zelo

Di sollevarmi ove sì oppressa sono;

Di cui mai cessarò di alzar al cielo

L'immensa cortesia, l'officio buono,

Riconoscendo le grate opre sole

A mio poter con fatti e con parole.


Dovrian pur imitar questi ch'io dico,

Tant'altri, in cui l'empia avarizia ha regno;

Dovria pur di pietade essere amico

Ciascun di lor con questo esempio degno.

Giovan Giacopo onor del Gradenico

Lignaggio imiti ogni leggiadro ingegno,

Giovan Vincenti illustre imiti, e il raro,

E buon Tomaso Cernovicchio a paro.


Ne debbono esser ben degli altri ancora

Di tal bontà che mal starebbe il mondo,

Ma come gli potrei discerner fuora

Di numerogrande e sì profondo?

Questi che mi difendon d'ora in ora,

Questi che d'aiutarmi han tolto il pondo,

Agli effetti conosco e al buon volere,

C'han verso me senza desio d'avere.


Gentil guerrier fu il principe Risardo,

Che si mostrò de tal bontade allora,

Quando a torsi l'assunto non fu tardo

Di liberar la bella Raggidora;

E se ben poscia il giovene gagliardo

A novello cammin volse la prora,

Come vi narrerò, non l'incolpo io

Che pur a questo fin di corte uscio.


Ogni più gran signor del tracio regno

Col magnanimo figlio il re incamina;

Ei veste sopra l'arme un manto degno

Che di sua man gli avea tessuto Ersina,

E s'allaccia lo scudo, ov'è il disegno

D'una vaga donzella pellegrina,

La qual, mirando il ciel, mostrar volea

La speme ch'ei di vincer sempre avea.


Ma perché son vari i soggetti, e i versi

Vari e l'un l'altro il proseguir contende,

Tal io son, qual fanciul che di diversi

Fiori formar bella ghirlanda intende,

Che acciò del bel d'ognun possa valersi

Non sempre il giglio o la viola prende,

Ma or l'uno or l'altro, e in variar colore

Si serve alfin d'ogni suo colto fiore.


Però lasciando il buon Risardo un poco,

A Risamante voglio far ritorno,

La qual sì come ho detto in altro loco,

A un bel giardin giunse per caso un giorno.

D'acanto, gelsomin, narciso e croco,

E d'ogni altro bel fior vago e adorno,

E di bossi e ginepri intorno cinto

Da un verde muro d'arbuscei distinto.


In mezzo è un largo e bel boschetto ombroso

Di vermigli rosai fioriti e belli,

Il resto è tutto netto e spazioso,

E sol produce erbette e fior novelli.

Trasse la donna a prendervi riposo

L'odor de fiori el canto de gli uccelli;

Smonta di sella e 'l freno al destrier tolle

Si cava l'elmo e siede all'ombra molle.


Dell'umil bosco alla soave ombretta

Disegna un sonno far dolce e quieto,

Ma non è appena acconcia in sull'erbetta

Ch'un gran romor sente dentro il roseto;

S'alza ella tosto, e ripon l'elmo in fretta,

E move il piè con passo muto e cheto;

Ma poi rimase al subito apparire

Di quel che vide incontra sé venire.


Vide una serpe uscir tra fiori e foglie,

Non se iacolo era o anfesibena,

Ch'in Africa ad ogn'altra il vanto toglie

In esser grande e di veleno piena;

Dell'oro altiera e delle verdi spoglie

La velenosa coda in giro mena,

Salta dei cespi sibilando fuori

E strugge col suo fiato l'erbe e i fiori.


Di mezzo 'l bosco d'incarnate rose,

Che tutto arse e pestò col suo furore,

Uscì improvvisa, e nella donna pose

Un non so che di spasmo e di terrore;

Ma pur lo scudo al collo si ripose,

Tolse la lancia in man, riprese core,

E con quella acconciossi a far contrasto

Alla fiera che vien per trarne pasto.


L'ingorda fiera con aperta bocca

Le corre sopra, e corla già non puote;

Ma 'l ferro incauta della lancia imbocca,

Che oppon la donna e sé fora e percote.

La donna sempre più la punta imbrocca,

E fa che 'l drago invan s'aggiri e ruote.

Si fora il drago, e per la doglia dira

Quanto più può si scuote e si ritira.


Simil battaglia in quella antica etade

Cadmo già col drago orrendo e diro,

Che viste l'ossa dei compagni amate

Li scorse giunti all'ultimo martiro.

