CANTO
QUINTO
Argomento
In
Itaca trasporta la procella
Silano,
là ove in arbore trasforma
Il
cavallier la magica donzella
E
salva lui dalla ferina torma,
Giungono
i Greci al re. Fanno una bella
Mostra
i giostranti. Il nobil oste informa
Risamante
del modo onde l'anello
Ottenne
e come uccise il Drago fello.
Ahi,
che non può quel rio tiranno Amore,
Se
da buon senno un cor percote e fere?
A
chi leva la vita, a chi l'onore,
A
chi la roba e l'amicizie vere.
Altri
per sua cagione entra in furore
E
è sforzato oprar contra il dovere;
E
per un sol, che le costui faville
Faccian
saggio parer, ne impazzan mille.
Per
un ch'accostumato e riverente,
E
che cortese Amor renda e gentile,
Infiniti
son quei c'hanno la mente
Perfida,
traditrice, infame e vile.
E
se la donna al lor desire ardente
Non
si dimostra al primo tratto umile,
Se
non si rende a prieghi empi e molesti
Eccoli
agli odi, alle vendette presti.
Fuggan
le donne pur più che 'l peccato,
Più
che 'l morir l'officio dell'amare,
C'han
la più parte il cor gli uomini ingrato
Per
quel ch'io leggo e spesso odo contare;
Benché
dall'empio, iniquo e scelerato
Non
ben si possa in modo alcun guardare,
Che
mal a qualunque ama, e peggio ancora
Per
non amar successe a Raggidora.
La
qual non consentendo al gran desire
Del
cavallier per troppo amore insano,
Fu
cagion ch'egli vinto dal martire
Si
mostrasse ver lei crudo e villano.
Benché
dapoi, come farovi udire,
La
cercasse placar, ma sempre invano.
Or
restisi costei, che del marino
Furor
trar voglio il principe latino.
Non
cessò Borea impetuoso e fermo,
Nel
suo rigor fin alla terza sera,
Sempre
agitando il picciol palischermo
Per
la marina ingiuriosa e fera;
Nel
terzo dì, che non n'avean più schermo
Parve
alquanto cessar la furia altera,
E
l'aer un poco aperto in orizonte
Scoprì
del sol nel tramontar la fronte.
Accolse
il vento a poco a poco ogni ala
E
placato si rese al suo gran duce,
E
'l mar anch'ei la rabbia e 'l furor cala
E
nell'esser primier si riconduce;
Un
dolce fiato allor contrario esala,
Ch'i
nembi scaccia e dà loco alla luce,
E
Cinzia mostrò fuor le chiome belle
E
'l ciel s'ornò di scintillanti stelle.
L'alba
comparve poi nell'oriente
Che
di perle quel dì fregiar si volse,
E
l'aurora seguì d'oro lucente
Che
di fresca ghirlanda il crin s'avvolse,
E
i cavallier, ch'assai più dolcemente
Quella
notte passar, dal sonno sciolse,
Che
furon (non sapendo in che paesi)
Sopra
una vaga e bella isola scesi.
Lieti
quant'uomo imaginar si pote
Salutan
ambi il desiato lido,
E
piglian terra in quelle parti ignote
E
danno il tergo al mar noioso e infido;
E
con parole pie, sante e devote,
Poi
che fur tratti in più sicuro nido,
Ne
ringraziar l'eterne alme divine
Con
le luci e le mani al ciel supine.
Erano
a piedi e di tutt'arme ornati
(Che
seco le salvò ciascun guerriero)
Onde
per lieti e verdeggianti prati,
Per
quel bel piano a camminar si diero.
Veggon
de' fiori i bei campi stellati
Dove
più d'un capriol scorrea leggiero,
E
poco lungi poi le spiche bionde
Tremolando
imitar le marine onde.
Bel
boschetto di lauri e di ginepri
Veggion
tra due fontane intatte e dolci
Caro
e secreto albergo a damme e a lepri,
Che
da le fere gli asconde e da bifolci.
Soave
Amor, che di pungenti vepri
I
cori impiaghi e le ferite addolci,
Quando
in Cittera avesti, in Papho, o in Gnido,
Così
giocondo e grazioso nido?
