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Modesta Pozzo de' Zorzi (alias Moderata Fonte)
Tredici canti del Floridoro

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CANTO QUINTO



Argomento


In Itaca trasporta la procella

Silano, ove in arbore trasforma

Il cavallier la magica donzella

E salva lui dalla ferina torma,

Giungono i Greci al re. Fanno una bella

Mostra i giostranti. Il nobil oste informa

Risamante del modo onde l'anello

Ottenne e come uccise il Drago fello.


Ahi, che non può quel rio tiranno Amore,

Se da buon senno un cor percote e fere?

A chi leva la vita, a chi l'onore,

A chi la roba e l'amicizie vere.

Altri per sua cagione entra in furore

E è sforzato oprar contra il dovere;

E per un sol, che le costui faville

Faccian saggio parer, ne impazzan mille.


Per un ch'accostumato e riverente,

E che cortese Amor renda e gentile,

Infiniti son quei c'hanno la mente

Perfida, traditrice, infame e vile.

E se la donna al lor desire ardente

Non si dimostra al primo tratto umile,

Se non si rende a prieghi empi e molesti

Eccoli agli odi, alle vendette presti.


Fuggan le donne pur più che 'l peccato,

Più che 'l morir l'officio dell'amare,

C'han la più parte il cor gli uomini ingrato

Per quel ch'io leggo e spesso odo contare;

Benché dall'empio, iniquo e scelerato

Non ben si possa in modo alcun guardare,

Che mal a qualunque ama, e peggio ancora

Per non amar successe a Raggidora.


La qual non consentendo al gran desire

Del cavallier per troppo amore insano,

Fu cagion ch'egli vinto dal martire

Si mostrasse ver lei crudo e villano.

Benché dapoi, come farovi udire,

La cercasse placar, ma sempre invano.

Or restisi costei, che del marino

Furor trar voglio il principe latino.


Non cessò Borea impetuoso e fermo,

Nel suo rigor fin alla terza sera,

Sempre agitando il picciol palischermo

Per la marina ingiuriosa e fera;

Nel terzo , che non n'avean più schermo

Parve alquanto cessar la furia altera,

E l'aer un poco aperto in orizonte

Scoprì del sol nel tramontar la fronte.


Accolse il vento a poco a poco ogni ala

E placato si rese al suo gran duce,

E 'l mar anch'ei la rabbia e 'l furor cala

E nell'esser primier si riconduce;

Un dolce fiato allor contrario esala,

Ch'i nembi scaccia e loco alla luce,

E Cinzia mostrò fuor le chiome belle

E 'l ciel s'ornò di scintillanti stelle.


L'alba comparve poi nell'oriente

Che di perle quel fregiar si volse,

E l'aurora seguì d'oro lucente

Che di fresca ghirlanda il crin s'avvolse,

E i cavallier, ch'assai più dolcemente

Quella notte passar, dal sonno sciolse,

Che furon (non sapendo in che paesi)

Sopra una vaga e bella isola scesi.


Lieti quant'uomo imaginar si pote

Salutan ambi il desiato lido,

E piglian terra in quelle parti ignote

E danno il tergo al mar noioso e infido;

E con parole pie, sante e devote,

Poi che fur tratti in più sicuro nido,

Ne ringraziar l'eterne alme divine

Con le luci e le mani al ciel supine.


Erano a piedi e di tutt'arme ornati

(Che seco le salvò ciascun guerriero)

Onde per lieti e verdeggianti prati,

Per quel bel piano a camminar si diero.

Veggon de' fiori i bei campi stellati

Dove più d'un capriol scorrea leggiero,

E poco lungi poi le spiche bionde

Tremolando imitar le marine onde.


Bel boschetto di lauri e di ginepri

Veggion tra due fontane intatte e dolci

Caro e secreto albergo a damme e a lepri,

Che da le fere gli asconde e da bifolci.