Poi che non men di membra ismisurate

Era questo di quel che uccise il Tiro,

men ha Risamante arte e valore

Del generoso figlio di Agenore.


Segue ella il drago valorosamente,

E più ch'ei si ritira ella va innanzi,

val che ritirandosi il serpente

Cerchi fuggir la morte ch'avea inanzi;

Perché nel farsi indietro incautamente

Cadde nel buco, ond'era uscito dianzi,

Né dalla donna fu prima scoperto,

Che bosco lo tenea chiuso e coperto.


Poco men che non cadde la donzella,

Che venia dietro in quella tomba scura,

Ma in quel che traboccò la bestia fella

Lasciò la lancia e fu sua gran ventura.

Sciolta da quel impacciò, disegn'ella

Quindi partir cercando altra avventura,

Ma trovò che 'l destrier fuggito altrove

Per tema era del serpe e non dove.


In questo ode una voce all'improvviso,

Che dice: – O nobilissima guerriera,

Non ti partir del bel giardin t'avviso,

Se pria non scendi in quella tomba fiera,

Che quindi in guiderdon del serpe ucciso

Col premio uscirai fuor ricca e altiera.

Entra pur dove la serpe orrenda

Cadde, se vuoi veder cosa stupenda. –


Risamante a quel grido rivoltosse

E non veggendo alcun non si ritarda;

Ma per saper ciò ch'in quel loco fosse

S'accosta al buco e 'l capo china e guarda,

E viste dentro alcune scoglie grosse

Sporgersi in fuor, la giovene gagliarda

Con man s'attacca all'orlo e i piedi cala,

E si fa de le pietre appoggio e scala.


Pensa fra sé la vergine scendendo

D'aver il capo a premere o la pancia

Od altra parte di quel drago orrendo,

E racquistar la già perduta lancia;

Ma vede, giunta in piana terra essendo,

Che quanto ell'ha pensato è sogno e ciancia,

Perché vi trova in scambio del dragone

Una nobil matrona e un bel garzone.


Il giovenetto non giungeva ancora

Ai tredici anni, e era fresco e bello

Come giglio, ch'al nascer dell'aurora

Apra le foglie e spiri odor novello.

Tanta delicatezza in lui dimora,

Che sembra il viso e 'l crin fatto a pennello;

Par proprio, che dipinte abbia le membra,

E tanto è bianco, che di neve sembra.


Biondissima ha la chioma e inanellata,

E 'l ricco vel, che 'l suo bel corpo ornava

È d'una seta bianca delicata,

Ch'un'estrema lascivia dimostrava;

Negli occhi è d'aria poi sì dolce e grata,

Che a chi lo mira il cor del petto cava;

Di lui più in somma dir non si potria

Se non ch'è tutto amore e leggiadria.


Stupisse la donzella, che comprende

bel fanciullo in quella tomba chiuso,

Qual riverente incontra se le rende,

Come in gran corti a praticar fosse uso.

La matrona gentil, ch'i lumi intende

Nella donzella allor scesa giuso,

Con maniera cortese la saluta,

Dicendole: – tu sii la ben venuta.


È pur gionto quel bramato e caro,

Nel qual son tratta fuor d'ogni periglio,

E schiverà di morte il colpo amaro

Questo mio dolce e mal veduto figlio;

Or potremo uscir fuori al giorno chiaro,

Che giunto è il fin del nostro lungo esiglio;

E pur tu Risamante sei cagione

Stata di liberarsi di pregione.


Di che ti lodo e ti ringrazio tanto,

Che fin ch'in me sarà spirto di vita

Non serò mai per iscordarmi quanto

Obbligo t'ho d'un'opragradita.

E perché intendi il caso tutto quanto,

Ch'a te render mi fa grazia infinita,

Sediamo insieme, ch'io vo farti espresso

Quando ti piaccia udir tutto il successo. –


L'alta guerriera stupefatta resta

Che la sappia costei chiamar per nome,

E brama udir la cosa manifesta

E perché qui venisse e quando e come;

Onde si trasse l'elmo della testa

E mostrò fuor le crespe aurate chiome,

E a seder si pose accanto a quella,

Dimostrandosi in un cortese e bella.


Quel garzon la mirava attentamente

Ch'altro bel volto a giorni suoi non vide,

Ma per li teneri anni amor non sente,

E con semplicità la guarda e ride.