Quanto
il passo i guerrier movean più avanti
Scorgean
nova beltà, vaghezza nova,
Udivano
armonie, sentiano canti
Di
vaghi uccel che fan concenti a prova;
Che
lieti i due guerrier fra piacer tanti
Giurar
che questo sol diletta e giova,
Né
v'è più gioia a lor giudizio intera
Che
le delizie e 'l bel di primavera.
Incognita
de fonti è lor l'uscita
Che
comprender non san donde l'acqua esca,
Che
da due lati di lontano uscita
Più
ch'ambra discendea limpida e fresca;
La
terra da duo rivi tripartita
Fa
che natura i suoi tesori accresca,
Dai
lati son mille feconde piante,
Nel
mezzo è il bosco, ch'io v'ho detto inante.
Le
fonti discorrean lucide e terse
Dentro
un ameno e florido pratello,
Che
di mirti e viole azzurre e perse
Intorno
un muro avea leggiadro e bello;
Quinci
dalla natura in un converse
Formavano
passando un fiumicello,
Ch'ombrose
avea le colorite sponde
D'ogni
più ricca e fruttuosa fronde.
Scorgon
di qua e di là mille arbor tutti,
Carchi
di pomi d'or vaghi e ridenti,
Ch'i
tronchi sostenea, le fronde e i frutti,
Ch'ornano
a Bacco i crin biondi e lucenti.
E
v'ha con sì bell'ordine produtti
Natura
i rami e 'n lor l'uve pendenti,
Quai
d'oro e quai di color d'ostro pinte,
Che
dall'arte parean ritratte e finte.
Silano,
che dal tempo aspro e malvagio,
La
persona tenea debile e trista,
E
patìa dal digiun lungo disagio,
S'allegra
i spirti a sì leggiadra vista,
E
per scacciar la fame a suo bell'agio
Si
ferma accanto alla pendente lista;
E
Clarido di pomi i rami spoglia
E
sazia questo e quell'avida voglia.
Fu
la ventura lor che non toccaro
Degli
arbori di dentro frutto alcuno,
Né
colser fior, né di quel fiume chiaro
Gustar,
c'avrebbon mal rotto il digiuno,
E
più ch'in quel boschetto non passaro,
Di
cui detto ho, che vi peria ciascuno.
Silano
ben dentro il pratel giacea
Ma
Clarido di fuor pomi cogliea.
O
fosse caso, o lor prudenza ingombra
Di
quelli il seno, indi l'afflitto spirto
Ristorano
ambi, e all'odorifer'ombra
S'assidon
poi d'un amoroso mirto.
Quel
dolce tempo ogni mestizia sgombra,
Spiran
l'aurette un delicato spirto,
Ma
poco stan, ch'a un gran romor d'intorno
Si
sviar da sì lieto, almo soggiorno.
E
si levaro e per l'erbosa valle
De
lo scudo provvisti e della spada,
Dove
udir quel romor presero il calle
Che
li condusse alla più trita strada;
Scopron
d'un monte allor le late spalle
Ch'ascende
alla divina alma contrada,
E
cinto ha il piè d'un ben composto muro
Che
chiude il passo al peregrin sicuro.
Affermar
non si può che la muraglia
Di
pario marmo, o d'alabastro sia,
Perch'è
di splendor tal ch'ogn'occhio abbaglia,
Quantunque
saldo e che lontan ne stia
A
sì mirabil passo non s'agguaglia
Diamante
alcun, che simil luce dia;
Di
carbonchio non è, né di cristallo
D'argento
no, né del più fin metallo.
Egli
è di tal materia illustre e chiara
Che
eccede e vince ogni pensiero umano,
Però
mirando un'opera sì rara
Stupido
resta il principe Silano;
Clarido
con le man gli occhi ripara
Dal
gran fulgor del magisterio strano,
E
finalmente fero ambi giudizio
Che
questo fosse un magico artifizio.
Domandar
mi potreste la cagione
Perch'essi
non l'avean veduto innanzi,
E
io dirò che 'l magico sermone
L'ascose
lor benché lor fosse innanzi.
