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Modesta Pozzo de' Zorzi (alias Moderata Fonte) Tredici canti del Floridoro IntraText CT - Lettura del testo |
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Nicobaldo racconta alla guerriera, Come di Lucimena amante venne, Come l'ebbe per moglie, e della fiera Donna per cui tanto martir sostenne, L'inganno che gli fece e la maniera Che per tirarlo alla sua rete tenne, Come si sciolse poi da quell'intrico, E l'avviso che dielli il mago amico.
Alcun non può di sua ventura il fine Indovinar se tristo o lieto sia, Né ciò che di sua vita il ciel destine, Per dotto e intelligente ch'ei si sia, Sì come ancor nell'ore matutine S'a chiaro sol l'aurora apre la via, O se levando quei fra le nubi esce, chi sa se chiaro o fosco il dì riesce?
Per questo alcun non dee di sua fortuna Sicuro gir, ch'in lieto stato viva, Né disperarsi mai colui c'ha bruna La sorte e al suo desir contraria e schiva; Che spesso anco l'uom credesi ch'alcuna Cosa gli sia di danno e l'odia e schiva, Ch'a prò gli torna; e di tal poi sì crede Che ben gli avvenga e in mal pur gli succede.
Così intervenne al cavalliero appunto, Che diede albergo alla donzella ardita, Il qual fu a rischio di restar consunto Per cosa, che gli fu poi sì gradita; Come vi narrerò di punto in punto Se verrete ad udir l'istoria ordita. Dissi ch'aspro martir l'alma gli prese E che la donna la cagion gli chiese.
– Fiera cagion, rispose il cavalliero, Che rende i giorni miei turbati e mesti, Sendomi ritornata or nel pensiero Sforzommi a lagrimar come vedesti. Perché mi ricordai l'incanto fiero Di cui non so se mai novella avesti, Il qual in un castel molti anni dura, Che si chiama il Castel della Paura.
Dove, s'è donna, o cavallier, ch'arrivi, Gli sopragiunge al cor tanto spavento Che di rimaner preso o morto quivi Non può schivar con fiero, aspro tormento. Et anco vi restar di luce privi Forse i bei lumi ond'io viveva contento, Il mio ben, la mia vita e 'l mio conforto (Ch'ivi fu preso, ohimè), forse anco è morto.
Ma perché ti sia meglio aperto e sciolto L'aspro dolor che m'ange e mi flagella, Sappi, che già qualche anno Amor m'ha colto Per la beltà d'una gentil donzella. Né mi posso doler, s'a me rivolto Fu sempre il cor di Lucimena bella; Lucimena ella ha nome, io Nicobaldo, Ch'arsi per lei dell'amoroso caldo.
In una terra ricca e abbondante Io nacqui in Lidia d'onorati padri; Così non fuss'io, o 'l ciel m'avesse inante Tolto agli anni più belli e più leggiadri, Che di veder l'angelico sembiante Venisser gli occhi miei cupidi e ladri. Nacque nella medesma ella cittade, D'egual condition, di pari etade.
Era venuto il tempo che solenne Festa in onor faceasi di Minerva, Dove sempre ogni Vergine convenne Che la città questo costume osserva. Quivi con altre Lucimena venne, Quivi mi vide e mi rimase serva, E io rimasi in servitù di lei, Ch'io piacqui agli occhi suoi, piacque ella ai miei.
Cominciammo a scoprirsi i novi affetti Con sospiri d'amor ministri fidi, Ci rubammo coi sguardi i cor dei petti E tacendo, movemmo alterni gridi; Tutti gli altri godean vari diletti, Veder giostre, udir suoni e allegri stridi, Mirar pompe, cavalli, e armati eroi, Noi quel dì non vedemmo altri che noi.
Poi che la diva e onorata festa Sì terminò col dì chiaro e lucente, Ella mi lascia addolorata e mesta, E io da lei mi parto agro e dolente. Ma l'aspetto gentil nel mio cor resta, Né me lo posso mai levar di mente, Anzi il novo pensier, ch'amor m'imprime Ogni antico pensier scaccia e opprime.
Visto ch'ogni or più caldo il gran desio Sorge e l'affezion cresce e abonda, E che rinforza ogni or nel petto mio Quella fiamma che l'arde e lo circonda, Poi che non posso lei porre in oblio, Procuro ch'ella almen mi corrisponda, Che l'uom ch'in grave mal cade e incorre Subitamente al medico ricorre.