La madre incominciò: – Del re possente

Del frigio pian che fu nomato Aclide

Io fu consorte, e vissi un tempo al segno

Contenta di tal sposo e di tal regno.


Ma quel possente dio, d'Amor io parlo,

Che doma i mostri e in ciel vince anco i dèi,

Invido del mio ben venne a turbarlo

E interroppe tutti i piacer miei,

Perché mentre il mio re (per aiutarlo)

Va al regno lidio contra i siri rei,

Un re cortese alla mia corte giunse

E del suo amor il cor m'accese e punse.


Venuto era costui sin da ponente,

Dove reggea tutto 'l paese ibero;

E perché valoroso era e possente

Avea lasciato il suo felice impero,

E gìa cercando tutto l'oriente,

Ogni avventura, ogni periglio fero,

Di mostrar sua virtù desideroso,

E di farsi immortal e glorioso.


Sanno i dèi quel ch'io feci per levarmi

La nova passion dal fragil core,

Ma non ebbi poter di ripararmi

Contra le troppo invitte arme d'Amore.

Confesso ch'io dovea prima privarmi

Di vita che far mai sì grande errore,

Ma quando poi questo bel frutto guardo

Che di ciò nacque, anco a pentirmi tardo.


Dico, che di quel re, che dimostrosse

Non men di me, ch'io di lui fosse acceso,

Rimasi pregna in tempo che trovosse

Il mio signor a quella guerra inteso;

Poi quando a noi di Lidia ritirosse

Gravida mi trovò, del non suo peso,

Né potei il fallo mio sì ben coprire

Ch'egli venne la cosa a discoprire.


Era stato da me diviso un anno,

Quando fece di Lidia a me ritorno,

E discoperto il mio amoroso inganno

Mi vol col brando far l'ultimo scorno.

Io scampo la sua furia e con affanno

Vengo e do qui questo fanciullo al giorno,

Dove mossa a pietà del mio periglio

Una fata aiutommi e diè consiglio.


E perché non cessava da ogni lato

La persecuzion di mio marito,

Che pur volea punirmi del peccato

Ch'avea commesso avendolo tradito,

Ella m'avvisa che col dolce nato

In questo loco io stia chiuso e romito,

Perché secura esser non può mia vita

Fin che quella del re non è fornita,


E perch'alcun di quelli non potesse,

Ch'andavano spiando mia persona,

Trovarmi in questa grotta e non mi desse

In mano alla sdegnata sua corona,

Pose qui quella serpe acciò che stesse

Alla mia guardia contra ogni persona;

E mi disse: «Di qui non ti levare,

Sin che 'l dragon morendo non dispare.


Perché in quell'ora, in quell'istesso punto,

Ch'essendo ucciso sparirà il dragone,

Sarà rimasto il tuo signor defunto

E tu sciolta sarai della pregione;

E sappi, che quel drago esser consunto

Non deve per valor d'alcun barone,

Ma per man d'una vergine gentile

Che non ha paragon da Battro, a Thile».


E mi disse, c'hai nome Risamante,

E di chi figlia sei mi diede avviso. –

Volea seguir la donna ancor più avante,

Quando lor sopravenne all'improvviso

La gentil fata, ch'ella disse inante,

Che salutolle con giocondo viso;

E elle sorte, e quel fanciul cortese

Tosto il saluto a quella fata rese.


La bella fata che l'amava molto

Abbraccia Risamante come figlia,

E mille volte bacia il suo bel volto

E quella bocca a par d'ostro vermiglia;

E avendosi poi di dito tolto

Un annel le lo porse e disse: – Piglia,

Che questo annel che tal rende splendore

Ti dono in premio del tuo gran valore.


Sappi c'ha in sé molta virtù nascosa

Che val contra ogni incanto e ogni paura,

E rende l'alma franca e animosa

Contra ogni strana, orribile avventura;

Ma non mi basta così picciol cosa

Perché di farti maggior grazia ho cura,

Tanto sono a tuoi merti affezionata,

Ch'esser ti voglio in maggior cose grata.


Mostrar ti vo' quando ti sia in piacere

Molti di tua progenie illustre e degna,

In uno specchio onde ciascun vedere

Puote la stirpe sua prima che vegna;

Ma gli è ben ver, ch'alcun no 'l pote avere,

E d'acquistarlo indarno alcun disegna,

Però che si riserba a un cavalliero

Che non è nato ancor, del greco impero. –


Così dicendo un picciol uscio aperse

Dove alcun mai non era ancora entrato,

La figlia dentro a quella il piè converse

E entrò seco in un ostel fatato;

E per virtù di quel annel disperse

Molte ombre rie che le venir da lato.