Ma
poi ch'uscir del prato ove Plutone
Avea
sue forze e camminar innanzi,
Per
la sicura via svelati furo
E
scoprir di lontano il monte e 'l muro.
Vanno
più innanzi e 'l gran romor ch'udiro
Via
più gli orrecchi lor fere e penetra,
E
poi che presso a quel superbo giro
Furo
quanto sarebbe un trar di pietra,
Veggono
un'uscio aprir, non di zaffiro,
Ma
di più ricca e preziosa pietra,
E
una donzella uscir del gran girone
Che
mena un cavallier come prigione.
Costei
il suo biondo inanellato crine
Parte
tenea sopra 'l bel collo sparso,
Parte
raccolto in terra era al confine
De'
vaghi orecchi e in fronte era più scarso.
Le
belle luci angeliche e divine
Avriano
ogni cor d'aspe e di tigre arso,
Lo
sguardo era vivace, accorto, e ladro,
E
'l viso in ogni parte almo e leggiadro.
Gentile
Amor da suoi cortesi sguardi
Movea
lo stral soavemente altero,
E
già sentia degli amorosi dardi
L'assalto
il suo pregion dolce e severo;
Stanno
a mirar nel fin li duo gagliardi
Ove
meni la donna il cavalliero,
Che
di catena d'or legato serba,
E
in contro a lor ne vien grata e superba.
Come
fu presso lor con atto umile
Fer
riverenza alla beltà divina,
Ed
ella con sembiante almo e gentile
Gli
risaluta e tutta via camina;
Sente
clarido già l'esca e 'l focile
D'Amor
che ne begli occhi i strali affina;
Sente
il petto infiammarsi a poco a poco
E
già sospira il suo novello foco.
Per
quella via ch'essi arrivaro al monte
La
bella donna al cavalliero è duce;
Posto
era un ponticel sopra una fonte,
Per
cui nel bosco ella il meschin conduce,
Ch'a
pena tocca il pian che cangia fronte
Perde
l'aura vital, perde la luce;
E
Silano e Clarido il mira e 'l vede,
E
a pena ancor ch'a se medesmo il crede.
Come
insensate statue immoti stanno
Di
lontan a mirar quel caso duro,
Lo
spavento e 'l tremor che nel cor hanno
È
tal, che per uscir del senno furo.
Il
cavallier lasciando il carnal panno
Divenne
tronco a un semplice scongiuro,
Le
braccia si fer rami e 'l novo stelo
Spiegò
la vaga e verde chioma al Cielo.
Come
accresciuto in numero e in bellezza
Della
novella pianta ha 'l bosco infido,
Torna
la bella donna alla fortezza
E
passa innanzi al principe e a Clarido.
Clarido
più quella beltà non prezza
Che
gli fece nel cor sì presto nido,
E
in un punto piagato e fatto sano,
Sbigottito
la mira egli e Silano.
Ella,
ch'i cavallier contempla in atto
Che
paura dimostrano e stupore,
Disse:
– Non sia di voi chi stupefatto
Prenda
di ciò ch'ha visto alcun terrore
Per
ché gli mostrerò di quel c'ho fatto
Per
mia virtù miracolo maggiore;
E
chi vol possar meco oltra quel muro
A
vederne l'effetto io l'assicuro.
Venite
cavallieri avventurosi,
E
non temete alcun periglio strano. –
Ah,
misera, tu cerchi i tuoi riposi
Abbreviar,
e 'l cor ferir c'hai sano.
Quanto
meglio saria se con ritrosi
Accenti
e con parlar fiero e villano
Da
te scacciasti i cavallieri arditi,
Che
con sì care parolette inviti.
Segue
ella: – io vi farò quella avventura
Udir
che 'l mondo ancor saper non puote,
E
insieme narrerò la mia sciagura
Che
mi tien chiusa in queste valli ignote;
Ch'anch'io
son sottoposta a sorte dura
E
ne spargo di lagrime le gote,
Sperando
invan d'un cavallier l'ingresso,
E
chi sa ch'un di voi non sia quel d'esso?
