CANTO
OTTAVO
Argomento
Narra
Circetta al cavallier Silano
Del
padre Ulisse i lunghi e strani errori,
L'incanto
che fé Circe orrendo e strano
Dopò
le usate crudeltà e furori.
Floridor
si lamenta e piange invano
I
novi suoi troppo elevati amori.
Vol
celarsi a Filardo e più ch'ei prega
Che
gli si scopra, ei più s'asconde e niega.
Circe
già in virtù d'erbe e di parole,
Con
alto studio, oggi a nissuno espresso,
Potè
oscurar l'illustre faccia al sole,
Girar
i poli e fermar Cintia spesso,
E
far fiorir le rose e le viole,
Quando
più il campo è dalla neve oppresso,
Seccar
i prati e tornar l'aria nera
Sul
più bel verdeggiar di primavera.
Ch'ella
potesse far contra i statuti
Di
natura sì degne opre ammirandi,
Mi
maraviglio sì, poi che veduti
Oggi
non son miracoli sì grandi.
Ma
che cangiasse in animali bruti
Gli
uomini a sue parole, a suoi comandi,
Mi
par sì lieve ch'io stupisco invero
Ch'ella
degnasse in ciò porre il pensiero.
Poco
mi par che fesse ella cangiando
Gli
umani corpi in orsi, in lupi, in tori,
Quando
alla nostra età gli uomini errando
Di
lor medesmi son trasformatori;
E
con tal facilità girsi mutando
Gli
veggio, senza oprar versi o liquori,
Che
poco stima in ciò fo di quell'arte,
Poi
che 'l secol di noi n'ha tanta parte.
Ciascun
dell'esser proprio è sì buon mago,
Che
non ne seppe tanto ella in quel tempo
Quando
spese in cangiar la nostra imago
Tant'erbe,
tanto studio, e tanto tempo,
E
d'uscir di sé stesso è cosi vago
Che
di tornarvi poi non trova il tempo;
Di
tutti no, ma ben del più ragiono,
A
cui piace parer quel che non sono.
Io
vi direi, come di lupo ingordo
Spesso
pigli sembianza or questo or quello,
Altri
dell'animal fangoso e lordo,
Altri
di stolido orso iniquo e fello.
Ma
d'esser aspettata io mi ricordo
Dalla
donna del monte, a cui sì bello
Parve
il giovin latin, che sol desire
Ha
di piacergli, onde comincia a dire:
–
Quel cavallier, che
già molt'anni visse,
La
cui virtù non ebbe pari al mondo,
Qual
nelle greche e nelle frigie risse
Mostrò
divin saper, valor profondo,
Quel
sì prudente e valoroso Ulisse
Che
più d'ogni altro ardito era e facondo,
Fu
signor di quest'isola che detta
Itaca
fu, si chiama or di Circetta.
Pria
ch'avesse in quel tempo acceso e arso
Il
superbo Ilion la greca face,
fra
i più degni di Grecia eroi comparso
Ulisse
in ragionar pronto e vivace,
Contra
il forte uom ver sé di pietà scarso,
Quel
sì famoso e furibondo Aiace,
Ottenne
con parole alte e ornate
Del
fortissimo Acheo l'arme onorate.
E
poi ch'al regio campo alto spartano
Rese
placato il miser Filotette,
Che
nello scoglio irato di Vulcano
Tenea
d'Alcide l'arco e le saette,
Senza
cui il re de' Greci attendea invano
Sul
muro frigio l'ultime vendette,
Si
pose a ritentar l'ondoso sdegno
Ver
questa patria sua, ver questo regno.
Sì
come quel che tanto era bramoso
Di
riveder la sua progenie bella,
E
la casta moglier fida al suo sposo
Ch'a
lui sol pensa e sol di lui favella.
Ma
'l gran rettor del mar gonfio e sdegnoso
Gli
mosse irato asprissima procella,
Come
a fautor della corona achea
E
distruttor della grandezza idea.
L'odio
ch'egli ha d'appalesar si affretta
Per
vendicare il suo superbo muro,
E
mentre irato aspira alla vendetta
E
pensa darlo al regno inferno e scuro,
Il
vento lo trasporta a una isoletta
Dove
sopra uno scoglio infame e duro
Dormir
trova il Ciclope in cima il monte,
E
l'occhio invola alla terribil fronte.