Soave Amor, che di pungenti vepri

I cori impiaghi e le ferite addolci,

Quando in Cittera avesti, in Papho, o in Gnido,

Così giocondo e grazioso nido?


Quanto il passo i guerrier movean più avanti

Scorgean nova beltà, vaghezza nova,

Udivano armonie, sentiano canti

Di vaghi uccel che fan concenti a prova;

Che lieti i due guerrier fra piacer tanti

Giurar che questo sol diletta e giova,

Né v'è più gioia a lor giudizio intera

Che le delizie e 'l bel di primavera.


Incognita de fonti è lor l'uscita

Che comprender non san donde l'acqua esca,

Che da due lati di lontano uscita

Più ch'ambra discendea limpida e fresca;

La terra da duo rivi tripartita

Fa che natura i suoi tesori accresca,

Dai lati son mille feconde piante,

Nel mezzo è il bosco, ch'io v'ho detto inante.


Le fonti discorrean lucide e terse

Dentro un ameno e florido pratello,

Che di mirti e viole azzurre e perse

Intorno un muro avea leggiadro e bello;

Quinci dalla natura in un converse

Formavano passando un fiumicello,

Ch'ombrose avea le colorite sponde

D'ogni più ricca e fruttuosa fronde.


Scorgon di qua e di mille arbor tutti,

Carchi di pomi d'or vaghi e ridenti,

Ch'i tronchi sostenea, le fronde e i frutti,

Ch'ornano a Bacco i crin biondi e lucenti.

E v'ha con sì bell'ordine produtti

Natura i rami e 'n lor l'uve pendenti,

Quai d'oro e quai di color d'ostro pinte,

Che dall'arte parean ritratte e finte.


Silano, che dal tempo aspro e malvagio,

La persona tenea debile e trista,

E patìa dal digiun lungo disagio,

S'allegra i spirti a sì leggiadra vista,

E per scacciar la fame a suo bell'agio

Si ferma accanto alla pendente lista;

E Clarido di pomi i rami spoglia

E sazia questo e quell'avida voglia.


Fu la ventura lor che non toccaro

Degli arbori di dentro frutto alcuno,

colser fior, né di quel fiume chiaro

Gustar, c'avrebbon mal rotto il digiuno,

E più ch'in quel boschetto non passaro,

Di cui detto ho, che vi peria ciascuno.

Silano ben dentro il pratel giacea

Ma Clarido di fuor pomi cogliea.


O fosse caso, o lor prudenza ingombra

Di quelli il seno, indi l'afflitto spirto

Ristorano ambi, e all'odorifer'ombra

S'assidon poi d'un amoroso mirto.

Quel dolce tempo ogni mestizia sgombra,

Spiran l'aurette un delicato spirto,

Ma poco stan, ch'a un gran romor d'intorno

Si sviar da sì lieto, almo soggiorno.


E si levaro e per l'erbosa valle

De lo scudo provvisti e della spada,

Dove udir quel romor presero il calle

Che li condusse alla più trita strada;

Scopron d'un monte allor le late spalle

Ch'ascende alla divina alma contrada,

E cinto ha il piè d'un ben composto muro

Che chiude il passo al peregrin sicuro.


Affermar non si può che la muraglia

Di pario marmo, o d'alabastro sia,

Perch'è di splendor tal ch'ogn'occhio abbaglia,

Quantunque saldo e che lontan ne stia

A sì mirabil passo non s'agguaglia

Diamante alcun, che simil luce dia;

Di carbonchio non è, né di cristallo

D'argento no, né del più fin metallo.


Egli è di tal materia illustre e chiara

Che eccede e vince ogni pensiero umano,

Però mirando un'operarara

Stupido resta il principe Silano;

Clarido con le man gli occhi ripara

Dal gran fulgor del magisterio strano,

E finalmente fero ambi giudizio

Che questo fosse un magico artifizio.