Il
qual per sua virtù rara e profonda
A
liberar di questo loco m'abbia,
E
sarà sua quest'isola feconda
Poi
che de mostri avrà vinta la rabbia. –
E
così ben la voce alma e gioconda
Mosse
costei da quelle dolci labbia,
Ch'i
cavallier rassicurati alquanto
Prestaron
fede al parlar dolce e santo.
Né
fu di loro alcun tanto scortese
Che
non tenesse il suo benigno invito,
E
la donzella il suo viaggio prese
Al
muro, onde 'l gran monte è circuito
Silano
allor le luci al sommo intese
E
un tempio vi mirò d'oro brunito,
E
a Clarido il mostrò nell'alta cima,
Che
non l'aveva alcun veduto prima.
Quando
fur giunti alla superba porta,
La
donzella passò co 'l piè non lento,
E
i cavallier stimola e conforta
A
seguitarla e non aver spavento.
Silano
fatto cor segue sua scorta
E
Clarido con lui mostra ardimento,
Poi
che la giovinetta afferma e giura
Che
d'ogni tradimento gli assicura.
Ma
dentro a pena alle gran soglie altere
Pongon
il piè tra la muraglia e 'l monte,
Ch'un
milion di dispietate fiere
Lor
salta in contra a far lor danno pronte.
Silano
che non vuol di lor temere
Cava
la spada, e con ardita fronte
Tra
lor si scaglia e con percosse orrende
Dall'importuna
rabbia si diffende.
Orsi,
tigri, leon, lupi e serpenti,
Dell'aspetto
viril crudi nemici,
Con
acute unghie e con voraci denti
Fan
duro assalto a due fideli amici.
Ma
la donzella pia, ch'agli elementi
Può
commandar con suoi rari artefici,
Con
la virtù d'una parola sola
Tutta
placò quella ferina scola.
Per
diverso sentier lo stuolo orrendo
Tutto
di qua di là si fu diviso,
E
i cavallier d'un atto sì stupendo
Lasciò
con basso e vergognoso viso,
La
dolcissima vergine ridendo
Con
un discreto e grazioso avviso
E
quello e questo allor prese per mano
E
s'escusò del caso iniquo e strano.
Dicendo:
– Io vi prestai salvo condotto
Quanto
al valor dell'incantato carme,
Non
degli altri accidenti a quali è sotto,
Posto
l'uom e adoprar puo 'l senno e l'arme. –
Silano
a lei con grazioso motto:
–
Né senno, né
valor potrebbe aitarme
Già
contra voi se sol coi dolci accenti
Vincete
orsi, leon, tigri e serpenti.
Né
credo ch'altra cosa un cor più incanti
D'un
vago viso e d'un parlar soave,
E
ben vegg'io ne'bei vostri sembianti
Che
d'altra forza il mio pensier non pave. –
Chinò
la donna i lumi onesti e santi
A
quel parlar che non le fu già grave,
E
'l viso ornò del bel color, che suole
Scoprir
la rosa al matutino sole.
Una
stradetta assai larga e capace
Gira
tra 'l monte e 'l cerchio luminoso,
E
a piè del monte un'ampio uscetto giace
Per
cui si va nell'antro cavernoso;
Quivi
la donna a cui in secreto piace
Il
ragionar del giovane amoroso,
Giunta,
l'uscio percuote e quel le cede
E
vi pon entro ella e i guerrieri il piede.
Ciò
che facesser poi dentro quel monte
I
cavallieri e ciò che ne seguio,
E
di costei che poi d'amor tante onte
Per
un garzon sofferse ingrato e rio,
Convien
ch'in'altra parte io vi racconte,
Ch'or
volgo al re Cleardo il parlar mio,
E
a suoi guerrier, che con superba mostra
Vogliono
uscire all'onorata giostra.
Già,
perché del giostrar che publicato
S'avea
più dì non fusse il pensier vano,
E
per effettuar l'ordine dato;
Cleardo,
che di Grecia ha il freno in mano,
Raccolti
avea del suo felice stato
Ogni
guerriero, il prossimo e 'l lontano,
Ch'udito
avendo il general concorso
Al
regio editto era in gran fretta corso.