Poi
spiega i lini e l'isola abbandona
Per
fuggir Polifemo infame ed empio;
Va
al re de' venti e così ben ragiona
Col
dolce stile, onde non ebbe essempio,
Che
Eolo tutti gli prende e gli li dona
Acciò
fuggisse il minacciato scempio;
Ma
tutto invan, che più d'un servo infido
Del
don lo priva e dell'amato lido.
Sciolser
gli avari il vento empio e leggiero
E
'l mar rinnovò in mar l'empia tempesta,
L'armata
si disperde e 'l duca altiero
Errando
va col legno che gli resta.
Alfine
il tempo ingiurioso e fiero
Lo
trae di Circe all'inclita foresta,
Circe
la bella e virtuosa fata
Si
mostrò a Ulisse e a suoi compagni grata.
E
taccia pur chi dice ingiustamente
Che
trasformasse i suoi consorti in fiere,
Che
mai non fé, se non sforzatamente,
A
chi la volse offender dispiacere.
Venne
alla fata il cavallier prudente
E
ricevé da lei gioia e piacere,
E
dell'uno e dell'altra io fui concetta
E
del nome di lei nacqui Circetta.
Il
possente guerrier genitor mio
Ulisse
fu, mia madre quella diva
Che
figlia fu del luminoso dio
Che
l'ombre scaccia e 'l giorno spento aviva.
Data
che m'ebbe in luce, al suo desio
Dimostrò
Ulisse aver la mente schiva,
E
con l'astuzie ond'era esperto e dotto
Un
dì se l'involò senza far motto.
Diè
i remi all'acque e con più destro fato,
Egli
e li amici suoi quivi arrivaro,
E
dal tempo d'efigie trasformato
Fu
conosciuto a pena il signor caro.
Circe
s'accorge, esser il duca amato
Partito
e sparge un rio di pianto amaro,
E
seguìto l'avria, ma le 'l contese
La
propria sua virtù, ch'Ulisse apprese.
Perché
mentre egli in grazia ebbe mia madre
E
che gli piacque il bel saturnio colle,
E
che d'una figliola si fé padre,
Tutta
l'arte di Circe ritender volle.
Ella,
ch'alle maniere ostar leggiadre
Non
può con vari versi e varie ampolle,
Fece
all'amante ogni scienza espressa
E
per gradir altrui nocque a se stessa.
Or
poi, che d'impedir non fu possente
Circe
che 'l padre mio non si partisse,
Che
l'istess'arte in ch'era ella eccellente
Favor
prestava al fuggitivo Ulisse,
Chiuse
il dolor nell'affannata mente
E
aspettò che 'l cavallier morisse,
Per
far sopra quest'isola vendetta
Che
la vista di lui l'avea interdetta.
Fatto
il debito rogo usato e pio
Del
popol di dolor colmo e di pieta,
E
'l cenere mortal del padre mio
Chiuso
nell'urna sacra consueta,
Circe
per donar loco al suo desio,
Poscia
ch'alcun non glie 'l disturba o vieta,
Qui
si conduce, e i carmi alti e fatali
Invisibil
la rendono a mortali.
Copre
ella ogni città di nebbia oscura,
Fa
leoni apparir, tigri e serpenti,
E
furon quei che guardan quelle mura
Che
voi meco passar foste contenti.
Quella
ferocità c'han per natura
Lor
raddoppiava il suon de maghi accenti,
Tal
ch'il tosco, la branca, il dente, e 'l corno
Disolar
le città tutte d'intorno.
E
poi che fu d'esercitar ben sazia
Quella
gran crudeltà nata d'amore
(Che
mentre intorno all'isola si spazia
Non
scorge illeso alcun dal suo furore),
Chiede
al verso opportun favor e grazia,
Per
lo nome eternar del suo signore,
Vol,
che d'Ulisse il pregio al mondo viva
E
sia la fama sua splendida e viva.
E
sforza il vento col suo forte incanto
A
penetrar nel centro della terra,
E
lì schiude le vie per ogni canto
Sì
ch'invan per uscir s'aggira e erra;
Ma
il desio natural lo spinge tanto
Che
move con gran furia al terren guerra,
S'alza
e gonfia il terren vinto e sforzato
Come
un pallon s'alcun gli dona il fiato.