Domandar mi potreste la cagione

Perch'essi non l'avean veduto innanzi,

E io dirò che 'l magico sermone

L'ascose lor benché lor fosse innanzi.

Ma poi ch'uscir del prato ove Plutone

Avea sue forze e camminar innanzi,

Per la sicura via svelati furo

E scoprir di lontano il monte e 'l muro.


Vanno più innanzi e 'l gran romor ch'udiro

Via più gli orrecchi lor fere e penetra,

E poi che presso a quel superbo giro

Furo quanto sarebbe un trar di pietra,

Veggono un'uscio aprir, non di zaffiro,

Ma di più ricca e preziosa pietra,

E una donzella uscir del gran girone

Che mena un cavallier come prigione.


Costei il suo biondo inanellato crine

Parte tenea sopra 'l bel collo sparso,

Parte raccolto in terra era al confine

De' vaghi orecchi e in fronte era più scarso.

Le belle luci angeliche e divine

Avriano ogni cor d'aspe e di tigre arso,

Lo sguardo era vivace, accorto, e ladro,

E 'l viso in ogni parte almo e leggiadro.


Gentile Amor da suoi cortesi sguardi

Movea lo stral soavemente altero,

E già sentia degli amorosi dardi

L'assalto il suo pregion dolce e severo;

Stanno a mirar nel fin li duo gagliardi

Ove meni la donna il cavalliero,

Che di catena d'or legato serba,

E in contro a lor ne vien grata e superba.


Come fu presso lor con atto umile

Fer riverenza alla beltà divina,

Ed ella con sembiante almo e gentile

Gli risaluta e tutta via camina;

Sente clarido già l'esca e 'l focile

D'Amor che ne begli occhi i strali affina;

Sente il petto infiammarsi a poco a poco

E già sospira il suo novello foco.


Per quella via ch'essi arrivaro al monte

La bella donna al cavalliero è duce;

Posto era un ponticel sopra una fonte,

Per cui nel bosco ella il meschin conduce,

Ch'a pena tocca il pian che cangia fronte

Perde l'aura vital, perde la luce;

E Silano e Clarido il mira e 'l vede,

E a pena ancor ch'a se medesmo il crede.


Come insensate statue immoti stanno

Di lontan a mirar quel caso duro,

Lo spavento e 'l tremor che nel cor hanno

È tal, che per uscir del senno furo.

Il cavallier lasciando il carnal panno

Divenne tronco a un semplice scongiuro,

Le braccia si fer rami e 'l novo stelo

Spiegò la vaga e verde chioma al Cielo.


Come accresciuto in numero e in bellezza

Della novella pianta ha 'l bosco infido,

Torna la bella donna alla fortezza

E passa innanzi al principe e a Clarido.

Clarido più quella beltà non prezza

Che gli fece nel cor sì presto nido,

E in un punto piagato e fatto sano,

Sbigottito la mira egli e Silano.


Ella, ch'i cavallier contempla in atto

Che paura dimostrano e stupore,

Disse: – Non sia di voi chi stupefatto

Prenda di ciò ch'ha visto alcun terrore

Per ché gli mostrerò di quel c'ho fatto

Per mia virtù miracolo maggiore;

E chi vol possar meco oltra quel muro

A vederne l'effetto io l'assicuro.


Venite cavallieri avventurosi,

E non temete alcun periglio strano. –

Ah, misera, tu cerchi i tuoi riposi

Abbreviar, e 'l cor ferir c'hai sano.

Quanto meglio saria se con ritrosi

Accenti e con parlar fiero e villano

Da te scacciasti i cavallieri arditi,

Che con sì care parolette inviti.


Segue ella: – io vi farò quella avventura

Udir che 'l mondo ancor saper non puote,

E insieme narrerò la mia sciagura

Che mi tien chiusa in queste valli ignote;

Ch'anch'io son sottoposta a sorte dura

E ne spargo di lagrime le gote,

Sperando invan d'un cavallier l'ingresso,

E chi sa ch'un di voi non sia quel d'esso?