Già
tutti i re, duchi, marchesi e conti
Che
son vassali al re Cleardo altero
Erano
stati in corte a venir pronti
Per
onorar il suo superbo impero.
E
passar fiumi e boschi e valli e monti
Sì
come era diverso il lor sentiero,
Eccetto
quei che non lasciar la corte
Da
che 'l fiero Macandro ebbe la morte.
Lasciò
Megara alle novelle sparte
Alarco,
e Macedonia il re Amarinto;
Vennero
in fretta al publicato Marte
Gli
duchi di Corcira e di Zacinto.
Fra
gli altri il saggio e nobile Silvarte
Avea
passato l'istmo di Corinto
Che
per la sua bontà di fede piena
Gli
avea 'l re dato a governar Micena.
Era
venuto e seco avea menato
Il
bellissimo figlio Floridoro,
Che
da che nacque al giorno almo e beato
Sedici
volte il sol rivide il toro.
L'aer
del suo bel viso era sì grato,
Sì
vago lo splendor de' bei crin d'oro,
E
la sembianza avea tanto divina
Ch'ad
amarlo ogni cor ben ch'aspro inchina.
Venne
col padre accorto il gentil figlio
Con
un vestir delizioso e vago,
Amor
ridea nel suo tranquillo ciglio,
Anzi
parea d'Amor la propria imago.
Lo
splendido color bianco e vermiglio
Ogni
occhio fea di contemplarlo vago;
Ogni
sua parte, fuor che la favella,
Par
d'una giovenetta illustre e bella.
Il
damigello ancor non s'era mai
Nell'imprese
di Marte esercitato,
Ma
per natura era gagliardo assai,
Di
gran destrezza e d'animo dorato;
E
d'arme e de cavalli sempre mai
S'era
e di veder giostre dilettato;
Però
lasciando il padre suo Micene,
Anch'ei
volse venir seco in Atene.
Appresentarsi
inanzi al re Cleardo
Che
con benigna fronte li raccolse,
E
rivolgendo al dolce viso il guardo
Così
gli piacque e in tanta grazia il tolse,
Che
fin' ch'Amor col suo pungente dardo
A
farli ingiuria il bel garzon non volse
Con
disonor del regio sangue greco,
Sempre
l'amò da figlio e 'l tenne seco.
Per
obedir al suo regal pensiero
Venne
anco Stellidon da Negroponte,
E
fu pria che l'egizio messaggiero
Per
trovarlo in Eubea gettasse il ponte.
Però
giunse in Atene il cavalliero
Con
mesto core e con turbata fronte
Per
due fratei, ch'avea gagliardi e forti,
Ma
non sa se son vivi o se son morti.
L'uno
è Lideo, quel ch'accusò in Egitto
La
bella donna ond'arse di desire;
L'altro
è il guerrier che nel loco descritto
Vide
Silano in pianta convertire.
Per
questi il buon fratel si rende afflitto
E
sente nel suo petto aspro martire,
Pur
si consola un poco or con la speme
C'ha
di vedergli a quella giostra insieme.
Non
solo ogni signor del greco regno
Si
fu ridotto alla palladia terra,
Ma
ciascun guerrier barbaro più degno
Sen
venne ancor dall'universa terra.
Ingombra
il porto acheo questo e quel legno,
Già
questo e quel destrier preme la terra,
Ciascun
nella città s'è già ridotto
Che
presta a tutti il re salvo condotto.
Il
giorno della giostra più a buon'ora
Mangiò
ciascun che gli altri dì non feo,
E
poi non stette molto a venir fuora
Il
principe di Tebe Apollideo.
Quella
pianta il suo scudo orna e colora
Ch'ascose
al sol la figlia di Peneo,
L'istesso
ramo anco 'l cimier corona
Ch'è
de'più illustri eroi pregio e corona.
Prossimo
a lui si pose il re spartano
Nomato
Algier magnanimo e cortese,
E
perché l'un dell'altro era germano
Comuni
coi parenti ebbon l'imprese.