Cede
la terra al vento e forma il monte,
Il
monte che ci serra intorno e sopra;
Circe
allor con parole accorte e pronte
In
sì raro artificio il senno adopra.
Nel
giogo altier, nell'elevata fronte
Fece
da poi via più mirabil opra,
Un
tempio fé, ch'ovunque splende e gira
Più
bella cosa il sol di lui non mira.
Gli
archi, le basi, i capitelli e 'l tetto
Comparte
con egual proporzione,
Senza
maestro aver, senza architetto,
Con
la virtù del magico sermone;
Quando
ella il suo lavor vide perfetto
Con
l'aiuto dell'orco e di Plutone,
Nella
maggior città discende sola
E
le reliquie pie d'Ulisse invola
Oltra
'l cener ch'al sacro mausoleo
Dell'ingrato
amator ritrova e toglie,
Vi
trova ancor del figlio di Peleo
Le
gloriose e trionfanti spoglie,
Quell'arme
a cui Vulcan la tempra feo,
Appese
e sparte, ispicca ella e raccoglie
E
le trasporta in questo albergo fido,
Come
in più degno e glorioso nido.
A
tutte queste imprese io fui presente,
Che
non avea mia madre altro conforto,
Che
d'in me contemplar naturalmente
Quel
bel ch'era in Ulisse estinto e morto.
Non
però vol far dotta la mia mente
Com'altrui
far si possa oltraggio e torto,
M'insegna
il ben ch'uscir può da quell'arte
E
asconde il mal nelle possenti carte.
Come
piacque all'inique e dure stelle
Termina
allor la genitrice mia
Che
dell'uman commercio empia ribelle
(Da
me poi detto) in questo scoglio io stia.
E
meco pose ancor le tre donzelle,
Che
servitù mi fanno e compagnia,
E
fé l'incanto a tutto 'l mondo oscuro,
Che
'l secolo durar dovea futuro.
E
statuì che 'l tempo non potesse
Della
mia giovanezza aver trofeo,
E
che di quella età mi mantenesse
Ch'ella
mi pose in questo incanto reo;
E
ben si può veder, quanto valesse
Il
suo saper ch'invan l'opra non feo,
Quando
da indi in qua tanti anni sono
Corsi,
e pur fresca e giovanetta sono.
E
meco ancor di quei, (che, mentre visse
Il
padre mio se gli mostrar contrari)
Circe
(che lor più lunga etade ascrisse,
Di
quel, c'hanno ordinato i cieli avari)
Pose
gli eredi a guardar qui d'Ulisse
L'arme,
fin ch'un guerrier di virtù pari
A
lui di questo carcer venga a trarmi,
E
sia signor dell'Isola e dell'armi.
E
come venne a lei l'amato duca
Non
per sua volontà ma per ventura,
Così
non vol ch'alcun la fama induca
A
tentar l'immanissima avventura,
Ma
che fortuna a caso lo conduca
A
provar s'ha la sorte amica o dura,
Né
vol che possa alcun nel tempio entrare,
Che
non sia in arte a Ulisse e in valor pare.
E
quando audace alcun di poco merto
Nelle
mura infernal d'entrar si sforza,
Così
punito vien che 'l tempo incerto
Vive
dell'età sua sotto altra scorza.
Pur
dianzi il fatto voi vedeste aperto,
Farmi
vedeste alla natura forza;
Quel
guerrier fu da voi pur dianzi visto
Perder
la carne e far del legno acquisto.
Or,
s'a voi cavallier pare esser tali,
Se
vi dà il cor d'entrar per quella porta
Quando
i contrasti havrete empi e mortali
Passati,
e 'l gran terror ch'ella vi apporta,
Dalle
lastre ricchissime fatali
Vedrete
cosa uscir, ch'assai più importa,
Colosso
e Tantalon ciascun estremo
Che
vendetta vorran di Polifemo.
Ma
ponghiam, che 'l feroce empio gigante
Resti
da voi mirabilmente ucciso,
Chi
vi difenderà dal gran Theante
Che
vi moverà assalto all'improviso?