Quando da lei venir la medicina Sol può, che 'l cor mi sani egro e infermo, Trovo via di tentar la mia regina, E le scopro il mio mal tenace e fermo. La bella donna al mio pregar s'inchina, Ch'anch'ella con amor non trova schermo, Ma perché l'onestà la tenea in freno, Forse più amava e lo mostrava meno.
Oltra i sguardi, i saluti e i lieti cenni, Che con casto pensier mi rendeva ella, Tal grazia e sol favor largo n'ottenni (Poi ch'ella mai mi si mostrò ribella) Che seco a par lamenti onesti venni, Dove tanto cortese quanto bella La ritrovo, e propizia alle mie voglie, Pur ch'io disposto sia farla mia moglie.
Io ch'altro non ricerco e non disegno (Che questo è il fin d'ogni amator discreto), Come odo il suo conforme al mio disegno Ben puoi pensar se ne rimasi lieto. Non avemmo altro indugio, altro ritegno Di palesare il nostro cor secreto, Se non ch'in Lidia allor per nostra pena Non era il genitor di Lucimena.
Per questo non mi par di dirne nulla Al mio, per c'ho speranza in brevi giorni Che resa ogni tardanza irrita e nulla, Quel che bramo aver socero ritorni. Allor le farò chieder la fanciulla Dal padre mio senza che più soggiorni, Che se 'l mio cor gli scopro fuor di tempo Forse sì pentirà fino a quel tempo.
Frattanto di fruir l'amato volto Spesso ritrovo via facile e destra, Né mi è il soave e dolce sguardo tolto Quando ne i tempii e quando alla finestra; E spesso a parlar seco son raccolto Da lei, ch'in una camera terrestra Ad un balcon venia basso e ferrato, Che guarda in loco assai disabitato.
Quivi del lungo indugio che ci preme Movemmo spessi e fervidi sospiri, E ci dolemmo amaramente insieme, Io piango i suoi, piange ella i miei martiri; Poi l'un all'altro dà conforto e speme Che verrà presto al fin de suoi desiri; Con dir ch'al mal vien dietro il bene, e suole Sempre venir dopo la pioggia il sole.
Or così stando occorre al padre mio Quindi partir com'il re nostra volse, Che di mandarlo in Siria ebbe desio Al re, ch'ambasciator grato il raccolse. Pensa s'ebbi di ciò rammarico io, Perché se inanzi il padre suo venia, Ci conviene indugiar pur come pria.
Ma d'essi alcun non vien, ch'in pianti e in pene Vedemmo uscir la sesta luna nova; Dove se l'aspettar chi mai non viene È gran martir, ne femmo allor la prova. Crescea il desir, mancava in noi la spene; Ultimamente intendere mi giova Che vien mio padre, e ho (dove aver penso Gioia) dal suo venir travaglio immenso.
Fornito il regio affar mio padre riede, E col ritorno suo mi accresce doglie, Dicendomi ch'in breve ei spera e crede Darmi una bella e onorata moglie. E con questa parola il cor mi fiede, La vita, il sangue, e l'anima mi toglie, Tal ch'a pena di dirgli ho lingua e fiato Che per allor non vo moglier a lato.
Egli che di natura era iracondo, E poca fiamma gli scaldava il core, Come ode ch'in contrario a lui rispondo S'empie tutto di sdegno e di furore; Io dall'ira paterna mi nascondo E corro alla mia dea pien di dolore, E di mio padre a quella il pensier narro, Uomo troppo ostinato, aspro e bizzarro.
«Miseri noi, rispose ella, ch'appunto Da una stessa miseria oppressi semo; Questa mattina anco mio padre è giunto, Di che presi nel cor contento estremo, Sperando pur, ch'ormai sia l'ora, e 'l punto Venuto onde sia all'alma il dolor scemo, E che si ponga fine al desir tanto Per cui mai sempre ho sospirato e pianto.
Così dicendo in tal dolor proroppe Che le vietar le lagrime il seguire, E in modo si confuse e s'interroppe Che si sforzava e non poteva dire. A me della costanza il freno roppe Il suo martir se ben nol posso udire, E piango anch'io la non intesa pena Ch'affligge tanto il cor di Lucimena.