La matrona e 'l bel figlio anco provarsi

D'entrar, ma fur costretti a ritirarsi.


Buio era il loco, ove passò la fata

Come la notte ivi suo albergo avesse,

Ma quando la cortina ebbe levata,

Che lo specchio impedia che non lucesse,

Subito fu da quello illuminata

E parve, che col raggio il sol vi desse;

La fata lui scoperse e diede in luce,

Ed ei veder lei con la sua luce.


Era quel bel cristallo al muro appeso

Chiuso in un studiol d'oro lucente.

Come v'ha Risamante il guardo inteso

Dentro ondeggiar vede infinita gente,

E per quel ch'alla vista ebbe compreso,

Tutti d'ingegno e d'animo eccellente;

Chi l'elmo ha in testa e chi corona d'oro,

Ma non conosce alcuno ella di loro.


V'erano donne assai belle e ornate,

Fra' quai venne una alla guerriera inanzi.

Costei, disse la fata, di beltate,

D'ingegno e di valor credo t'avanzi;

Né pur a te, ma a quante donne nate

Saranno all'età sua passerà innanzi;

Del re di Cipro sia da te concetta

Unica figlia, Salarisa detta.


La sposerà quel re bello, e altero

Il qual di Celsidea sarà figliuolo,

E d'un altro famoso cavalliero

Di cui la gloria andrà pel mondo a volo.

Or non veste arme e non possede impero,

Ma non trovo io dall'uno all'altro polo

Più nobil sangue, ovunque il Sol risplende,

Poi che la stirpe sua dal ciel discende.


D'Ulisse il ceppo vien del giovenetto,

Che fu nepote al re dal sommo coro;

Floricelso tuo genero sia detto,

Vedilo c'ha in man lo scettro d'oro.

Vedi Cleardo, non quel ch'or soggetto

È al caldo e al gel ma un successor di loro,

Poi Celsidoro, e indi Florideo

Con due figlioli, Ippolito e Liseo.


Tutti questi regnar denno in Atene,

E altri assai di queste proli antiche,

Di cui, perché son tanti, non conviene,

Che tutti i nomi ad un ad un ti diche.

Ecco Silvestro dopo questi viene,

Il qual nutrito nelle selve antiche

Fia di Nauplia naval città pregiata,

Che Napoli da poi sia nominata.


Che mentre il padre avrà dai Traci assedio,

Di nascosto il fanciul metterà fuore,

Il qual cresciuto poi sara 'l rimedio

Del regno suo per lo suo gran valore,

E leverà d'Atene in lungo tedio,

Di cui sarà legittimo signore,

E siederà nel racquistato scanno

Poi che scacciato avrà l'empio tiranno.


Onde avendo sanato il patrio regno

De le piaghe acerbissime e mortali,

Acquisterà quel nome illustre e degno

Che scenderà ne' germi suoi regali;

Medico della patria, che d'ingegno,

E di valor i dèi vince immortali,

Di Febo e d'Esculapio più perfetto

Da tutta Grecia sia chiamato e detto.


Per lunghissima etade i successori,

Pur col nome de' Medici sien poi

Di Napoli e d'Atene possessori,

E 'l fior saran di tutti gli altri eroi,

Del ceppo uso a produre imperadori,

Portar poi veggio un ramo i frutti suoi

Nella gentil Etruria, e fermar quivi

L'alme radici e i germi illustri e divi.


Fra quai vedi un Giovanni alla presenza

Non tralignar dal suo splendor antico,

La cui virtù difenderà Fiorenza

Dal Milanese suo crudel nimico;

D'animo invitto e singolar prudenza

Ecco Vieri, e di virtute amico,

Vedi un altro Silvestro di tal gloria

Ch'i scrittor ne faranno eterna istoria.


Cosmo segue dapoi di valor tale,

Che non avrà 'l miglior tutta Toscana,

Ricchissimo, cortese, e liberale,

Di fama a' tempi suoi chiara e sovrana;

Pietro gli è dietro di virtute eguale,

Di senno e di bontà vie più, ch'umana;

Quell'altro è Giuliano. (ah, dura sorte)

Che gli sia dato a tradimento morte.