A
passo il primo vien soave e piano
Su
un bianco turco e 'l primo loco prese;
L'altro
a un villan di Spagna il dosso preme
E
coi colori amor disegna e speme.
Sopra
un barbaro appar veloce e snello
Di
Tessaglia il signor fra cento e cento,
Che
l'arme e 'l suo vestir pomposo e bello
Orna
ad usanza sua di color cento,
Giovanetto
era, e in così gran drappello
Anch'ei
mostrar quel dì volle ardimento,
Anch'ei,
che detto era Aliforte, volse
Entrar
fra gli altri e 'l terzo loco tolse.
Elion
dopò lui, che signor era
D'Arcadia,
paradiso de'pastori
S'offerse
nella lizza onde aver spera
Nelle
fatiche parte e negli onori.
Depinta
ha nello scudo una pantera
Che
vago avea 'l mantel di più colori,
E
con sì bella e sì leggiadra vista
Le
più semplici fere inganna e attrista.
Sirio
d'età più forte e più maturo,
Che
di Lacedemonia ha 'l freno in mano,
Condotto
vien da un caval baio oscuro
Che
un piè di dietro alquanto avea balzano.
L'arme
e lo scudo è di color azzuro
Dove
ritratto è un libro entro una mano,
Per
esser oltre il sangue e 'l nome regio
Filosofo
e poeta alto e egregio.
Satirion
di comparir non manca,
Ch'all'isola
comanda di Corcira,
La
spoglia ha 'l suo caval morella e bianca,
Sol
una stella in fronte se gli mira.
Fingea
lo scudo una Nereide stanca
Che
su uno scoglio una gran concha tira,
L'ostrica
un gran tesor di perle asconde
E
mostra la ricchezza di quell'onde.
Settimo
appar nel marzial collegio
Clizio
re di Epirotti al mar vicini,
Montato
sopra un gran destrier di pregio
Con
ricchi adornamenti aurati e fini.
Gli
cinge l'elmo un rubicondo fregio
Di
preziosi e splendidi rubini,
L'impresa
è il re del liquefatto gelo
Che
fere il mar col tridentato telo.
L'altro
è quel Stellidon, che non con lieta
Faccia
varcato ha l'infidel marina,
Di
nera ornato e di pardiglia seta
E
conforme al suo duol move e cammina.
Mancava
il re di Cipro e 'l re di Creta
Che
dovean far perfetta la decina.
E
ben di lor tardar si maraviglia
Il
re con tutta l'Attica famiglia.
Questi
diece dal re furono eletti
Giovani
illustri e di gran pregio altieri,
Per
li più valorosi e più perfetti
Ch'avessero
a star contra i forestieri,
Ad
un ad un provando con gli effetti
Ch'erano
arditi e franchi cavallieri,
Con
una lancia o più nella gran piazza.
Ma
non poteano oprar stocco né mazza.
Potea
ciascun di lor sendo abbattuto
A
nova giostra rimontar in sella,
Ma
contra quel per le cui man caduto
Fosse,
non potea far prova novella.
E
ben di quanto fu dal re statuto
Avean
avuto i barbari novella,
L'ordine
noto era a ciascun per punto
E
già n'era più d'un comparso in punto.
Era
a veder grandissimo diletto
Or
quinci or quindi uscir qualche guerriero,
Ad
uso suo con ricco abito eletto
Variando
destrier, scudo e cimiero.
Ma
per non cantar sempre d'un soggetto
Or
volgo a Risamante il mio pensiero,
La
qual lasciai col cavallier cortese
Ch'era
smontata e si traea l'arnese.
Quando
al trar dell'elmetto il cavalliero
Conosce
Risamante per donzella,
Sì
confuso riman dentro il pensiero
Che
gran pezzo la guarda e non favella.
Intanto
un avveduto suo scudiero
Portò
un bel manto alla guerriera bella,
Che
'l gentiluomo a quei ch'egli tenea
Più
degni usar tal cortesia solea.
Data
l'acqua alle man, si furo posti
A
mensa, e i camerieri al lor comando
Si
posero a servir pronti e disposti,
Or
novi piatti or vin fresco arrecando.