Alfin dice ella singhiozzando forte; «Ora sì che finito è il nostro duolo; Tu marito sarai d'altra consorte Lasciando me, che sol t'adoro e colo, E io piglierò sposo d'altra sorte, Che non sei tu, cui me spettava solo; Ma lassa ho di morir prima desio, Ch'altri m'abbia, che tu dolce ben mio.
Sappi, cor mio, c'ho da mio padre udito Dir in secreto alla mia genitrice Come ha di fuori un matrimonio ordito Per me, non so con chi che non lo dice; Basta ch'in breve mi vol dar marito Con cui sarò per suo parer felice, Frattanto vol ch'in casa ella proveggia, Come acconciar, come ordinar si deggia.
Mio padre (soggiungea) non è men fiero, Né men aspro del tuo, né men crudele, Onde morire o star sotto il suo impero Conviemmi e ad altro amor volger le vele. O mal fondato e van nostro pensiero, Come riesci, o nostro amor fedele, Deh, Nicobaldo mio, che via, che modo Tenirem mai per districar tal nodo?»
Come allor mi cascasse un monte addosso Io resto oppresso sotto il grave peso Della trista novella, e non le posso Dar sì presto risposta e sto sospeso. Non era inanzi assai vinto e percosso, Ch'ancora io son da novo affanno preso, Il qual così mi grava e stringe forte Che d'esser parmi al punto della morte.
Ogni arte io fo per consolarla, ogni opra, Indi mi parto languido e doglioso, E mi conduco per pensarvi sopra Verso il paterno ormai muro odioso. E trovo il tutto in casa esser sossopra Poi che mio padre vol pur farmi sposo, E contra i miei disegni e le mie voglie, Vol ch'a suo modo io faccia e prenda moglie.
Io niego or con audacia, or movo preghi, Acciò che di parer si muti e volga, E che al giogo odioso non mi leghi E la conclusa pratica disciolga; Ma non val ch'io lo supplichi e gli nieghi, Che vol che donna al mio dispetto tolga, E se nol fo minaccia di cacciarmi Di casa e di più ancor diseredarmi.
E dice che non vol torsi nemica Una famiglia tal per mia sciocchezza, Né che per la città di lui si dica Che le promesse sue discioglie e spezza. Oltra che più gentil, né più pudica In tutta Lidia o di più gran bellezza Non è donna di lei ch'ei dar mi puote,
Quando io comprendo l'animo ostinato Del padre mio, che sempre più s'indura, Tutta la notte io penso disperato Di espormi ad ogni cruda empia ventura, E di esser prima d'ogni ben privato, Di patir ogni pena acerba e dura, Ch'abbandonar la bella donna mai Che sì cortese a me fu sempre mai.
Il fuggirmi di Lidia e trarla meco, Fora ben stata buona opinione, E condurmi nel regno italo o greco O in qualch'altra lontana regione, E viver qualche tempo esule seco Fin che mandasse il ciel miglior stagione; Ma far così nol posso in uno istante, E l'empie nozze eran troppo ite inante.
Non temo già di me, ma quel ch'importa È ch'ella sia per forza a me ribella; Che s'uom sforzato al padre si riporta, Che può fare una debile donzella? Temo anco che la pena che ne porta Uccida l'infelice e me con ella, Che morta lei non posso viver io, Ch'io spiro col suo fiato, ella col mio.
E questo rio pensier tanto s'affige In me che già mi par vederla estinta; E già sì gran tormento il cor m'affligge E di tanta pietà l'anima ho cinta, Che pria che passi l'onda atra di stige La vergine ombra del mortal suo scinta, Già son contento (ahi, sorte iniqua e fera) Ch'altri se l'abbia in man purché non pera.
Com'ella e io tentato abbia ogni strada Per distrugger del padre il fier disegno, E ch'impedir non possa che non vada E che non corra il rio destino al segno, Piuttosto che di tosco ella o di spada S'uccida, o vinta sia dal duolo indegno, Contento son che l'abbia in sua balia Il novo sposo e sia d'altri che mia.
Con questa opinion venuto il giorno Salto di letto e come amor mi accende Esco di casa e alla fenestra torno Dove l'afflitta giovene m'attende; Le veggio il crin più dell'usato adorno E che di gemme e d'or tutta ella splende, Il che mi fu un pugnal dentro del petto Che di quel ch'era allor presi sospetto.