Lorenzo nobilissimo e pregiato

Quanto altro sia di questa eletta schiera,

E questo che gli vien dal destro lato,

Anzi ti affermo e dico alma guerriera,

Che fra tanti che t'ho fin qui mostrato

Alma non v'è più nobile e altera;

Giulio è quel poi, ch'avrà sì degne some

D'onor che muterà l'abito e 'l nome.


Questo da Giulian; ma dal germano

Lorenzo, o bella stirpe che discende,

Un'altro Pietro e un altro Giuliano,

E un altro Giovanni al mondo rende;

Costui prudente, splendido e umano

Veste altro manto e altro nome prende,

E pontefice sia detto dal mondo

Ch'allor sia grado a null'altro secondo.


Questo è un nipote suo duca di Urbino,

Detto Lorenzo, e quella che gli è a canto

D'aspetto veramente almo e divino

Cui portar vedi la corona e 'l manto,

Caterina è sua figlia, che destino

Avrà felice e fortunato tanto

Che sia di re consorte e di re nuora,

Di tre re madre e d'una figlia ancora.


In Francia se n'andrà questa a marito,

Ma il suo fratel, ch'è quel che vienle appresso,

Detto Alessandro, venirà tradito

Essendo duca, e crudelmente oppresso

Lascierà Guido. Ippolito vestito

Di virtù è quello e è Asdrubal con esso.

Ma lascia questo ramo e quando quello:

Lorenzo è quel del gran Cosmo fratello.


Vedi Pietro Francesco, e vedi insieme

Giovanni il figlio, il qual seco conduce

La moglie uscita del sforzesco seme

Di cui verrà l'altro Giovanni in luce.

Ecco quel dalle imprese alte e supreme

Ch'ornera 'l mondo con sì chiara luce,

Dico il secondo Cosmo, il cui valore

Vincerà ogni altro suo predecessore.


Duca sia di Fiorenza giovinetto

Di diciottanni il generoso figlio,

Per li suoi merti e di sua stirpe eletto

Di volontà di tutto quel consiglio;

Indi gran duca di Toscana detto,

La qual ei guarderà da ogni periglio,

Né certo il più degno uom vederà mai

Il sol che spiega in ogni parte i rai.


Ma che dirò di sua progenie bella,

Di figli e figlie al mondo illustri e rare,

Questo Giovanni e quel Garzia s'appella,

Qua Ferdinando e colà Pietro appare.

Ecco Maria, Lucrezia e Isabella,

Ma sopra tutti egregio e singolare

Vedi FRANCESCO di virtute amante,

Degno, che di lui scriva Apollo e cante.


Granduca di Toscana sta secondo,

Di cor tanto magnanimo e preclaro

E di sì acuto ingegno e sì profondo,

Ch'umana stima non può girli a paro;

Ben mostrerà venir da quel facondo

Ulisse, anzi più sia splendido e raro.

O felice Francesco senza fine

Per dotimirabili e divine.


Ma più felice e fortunato assai,

Poi che per grazia di benigna sorte,

Donna la più gentil, che fusse mai

T'è dal ciel destinata per consorte,

Poi che perduta quella prima avrai,

Colpa di acerba inevitabil morte.

Dico Giovanna d'Austria, onde concetto

Ne sia Filippo Cosmo giovinetto. –


Così disse la fata e aggiunse poi

Volgendo a Risamante le parole:

Specchinsi in quella donna gli occhi tuoi,

Che sia seconda aurora a sì bel sole,

Non trova il tempo negli annali suoi

Notata ancor di lei più degna prole;

Nascerà questa in grembo alla marina,

Di stirpe generosa e pellegrina.


Nel glorioso e fortunato seno

dell'Adria ha da fondarsi una cittade,

Ch'altra il ciel non vedrà sopra il terreno,

Di più grandezza o di maggior beltade;

Con catena d'amor, senz'altro freno,

Vivrà sua gente unita in libertade;

VENEZIA il nome sia chiaro e giocondo

Che durerà sin alla fin del mondo.


Di quel Dominio i Nobili potranno

Drittamente esser principi chiamati,

Sì, perch'a regger molti regni avranno,

Sì per la nobiltà degli antenati,

Sì perché d'esser principi saranno

Abili tutti in quel consiglio nati,

E sia l'un dopo l'altro quasi certo

D'esser il primo in lei, quand'abbia al merto.