Mentre
di vari cibi allessi e arrosti
Si
va la donna e 'l cavallier cibando,
Per
caso il cavallier mirò l'anello
Che
la donna avea in dito illustre e bello.
Dico
il diamante d'infinito prezzo
Che
la donna acquistato avea pur prima;
Stette
a mirarlo il cavallier gran pezzo
Giudicandolo
gioia di gran stima,
E
benché fosse a veder gemme avezzo,
Questa
pur sovra ogni altra apprezza e stima,
Onde
alla donna in cortesia dimanda
Da
chi l'abbia ella avuto ed in qual banda.
–
Mentre io miro
(dicea) l'illustre anello,
Ch'a
te nobil guerriera orna la mano.
In
dubbio sto se 'l più ricco gioiello
Si
potesse veder presso o lontano.
Fra'
diamanti mi par questo il più bello,
Non
so già s'egli è arabico o indiano,
Ma
s'io risguardo al suo chiaro colore
D'India
egli vien, ch'a noi manda il migliore.
Sempre
m'ho dilettato ai giorni miei
Di
veder gioie e me n'intendo un poco,
Ma
fra tutti i bei sassi nabathei
Questo
è 'l più bel, ch'or veggio in questo loco.
Deh,
dimmi ond'arricchita te ne sei
Che
saper bramo la persona e 'l loco,
Bramo,
ch'in cortesia mi manifesti
(Se
non ti è grave) il modo onde l'avesti. –
Risamante
al suo prego non si rese
Contraria,
ancor ch'assai mal volentieri
Narrasse
altrui le sue felici imprese
E
fesse noti i suoi trionfi altieri;
E
così al cavallier fece palese
Come
del drago estinse i morsi fieri,
E
poi ch'essendo nella grotta entrata
In
guiderdon la gemma avea acquistata.
Come
ode il cavallier che Risamante
La
fiera bestia avea di vita sciolta,
Le
man leva alle parti eterne e sante
Che
quella peste sia spenta e sepolta.
–
Ormai pur sia sicuro
il viandante
(Dicea)
che non gli sia la vita tolta,
E
potrà il paesano e 'l peregrino
La
bellezza goder di quel giardino.
Di
ciò m'allegro sì ma via più gioia
Ho
perché spero che tu sil colei,
Che
m'ha da liberar da quella noia
In
che son visso il più dei giorni miei,
E
de cui spero aver prima ch'io muoia
Quel
ben che bramai tanto e poi perdei;
E
così prego il ciel che 'l mio pensiero
S'abbia
di questo indovinato il vero. –
Disse
la Donna: – allor ch'io trovo il modo
D'espormi
a qualche impresa perigliosa,
Non
mi ritiro indietro, anzi più godo
Quando
si tien per impossibil cosa.
Che
di disciorre ogni intricato nodo
Deve
aver l'alma pronta e desiosa
Ogni
buon cavallier quando alla gente
Giova
come fu questo del Serpente. –
Soggiunse
quel: –
Da nobil zelo spinto
Che
spinger suole un generoso core,
Anch'io
sareimi a tal impresa accinto
Per
sicurezza d'altri e per mio onore,
Se
non che dubitai di restar vinto
Perché
vi fusse alcun magico orrore,
Tem'io
gli incanti assai più che la morte
Ch'ivi
non val l'esser ardito e forte. –
Così
dicendo mise un gran sospiro
Il
cavalliero e venne in faccia mesto,
Né
potè sì celar l'aspro martiro
Che
nol fesse per gli occhi manifesto.
La
donna di pietade e di desiro
Arse
d'intender la cagion di questo,
E
'l pregò a dir qual novità lo strinse,
Qual
fera sorte a lagrimar lo spinse.
Rispose
il cavallier; Grande sciagura
Turbar
mi fé nel ricordar l'incanto,
Per
un che in un castel molti anni dura
Che
fu cagion di pormi in pena e in pianto. –
Ma
contarvi la sorte iniqua e dura
Ch'ebbe
costui spero nell'altro canto,
Dove
udirete che l'uom spesso viene
Per
ignoranza a piagnere il suo bene.
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