Da questa novità faccio argomento Ch'ella dovea quel dì pigliar marito, E sì gran passion nel cor ne sento Che di non viver più prendo partito; Gli è ver ch'io morirei manco scontento, S'io non tenessi il suo caso spedito, Onde supplico lei mia donna e diva, Che s'esser non può mia, sia d'altri, e viva.
E non si affliga tanto che si toglia La vita e secchi il fior de suoi verdi anni, Che le prometto anch'io scemar la doglia Con ogni sforzo e mitigar gli affanni; Non che da quella rete il cor mai scoglia In che mi colser gli amorosi inganni, Che ben che i corpi sian disgiunti insieme Vivranno i cori in fin all'ore estreme.
Ella mi vol risponder lagrimando, Ma vien dal padre in quel (cred'io) chiamata, Onde si parte, e io men vado errando Come cerva da veltri assediata. Ecco più d'un parente salutando Mi viene in contra in vista amica e grata, E si rallegra meco e ha diletto Di quel ch'io sol mi doglio e n'ho dispetto.
Tutti mi son intorno e 'l vecchio padre Lagrimando ei di gaudio e di dolore, E con più donne la mia cara madre Per far venute alle mie nozze onore. In mezzo io vo dell'odiose squadre E vinto dalla rabbia, c'ho nel core Protesto lor, fatto dall'ira audace, Che mi conduchin pur dove lor piace.
Ch'io non son mai per consentir a quanto Oprar disegnan contra il mio volere, E con tal dir mi soprabonda il pianto Sì ch'a pena ove io vo posso vedere. Vanno essi e io con loro al loco intanto Ove a forza pigliar deggio mogliere, Dove la nova sposa apparecchiata Esser dovea tanto da me odiata.
Io la bestemmio sempre e maledico Sebben colpa non ha del mio tormento, E come seco abbia qualch'odio antico Le bramo ogni infelice avvenimento. Era tanto del re mio padre amico, Che nel regal palazzo fu contento Che 'l mio connubio celebrato fusse, E così ognun di noi vi si condusse.
Montamo la regal scala pomposa, E pervenimo in sala, ove gran corte D'uomini e donne adorna e sontuosa Era, qual conveniasi alla lor sorte. Questi erano parenti della sposa Che bramavano a lei farmi consorte; Sedeasi anch'ella ornata riccamente Fra questa amica e onorata gente.
Ma come dal dolor lasso e conquiso Alzo le luci sospirando ancora, E ch'io risguardo la donzella in viso Ch'in mirar me si turba e si scolora, Un gaudio che mi prende all'improvviso Mi fa uscir quasi di me stesso fuora, Perch'io veggio e conosco e 'l credo a pena Che questa è la mia cara Lucimena.
Quella che porto ogni or fissa nel core E che più me che la sua vita prezza, Quella che di lasciar tanto dolore Avea, ch'anco il pensarlo il cor mi spezza. Io non so dirti allor s'in noi maggiore Fosse o la maraviglia o l'allegrezza, Ciascun di noi si guarda e non fa motto Dall'un estremo all'altro ricondotto.
Da un mal estremo ad un estremo bene Ci conoscemo aver fatto tragitto, Quando eravan più privi d'ogni spene, Quando avevam più il cor lasso e afflitto. Forza è che 'l mesto viso io rasserene E ch'in faccia il piacer mostri descritto, Per cui s'allegra ognun de miei che scorge La gran mutazion ch'in me risorge.
Seppi allor che venendo di viaggio Verso la patria i padri nostri insieme, Essendo di ricchezze e di lignaggio Conforme assai dell'uno e l'altro il seme, Avean tra lor contratto il maritaggio Che ci rese felici oltre ogni speme; Ma che mi val se a venir tardo e lento, E se presto a sparir fu il mio contento?
Io non ti posso esprimer così a punto Con qual gaudio insperato e con qual gioia In matrimonio allor fussi congiunto Con lei, ch'amerò sempre infin ch'io muoia. Ma per venire al lagrimoso punto Che di novo mi diè tormento e noia, E perché sappi che fra noi non dura Mai ben alcuno, odi crudel sciagura.