Il qual per sua virtù rara e profonda

A liberar di questo loco m'abbia,

E sarà sua quest'isola feconda

Poi che de mostri avrà vinta la rabbia. –

E così ben la voce alma e gioconda

Mosse costei da quelle dolci labbia,

Ch'i cavallier rassicurati alquanto

Prestaron fede al parlar dolce e santo.


Né fu di loro alcun tanto scortese

Che non tenesse il suo benigno invito,

E la donzella il suo viaggio prese

Al muro, onde 'l gran monte è circuito

Silano allor le luci al sommo intese

E un tempio vi mirò d'oro brunito,

E a Clarido il mostrò nell'alta cima,

Che non l'aveva alcun veduto prima.


Quando fur giunti alla superba porta,

La donzella passò co 'l piè non lento,

E i cavallier stimola e conforta

A seguitarla e non aver spavento.

Silano fatto cor segue sua scorta

E Clarido con lui mostra ardimento,

Poi che la giovinetta afferma e giura

Che d'ogni tradimento gli assicura.


Ma dentro a pena alle gran soglie altere

Pongon il piè tra la muraglia e 'l monte,

Ch'un milion di dispietate fiere

Lor salta in contra a far lor danno pronte.

Silano che non vuol di lor temere

Cava la spada, e con ardita fronte

Tra lor si scaglia e con percosse orrende

Dall'importuna rabbia si diffende.


Orsi, tigri, leon, lupi e serpenti,

Dell'aspetto viril crudi nemici,

Con acute unghie e con voraci denti

Fan duro assalto a due fideli amici.

Ma la donzella pia, ch'agli elementi

Può commandar con suoi rari artefici,

Con la virtù d'una parola sola

Tutta placò quella ferina scola.


Per diverso sentier lo stuolo orrendo

Tutto di qua di si fu diviso,

E i cavallier d'un attostupendo

Lasciò con basso e vergognoso viso,

La dolcissima vergine ridendo

Con un discreto e grazioso avviso

E quello e questo allor prese per mano

E s'escusò del caso iniquo e strano.


Dicendo: – Io vi prestai salvo condotto

Quanto al valor dell'incantato carme,

Non degli altri accidenti a quali è sotto,

Posto l'uom e adoprar puo 'l senno e l'arme. –

Silano a lei con grazioso motto:

senno, né valor potrebbe aitarme

Già contra voi se sol coi dolci accenti

Vincete orsi, leon, tigri e serpenti.


credo ch'altra cosa un cor più incanti

D'un vago viso e d'un parlar soave,

E ben vegg'io ne'bei vostri sembianti

Che d'altra forza il mio pensier non pave. –

Chinò la donna i lumi onesti e santi

A quel parlar che non le fu già grave,

E 'l viso ornò del bel color, che suole

Scoprir la rosa al matutino sole.


Una stradetta assai larga e capace

Gira tra 'l monte e 'l cerchio luminoso,

E a piè del monte un'ampio uscetto giace

Per cui si va nell'antro cavernoso;

Quivi la donna a cui in secreto piace

Il ragionar del giovane amoroso,

Giunta, l'uscio percuote e quel le cede

E vi pon entro ella e i guerrieri il piede.


Ciò che facesser poi dentro quel monte

I cavallieri e ciò che ne seguio,

E di costei che poi d'amor tante onte

Per un garzon sofferse ingrato e rio,

Convien ch'in'altra parte io vi racconte,

Ch'or volgo al re Cleardo il parlar mio,

E a suoi guerrier, che con superba mostra

Vogliono uscire all'onorata giostra.


Già, perché del giostrar che publicato

S'avea più non fusse il pensier vano,

E per effettuar l'ordine dato;

Cleardo, che di Grecia ha il freno in mano,

Raccolti avea del suo felice stato

Ogni guerriero, il prossimo e 'l lontano,

Ch'udito avendo il general concorso

Al regio editto era in gran fretta corso.