Dal
capo è inviolabile alle piante,
Né
può da ferro alcun restar conquiso,
Fatato
ha come 'l padre il carnal panno
E
brama vendicar d'Aiace il danno. –
Il
ragionar, che fé la giovanetta
Pose
in un gran pensier l'alme latine;
Il
desio dell'onor ben ambi alletta
A
tentar quelle imprese alte e divine,
Ma
'l timor del castigo che s'aspetta
A
chi non giunge al desiato fine,
Che
vien costretto in arbore a cangiarsi,
Fa
ch'in dubbio si stan né san che farsi.
Ma
l'astuto Silan, che dal periglio
Si
cerca trar con arte e con ingegno,
Gira
spesso ver lei cortese il ciglio
E
le mostra d'amor questo e quel segno,
Che
senza aver da lei grazia e consiglio
Giunger
non spera al destinato segno,
Non
si tien senza il suo favor bastante
D'una
impresa trattar tanto importante.
Or,
mentre sta sospeso, una donzella
Entra
in quel loco e con gentil invito
La
gentil donna, e i cavallieri appella,
Ch'era
già posto in ordine il convito.
Si
mosser dunque, e in una ricca e bella
Sala
passar ch'ella gli mostra a dito,
Ch'era
sì ricca e bella a maraviglia
Che
di novo stupir l'ausonie ciglia.
Avea
tre gran fenestre da levante
Con
le colonne d'alabastro eletto,
Tre
verso l'austro e 'l sol per altretante
Verso
la sera illuminava il tetto.
L'ultima
faccia il muro di diamante
Tre
usci comportian d'avorio schietto.
Sono
le soglie e i cardini d'argento,
E
di vivi rubini il pavimento.
Il
tetto è d'oro e l'architrave e tali
Son
le cornici, e sopra gli usci e intorno
È
un gran feston di perle orientali
Che
sparge in fuori e d'altre gemme adorno
Fingea
una vite poi, che naturali
Ha
l'uve sì che fanno al vero scorno.
Tra
l'architrave e la cornice, il fregio
Con
un fogliame di smeraldi egregio.
Ma
lasciam pur che la gran sala dia
Mirabile
splendor di gemme e d'oro,
Anzi
che pur tutta una gemma sia
Distinta
in raro e non mortal lavoro,
Metto
per nulla ogni altra leggiadria
Rispetto
a quel che vince ogni tesoro,
Dico
l'illustri, adamantine mura
Onde
fé l'arte inganno alla natura.
In
quella dura gemma forte e salda,
O
pur che giunte in un siano infinite,
Com'in
cera, ch'al foco si riscalda,
Mille
belle figure eran scolpite.
Se
fredda pietra son, se viva e calda
Carne,
sarebbe ogni giudizio in lite,
Che
l'artifizio v'ha sì poca parte
Che
l'arte ascosa esser parea nell'arte.
Silano
a prima giunta il senso adombra
E
gli par che quel parla e questo spira,
Che
'l rilievo, il color, la linea e l'ombra
Mostra
che 'l labro ride e l'occhio mira,
E
quella illusion tanto l'ingombra
E
'l creder falso a tal sciocchezza il tira,
Che
stimando esser vera e viva gente
Si
mosse a salutarla riverente.
Ma
come meglio del suo error si avvide
Che
non gli fa al cortese atto risposta,
E
che la giovinetta il guarda e ride
E
fa che al duro intaglio il dito accosta,
E
che prova la man le luci infide
Sì
che la vana opinion si scosta,
Per
la vergogna che nel cor lo prese
Di
vermiglio color tutto s'accese.
E
tornando in se stesso stupefatto
Sorridendo
ammirò l'opra celeste,
Poi
disse: – Assai mi trovo satisfatto
Di
quel che già per via ci prometteste,
Quando
quel cavallier fu per voi tratto
Fuor
dell'umana sua natural veste,
Che
seguendovi avrei veduto cose
Più
del passato assai miracolose.