Poi ch'i nostri dolcissimi imenei E che fummo per grazia degli dèi Con festa solennissima sposati, E ch'io conduco a casa mia colei Di cui tanto i connubi avea bramati, Tutti i miei studi e tutti i miei pensieri Son di darle ogni dì spassi e piaceri.
Un dì (misero me) la meno fuori In questa villa di delizie piena, Chiari acque, verdi piante, ameni fiori, Lieti colli, fresch'ombre, aria serena. Trovo cani, cavalli e cacciatori Per dar novo diletto a Lucimena, E bramando far cosa che le piaccia Me n'esco seco una mattina a caccia.
Altri stende sul pian le sottil reti Per dar inciampo all'animal gagliardo, Altri s'apposta ai varchi più secreti E tien in man o lancia, o spiedo, o dardo; Chi tien a lassa i cani arditi e lieti, Non è d'oprarsi alcun pigro né tardo. Ecco intanto un capriuol sbuca leggiero E io gli sprono dietro il mio destriero.
Lucimena, dolcissima compagna, Spinge il cavallo a tutta briglia anch'ella, E perché mai da me non si scompagna Cacciamo ambi la fera agile e snella. La fera in una aperta, ampia campagna Esce del bosco e noi seguiamo quella, La qual ci trasportò tanto lontani Che più non s'odon cacciator né cani.
Al fin perdemmo l'animal di vista Onde eravam per dar indietro volta, Quando una donna di gioconda vista Sopra un destrier venne alla nostra volta; E tosto ch'ebbe in me ferma la vista Dall'amoroso stral nel cor fu colta, Così la guancia mia vaga le parse Ch'in un momento il cor l'accese e arse.
E scorta la mia donna, che più vaga Era di lei, pensò subito ch'io Avesse di costei la mente vaga, E ch'in lei fusse tutto il pensier mio. Però sentendo la novella piaga, Che la struggea per me di alto desio, Tra sé discorre per avermi seco Di far perir la giovane, c'ho meco.
Era costei d'un'empia incantatrice Damigella, da lei mandata intorno, Perché traesse al suo muro infelice Tutti i guerrier di Lidia e del contorno; Né men d'ogni donzella è traditrice Costei, né men le causa oltraggio e scorno, Tal che con varie astuzie or meste, or liete Sempre incauto qualcun tira alla rete.
E lo conduce a quel castel dolente Che 'l castel del timor vien nominato, Dove stanza la maga fraudolente Ch'insidia ciaschedun del lidio stato. Or questa iniqua donna sua servente, Che nova invenzion s'ha imaginato, Tutta rivolta alla mia donna bella Così bugiarda e ria parla e favella:
«Tu non vai, bella donna, ove van tante Donzelle a gara in cui beltà si trova, Con questo tuo leggiadro o sposo, o amante A quella impresa aventurosa e nova. Trovasi in un castel poco distante Una aventura onde ciascun si prova, E perché non vi s'opra hasta, né spada L'impresa è graziosa e a tutti aggrada.
Il caso è che si trova in ripa a un lago Con laccio d'oro e com'ha detto un mago Esser non potrà mai scinta e slegata, S'un cavallier con la più bella imago Di donna ch'oggidì sia al mondo nata Non giunge per ventura a questa riva, Il qual sia il più fedel ch'al mondo viva.
Egli per l'eccellenza di sua fede Scioglier de' il nodo con l'aiuto d'ella, Per la beltà, che tutte l'altre eccede E così il vanto avrà della più bella. Ogni guerrier ch'esser fidel si vede, Corre alla prova e ogni gentil donzella, chi più chi manco allenta il laccio stretto, Secondo ha bello il viso o fido il petto.
Quei che la scioglierà beato al mondo, Ch'oltra, che sia tenuto il più fedele, Quel laccio acquisterà ricco e giocondo C'ha gran virtù contra ogni cor crudele. E l'uom che graverà sì ricco pondo Mai troverà la sua donna infedele, Che la fatal catena avrà valore Di farla sempre a lui volgere il core.
Non è mai stato alcun fin qui sì degno Ch'abbia disciolto l'animal biforme, E però mentre te mirando vegno Con questo tuo guerrier tanto conforme, Parmi veder da voi sciolto il ritegno, Poiché tu vinci le più belle forme Di donne che sian giunte a questo lido, Ond'ha questi cagion d'esserti fido».