Già tutti i re, duchi, marchesi e conti

Che son vassali al re Cleardo altero

Erano stati in corte a venir pronti

Per onorar il suo superbo impero.

E passar fiumi e boschi e valli e monti

Sì come era diverso il lor sentiero,

Eccetto quei che non lasciar la corte

Da che 'l fiero Macandro ebbe la morte.


Lasciò Megara alle novelle sparte

Alarco, e Macedonia il re Amarinto;

Vennero in fretta al publicato Marte

Gli duchi di Corcira e di Zacinto.

Fra gli altri il saggio e nobile Silvarte

Avea passato l'istmo di Corinto

Che per la sua bontà di fede piena

Gli avea 'l re dato a governar Micena.


Era venuto e seco avea menato

Il bellissimo figlio Floridoro,

Che da che nacque al giorno almo e beato

Sedici volte il sol rivide il toro.

L'aer del suo bel viso eragrato,

vago lo splendor de' bei crin d'oro,

E la sembianza avea tanto divina

Ch'ad amarlo ogni cor ben ch'aspro inchina.


Venne col padre accorto il gentil figlio

Con un vestir delizioso e vago,

Amor ridea nel suo tranquillo ciglio,

Anzi parea d'Amor la propria imago.

Lo splendido color bianco e vermiglio

Ogni occhio fea di contemplarlo vago;

Ogni sua parte, fuor che la favella,

Par d'una giovenetta illustre e bella.


Il damigello ancor non s'era mai

Nell'imprese di Marte esercitato,

Ma per natura era gagliardo assai,

Di gran destrezza e d'animo dorato;

E d'arme e de cavalli sempre mai

S'era e di veder giostre dilettato;

Però lasciando il padre suo Micene,

Anch'ei volse venir seco in Atene.


Appresentarsi inanzi al re Cleardo

Che con benigna fronte li raccolse,

E rivolgendo al dolce viso il guardo

Così gli piacque e in tanta grazia il tolse,

Che fin' ch'Amor col suo pungente dardo

A farli ingiuria il bel garzon non volse

Con disonor del regio sangue greco,

Sempre l'amò da figlio e 'l tenne seco.


Per obedir al suo regal pensiero

Venne anco Stellidon da Negroponte,

E fu pria che l'egizio messaggiero

Per trovarlo in Eubea gettasse il ponte.

Però giunse in Atene il cavalliero

Con mesto core e con turbata fronte

Per due fratei, ch'avea gagliardi e forti,

Ma non sa se son vivi o se son morti.


L'uno è Lideo, quel ch'accusò in Egitto

La bella donna ond'arse di desire;

L'altro è il guerrier che nel loco descritto

Vide Silano in pianta convertire.

Per questi il buon fratel si rende afflitto

E sente nel suo petto aspro martire,

Pur si consola un poco or con la speme

C'ha di vedergli a quella giostra insieme.


Non solo ogni signor del greco regno

Si fu ridotto alla palladia terra,

Ma ciascun guerrier barbaro più degno

Sen venne ancor dall'universa terra.

Ingombra il porto acheo questo e quel legno,

Già questo e quel destrier preme la terra,

Ciascun nella città s'è già ridotto

Che presta a tutti il re salvo condotto.


Il giorno della giostra più a buon'ora

Mangiò ciascun che gli altri non feo,

E poi non stette molto a venir fuora

Il principe di Tebe Apollideo.

Quella pianta il suo scudo orna e colora

Ch'ascose al sol la figlia di Peneo,

L'istesso ramo anco 'l cimier corona

Ch'è de'più illustri eroi pregio e corona.


Prossimo a lui si pose il re spartano

Nomato Algier magnanimo e cortese,

E perché l'un dell'altro era germano

Comuni coi parenti ebbon l'imprese.