D'una delle cui case illustri e degne

Che dei CAPPELLI è la famiglia eletta,

Verrà costei dalle regali insegne

Col tempo in luce e sarà BIANCA detta.

Ella per sua virtù d'ogni altro spegne

La gloria della sua stirpe perfetta,

Anzi più accrescer dee col suo valore

De gli avi eccelsi suoi l'alto splendore.


Oltra questa gentil, cortese e bella

Donna, di senno albergo e d'eloquenza,

Tanto cara al marito e egli ad ella;

Tanto cari a Venezia e a Fiorenza,

Questa casa illustrissima CAPPELLA

Produrrà spirti di rara eccellenza,

E ornerà 'l mondo innanzi di costei

Di mille chiari egregi semidèi.


Tra quali un Nicolò con vivo raggio

Spargerà per quei mari il suo splendore,

E dopo di sì divo almo lignaggio

Il gran Vicenzo uscir veggio e Vittore,

Indi Bartolomeo cortese e saggio,

Degno della gran Bianca genitore;

Ma tu non puoi vederli manifesti

Perché non son di tua prosapia questi.


Vestirà a Bianca il bel corporeo velo

Che porterà dal ciel tai privilegi

Bartolomeo, né il suo fecondo stelo

Fiorirà sol di questa donna i pregi,

Perché d'un figlio ancor loderà il cielo,

Giovene illustre e di costumi egregi.

Farallo anco Vittor beato a pieno

Per le tante eccellenze ch'in lui sieno. –


Stava ad udir la bella Risamante

Mentre così la fata ragionava,

E i cari germi, che vedeasi avante,

Or l'uno or l'altri con amor mirava.

La gentil fata dopo lodi tante,

Ch'a questi e ad altri di sua stirpe dava,

Col velo ricoperse il sacro vetro,

E con la figlia ritornossi in dietro.


Tornaro, ove attendea col bel garzone

La nobil donna, a cui la fata volta

Disse: – Or puoi gir e star fra le persone

Ch'al tuo persecutor la vita è tolta;

E sappi, che in brevissima stagione

Questo garzon, dove si vede accolta

Una sì rara angelica beltade

Sarà un de primi eroi di questa etade. –


Così dicendo sparve e la guerriera

Dalla matrona accomiatossi allora,

E acquistata la sua lancia intera,

Ch'ivi trovò, non lunga dimora,

Ma ritornando al loco, onde scesa era,

Con gran difficultà pur tornò fuora,

E trovò che rifatto era il roseto,

Più che mai di bei fior giocondo e lieto.


Tra folte spine dunque e rami ombrosi

Si pose a gir la donna in fin ch'uscìo,

E poi che fu ne' prati spaziosi

Il tralasciato suo camin seguio;

Di trovar altri lochi perigliosi,

Altre strane avventure è il suo desio,

A piè lascia il giardin verde e fiorito

E duolsi del destrier che le è fuggito.


Ma non molti passi, che 'l destriero,

Già per timor dentro una siepe ascosto,

Se le incontro a mezzo del sentiero

Come al giunger di lei si fusse apposto;

Lieta la donna il prende di leggiero,

E poi ch'in sella il fianco ebbe riposto

Lo sprona sì che quella sera arriva

Ad una villa detta Francariva.


In quella villa un gentiluomo avea

Un suo poder con ricco casamento;

E se donna o donzella vi giungea,

O cavallier, gli dava alloggiamento;

Ricco era e sempre il suo largo spendea

In usar cortesie gionto e d'intento,

Onde per questo in tutto quel paese

Era chiamato il cavallier cortese.


A punto si trovava in sulla porta

Del cortil, ch'era largo e spazioso,

Quando passò la donna, e da lui scorta

Fu per guerrier d'aspetto valoroso;

Il gentiluomo a dismontar l'esorta,

Ch'era tempo di albergo e di riposo.

Dal prego e dal bisogno la donzella

Vinta fermossi e dismontò di sella.


Tosto un servo il destrier piglia e alloggia,

Lo sfrena e biada assai gli mette inante;

Altri per vari lochi o scende o poggia,

E la cena apparecchia in uno istante.

Il cavallier condusse in una loggia

A disarmar la bella Risamante.

Ma qui do fine al ragionar presente

E la man riposar voglio e la mente.




Precedente - Successivo

Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC
IntraText® (V89) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2008. Content in this page is licensed under a Creative Commons License