Ahi, che prestando fede a sue parole Noi la pregammo a farne compagnia, Perché mia donna è di bellezza un sole, E io di fé non cedo a chi che sia. Ella che scorge andar sì come vole Il suo desir, ci fa lieta la via. Cavalcammo più dì fin ch'ad un ponte Giungemmo ond'hanno i cavallier tant'onte.
Di là dal ponte è quel castel c'ho detto Io passo il ponte senza alcun sospetto Dietro la donna e Lucimena ancora. E ecco un timor tal m'ingombra il petto Ch'io non so ben quel ch'i mi faccia allora, Tremo di gran paura e bramo altrove Fuggir e appiattarmi e non so dove.
Mi getto del destrier ch'infin di quello Piglio ombra e la mia donna e 'l tutto scordo, E fuggo come suol timido agnello Che teme ir sotto il dente al lupo ingordo. L'acqua che corre sotto il ponticello Cingea il castel per quanto mi ricordo, E 'l ponte non so chi levato avea Onde per me scampar non si potea.
Or per conchiuder fui preso e legato Da gente ria ch'alla mia volta venne E crudelmente in carcere serrato E altrettanto a Lucimena avenne. Più giorni poi fui tanto flagellato Che non so qual fra dèi vivo mi tenne; Vien una notte alfin, dov'infelice Solo io mi sto, la donna ingannatrice.
Io parlo quella che mi fé l'inganno Della sirena e che di me sì accesa Era, che fu cagion di farmi un danno Di cui sempre averò l'anima offesa. L'iniqua donna, che 'l mio duro affanno Sente nel petto e fin al cor le pesa, Dell'oscura pregion la chiave invola, E vien a ritrovarmi al buio e sola.
E non avendo modo di far scusa, Ch'ella non m'abbia offeso acerbamente, Confessando il suo fallo Amore accusa, Che l'iniquo pensier le pose in mente. E dice c'ha nel cor tal piaga chiusa Per mio amor che ben deve esser possente, Ad impetrarle venia, e quando amico Le sia mi vol discior di quello intrico.
Di liberarmi mi promette e giura Della pregion pur ch'io l'apprezzi, e ami, E trarmi del Castel della Paura, Che ben convien ch'in tal modo si chiami. Io ch'avea sol di Lucimena cura Né altra sarà mai ch'adori e brami, E poi che m'odo far questo partito Da colei che ci avea così tradito,
Tu puoi pensar che rabbia allor mi viene, Quando il lascivo suo pensier mi spiana. Non si partia da me, per Giove, sana, Ma per forza ristringer mi conviene E la furia ingozzar d'effetto vana; Nulla rispondo all'empia e disonesta, Ma fremo come il mar quando è tempesta.
Ella mi prega, e supplicando trova D'umiltà tutti i termini che puote, E poi ch'i preghi e i pianti indarno prova Aggiunge queste alle sue prime note: «Crudel, poi che l'amarti non mi giova, Né di pianto bagnar gli occhi e le gote, Poi che darmi risposta non ti piace, Io mi voglio partir, rimanti in pace.
Ben mi duol, che vorresti e non potrai Aver pigliato il mio fedel consiglio. Perch'io ti voglio dir quel che non sai, E Giove sa quanto dolor ne piglio, Che diman certo di pregion sarai Tratto e condotto all'ultimo periglio, Che questa stanza qui sempre rimane: Oggi toccò ad un altro, a te dimane.
E quando non vi giunga altro guerriero Si metterà poi mano alle donzelle, E la consorte tua sia di leggiero In brevissimo tempo una di quelle. Quanto meglio è (se n'hai tanto pensiero, Che non le vuoi per altra esser ribelle) Se salvi te, che pria forse che muora Trovarai via di lei salvar ancora.
Grande fu l'error mio, conosco e veggio Che non dovea pensar non che far questo, Ma quel ch'è fatto, io non so come deggio Disfar, se ben pentita assai ne resto. Deh, perché cerchi gir di male in peggio? Perduto hai parte e vuoi perder il resto. Deh, non lasciar che quel castigo ch'io Merito a te pervenga, signor mio.