A passo il primo vien soave e piano

Su un bianco turco e 'l primo loco prese;

L'altro a un villan di Spagna il dosso preme

E coi colori amor disegna e speme.


Sopra un barbaro appar veloce e snello

Di Tessaglia il signor fra cento e cento,

Che l'arme e 'l suo vestir pomposo e bello

Orna ad usanza sua di color cento,

Giovanetto era, e in così gran drappello

Anch'ei mostrar quel volle ardimento,

Anch'ei, che detto era Aliforte, volse

Entrar fra gli altri e 'l terzo loco tolse.


Elion dopò lui, che signor era

D'Arcadia, paradiso de'pastori

S'offerse nella lizza onde aver spera

Nelle fatiche parte e negli onori.

Depinta ha nello scudo una pantera

Che vago avea 'l mantel di più colori,

E con sì bella e sì leggiadra vista

Le più semplici fere inganna e attrista.


Sirio d'età più forte e più maturo,

Che di Lacedemonia ha 'l freno in mano,

Condotto vien da un caval baio oscuro

Che un piè di dietro alquanto avea balzano.

L'arme e lo scudo è di color azzuro

Dove ritratto è un libro entro una mano,

Per esser oltre il sangue e 'l nome regio

Filosofo e poeta alto e egregio.


Satirion di comparir non manca,

Ch'all'isola comanda di Corcira,

La spoglia ha 'l suo caval morella e bianca,

Sol una stella in fronte se gli mira.

Fingea lo scudo una Nereide stanca

Che su uno scoglio una gran concha tira,

L'ostrica un gran tesor di perle asconde

E mostra la ricchezza di quell'onde.


Settimo appar nel marzial collegio

Clizio re di Epirotti al mar vicini,

Montato sopra un gran destrier di pregio

Con ricchi adornamenti aurati e fini.

Gli cinge l'elmo un rubicondo fregio

Di preziosi e splendidi rubini,

L'impresa è il re del liquefatto gelo

Che fere il mar col tridentato telo.


L'altro è quel Stellidon, che non con lieta

Faccia varcato ha l'infidel marina,

Di nera ornato e di pardiglia seta

E conforme al suo duol move e cammina.

Mancava il re di Cipro e 'l re di Creta

Che dovean far perfetta la decina.

E ben di lor tardar si maraviglia

Il re con tutta l'Attica famiglia.


Questi diece dal re furono eletti

Giovani illustri e di gran pregio altieri,

Per li più valorosi e più perfetti

Ch'avessero a star contra i forestieri,

Ad un ad un provando con gli effetti

Ch'erano arditi e franchi cavallieri,

Con una lancia o più nella gran piazza.

Ma non poteano oprar stoccomazza.


Potea ciascun di lor sendo abbattuto

A nova giostra rimontar in sella,

Ma contra quel per le cui man caduto

Fosse, non potea far prova novella.

E ben di quanto fu dal re statuto

Avean avuto i barbari novella,

L'ordine noto era a ciascun per punto

E già n'era più d'un comparso in punto.


Era a veder grandissimo diletto

Or quinci or quindi uscir qualche guerriero,

Ad uso suo con ricco abito eletto

Variando destrier, scudo e cimiero.

Ma per non cantar sempre d'un soggetto

Or volgo a Risamante il mio pensiero,

La qual lasciai col cavallier cortese

Ch'era smontata e si traea l'arnese.


Quando al trar dell'elmetto il cavalliero

Conosce Risamante per donzella,

confuso riman dentro il pensiero

Che gran pezzo la guarda e non favella.

Intanto un avveduto suo scudiero

Portò un bel manto alla guerriera bella,

Che 'l gentiluomo a quei ch'egli tenea

Più degni usar tal cortesia solea.


Data l'acqua alle man, si furo posti

A mensa, e i camerieri al lor comando

Si posero a servir pronti e disposti,

Or novi piatti or vin fresco arrecando.