Non voler pel grand'odio che mi porti Con gran ragion far tal danno a te stesso; Io non voglio che d'altro mi conforti Se non che t'abbia fuor del castel messo. E perché ancor conosci che m'importi Quanto mi prema il fallo c'ho commesso, Io ti prometto a rischio por mia vita Per dar (se posso) anco a tua donna aita».
Il confessar l'error con atti umili, Con infinite lagrime e con preci, Ha gran poter negl'animi gentili, Sì come esperienza allor ne feci. Io odo le ragion vere e sottili Che costei trova, e già sei delle dieci Parti mancano in me del rio pensiero, Così mi par ch'ella ragioni il vero.
E poi ch'alquanto ebbi tra me discorso, Più per dar qualche aiuto alla mia dea Che per mio conto, accetto esser soccorso Da lei che sì pentita si rendea; Così fui scatenato e braccia e dorso E gambe e piedi, che ne ferri avea, E da lei tratto fuor della pregione E anco fuor di quel fatal girone.
Ma come sol me trovo in libertade Senza colei che più che me stimava, Pensa pur tu ch'affanno e che pietade Io ne sentiva, e come il cor mi stava. Andavo sospirando per le strade E non sapea (qual cieco) ov'io m'andava, E era ben il ver, ch'ero allor cieco, Che'l raggio del mio sol non era meco.
Di tornar al castel venni in desio Dove il mio cor mi fu rubato e tolto, E correr seco ogni periglio rio Che non sta ben l'un preso e l'altro sciolto; Ma fece un mago il mio pensier restio, Delle mie gran miserie a pietà volto, Che mi venne a trovar tutto pietoso Perch'io prendessi alquanto di riposo.
«Acquetati (mi disse) Nicobaldo, Che non puoi per qualch'anno esser contento, Basta che quella onde d'amor sei caldo Non sarà tratta all'ultimo tormento; E tieni il detto mio per fermo e saldo, Ch'aspettar ti convien l'avenimento Di una regia fanciulla illustre e bella Ch'armata andrà come guerriero in sella.
E acciò ch'abbi conoscenza vera Di questa tua fatal consolatrice, Sappi ch'ella albergar deve una sera Nei tuoi ricetti (albergator felice), E ti dirà che d'una serpe fiera In un giardin sia stata vincitrice; Ma pria che l'alma tua renda gioiosa Ella ha da diventar regina e sposa».
Mi disse dell'anello e c'ha valore Contra ogni fiero e spaventoso incanto, Ond'io conosco che non prendo errore E che sei quella c'ho aspettato tanto. Però dal tuo venir ripiglio core, Real donzella, e mi consolo alquanto, Veggendo pur ch'in fatto è venuto ora Tutto quel che mi disse il mago allora.
Ond'io ti prego che ti piaccia poi Ricordarti di me povero amante, Quand'abbi dato effetto ai pensier tuoi Di che m'ha detto il savio Celidante. – Qui pose il guerrier fine ai detti suoi, Lasciando molto lieta Risamante, Però che 'l mago che costui narrava Era quel suo che come padre amava.
Quel che l'avea allevata da bambina Poi che la tolse al re suo genitore, Quel da cui ricevé la disciplina Di vestir arme e di mostrar valore. Or poi ch'ella pur deve esser regina, Disegna effettuar quel c'ha nel core, Disegna molte genti insieme unire
Di proferirsi poi non si ritarda Con le sue forze al cavallier cortese. Intanto i servi; essendo l'ora tarda, Avean portato molte cere accese, Al cui venir la giovane gagliarda Il cortese signor per mano prese E la condusse in un albergo adorno, Ove dormì fin che comparse il giorno.
Ma dirvi in altra parte io vi prometto Di questa damigella ciò che fosse, Né voglio dirne or più di quel c'ho detto Né come in varie parti ella trovosse, Dove, con quel valor ch'avea perfetto, Fece gran prove e di maniera oprosse Che sopra ogn'altro era gagliardo e franco Stimato il cavallier dal giglio bianco.
Né dirò che com'ebbe insieme unite Le genti sue che da più regni accolse, Mosse a Biondaura una terribil lite Sì ch'in Armenia ogni città le tolse, Perché torno in Atene ove l'ardite Genti desio di gloria in un raccolse. Ma per non esser grave a chi m'ascolta Fia ben che ne ragioni un'altra volta.
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