Mentre di vari cibi allessi e arrosti

Si va la donna e 'l cavallier cibando,

Per caso il cavallier mirò l'anello

Che la donna avea in dito illustre e bello.


Dico il diamante d'infinito prezzo

Che la donna acquistato avea pur prima;

Stette a mirarlo il cavallier gran pezzo

Giudicandolo gioia di gran stima,

E benché fosse a veder gemme avezzo,

Questa pur sovra ogni altra apprezza e stima,

Onde alla donna in cortesia dimanda

Da chi l'abbia ella avuto ed in qual banda.


Mentre io miro (dicea) l'illustre anello,

Ch'a te nobil guerriera orna la mano.

In dubbio sto se 'l più ricco gioiello

Si potesse veder presso o lontano.

Fra' diamanti mi par questo il più bello,

Non so già s'egli è arabico o indiano,

Ma s'io risguardo al suo chiaro colore

D'India egli vien, ch'a noi manda il migliore.


Sempre m'ho dilettato ai giorni miei

Di veder gioie e me n'intendo un poco,

Ma fra tutti i bei sassi nabathei

Questo è 'l più bel, ch'or veggio in questo loco.

Deh, dimmi ond'arricchita te ne sei

Che saper bramo la persona e 'l loco,

Bramo, ch'in cortesia mi manifesti

(Se non ti è grave) il modo onde l'avesti. –


Risamante al suo prego non si rese

Contraria, ancor ch'assai mal volentieri

Narrasse altrui le sue felici imprese

E fesse noti i suoi trionfi altieri;

E così al cavallier fece palese

Come del drago estinse i morsi fieri,

E poi ch'essendo nella grotta entrata

In guiderdon la gemma avea acquistata.


Come ode il cavallier che Risamante

La fiera bestia avea di vita sciolta,

Le man leva alle parti eterne e sante

Che quella peste sia spenta e sepolta.

Ormai pur sia sicuro il viandante

(Dicea) che non gli sia la vita tolta,

E potrà il paesano e 'l peregrino

La bellezza goder di quel giardino.


Di ciò m'allegro sì ma via più gioia

Ho perché spero che tu sil colei,

Che m'ha da liberar da quella noia

In che son visso il più dei giorni miei,

E de cui spero aver prima ch'io muoia

Quel ben che bramai tanto e poi perdei;

E così prego il ciel che 'l mio pensiero

S'abbia di questo indovinato il vero. –


Disse la Donna: – allor ch'io trovo il modo

D'espormi a qualche impresa perigliosa,

Non mi ritiro indietro, anzi più godo

Quando si tien per impossibil cosa.

Che di disciorre ogni intricato nodo

Deve aver l'alma pronta e desiosa

Ogni buon cavallier quando alla gente

Giova come fu questo del Serpente. –


Soggiunse quel: Da nobil zelo spinto

Che spinger suole un generoso core,

Anch'io sareimi a tal impresa accinto

Per sicurezza d'altri e per mio onore,

Se non che dubitai di restar vinto

Perché vi fusse alcun magico orrore,

Tem'io gli incanti assai più che la morte

Ch'ivi non val l'esser ardito e forte. –


Così dicendo mise un gran sospiro

Il cavalliero e venne in faccia mesto,

potècelar l'aspro martiro

Che nol fesse per gli occhi manifesto.

La donna di pietade e di desiro

Arse d'intender la cagion di questo,

E 'l pregò a dir qual novità lo strinse,

Qual fera sorte a lagrimar lo spinse.


Rispose il cavallier; Grande sciagura

Turbar mi nel ricordar l'incanto,

Per un che in un castel molti anni dura

Che fu cagion di pormi in pena e in pianto. –

Ma contarvi la sorte iniqua e dura

Ch'ebbe costui spero nell'altro canto,

Dove udirete che l'uom spesso viene

Per ignoranza a piagnere il suo bene.




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