Vi
prego ben che mi narriate un poco
Che
vogliano importar queste scolture,
Se
fur per adornar questo bel loco
Fatte
le belle e nobili figure,
Oppur
che siano vive in alcun loco
All'età
nostra o sian nelle future,
Over
che siano i naturali esempi
Delle
persone de passati tempi. –
Disse
la donna: – Assai vedete chiaro
Che
queste istorie innanzi a noi descritte
Non
fur né sono ancor, ma 'l tempo avaro
Le
dee portar nell'ore in ciel prescritte;
E
sian di tanto pregio illustre e raro,
Di
tanto onor quelle persone invitte,
Che
dalla fata a cui non furo occulte
Meritaro
in diamante essere sculte.
Ma
perché vi bisogna un lungo tempo
A
dir le glorie al mondo ancor non sparte,
E
l'alta istoria del futuro tempo
Ch'a
Circe dimostrò la magic'arte,
Onde
qui le ritrasse innanzi tempo
E
me ne dè notizia a parte a parte,
Io
vi voglio pregar che pria disniamo
Poi
ch'egli è l'ora e i cibi innanzi abbiamo.
Di
ragionarne poi lor diè speranza,
Onde
accordarsi i duo guerrier latini,
Lasciando
allor di rimirar la stanza
Per
gustar di quei cibi almi e divini.
Intanto
con gentil bella creanza
E
con modesti e riverenti inchini,
Entrar
due donne in lor servigio accinte
Con
le maniche al cubito succinte.
L'una
in man porta un ricco vaso aurato
Pien
d'acqua rosa a chi lavar si deve,
E
sulla manca spalla un delicato
Drappo
che di candor vincea la neve,
L'altra
un bacino d'or largo e cavato
Nel
fondo che lo sparso umor riceve,
E
alla donna e a' cavallieri strani
Incominciaro
a dar l'acqua alle mani.
Poi
che le man l'un dopò l'altro asperge
Di
quello umor che spira odor soave,
E
con quel bianco lin l'asciuga e terge
Che
la donna a tal fin sull'omer have,
Circetta
a' cavallieri il bel viso erge
Nel
parlar dolce e nell' aspetto grave,
E
lor concesse i lochi più sublimi,
E
volle anco a seder che fusser primi.
Poi
siede anch'ella e alle vivande grate
Pongono
man con somma gioia immensa,
E
le due damigelle accostumate
Volano
intorno alla superba mensa.
Chi
serve di coltel, chi nell'aurate
Coppe
il nettareo vin porge e dispensa,
Quella
di novo cibo i piatti ingombra,
Questa
de' primi il lin sparecchia e sgombra.
Mentre
a gustar quel desinar giocondo
Si
sta quell'onorata compagnia,
Ne
vien la terza giovane ch'al mondo
Non
avea par di grazia e leggiadria,
E
con la cetra e con un dir facondo
Mosse
una soavissima armonia,
Talmente
ch'era ai due guerrier aviso
Fruir
là tutto il ben del paradiso.
Ma
mi riserbo un'altra volta a dire
Di
questa coppia e della figlia vaga,
Perché
Filardo ha di trovar desire
Floridor
suo, ch'amor fere e impiaga;
Benché
molto Filardo intorno mire
Non
può la vista sua far lieta e paga,
Di
su di giù per quella gente assai
L'andò
cercando, e no 'l ritrovò mai.
E
pien di alto stupor, pien di sospetto,
Poi
ch'invano il caval gira e lo sguardo,
Rivolge
verso il solito ricetto
Con
poco speme il suo destrier gagliardo;
Dov'era
giunto il mesto giovanetto
Molto
pria che giugnesse il suo Filardo,
E
d'estremo dolor chiuso nel core
Stava
confuso e di se stesso fuore.
Come
uom cui mentre il sonno i sensi opprime
Finti
e vari pensier tratta e discorre,
E
con sembianze rie nel petto imprime
Cosa
che 'l suo cor odia e 'l gusto aborre,
Che
l'imagine allor che 'l sonno imprime
Con
ogni affetto rio che vi concorre
S'affisa,
e in lui divien tanto possente
Che
desto ancor più dì se ne risente.
Così
di trarsi più non è bastante
Quella
diva immagine del core,
Dove
come in un saldo, aspro diamante,
Scolpita
l'ha di sua man propria Amore.
Quella
memoria ogni or salda e costante
Gli
rinforza nel petto il vivo ardore,
Cresce
la pena ogni or, cresce l'effetto
Nel
semplicetto e ancor tenero petto.
Dal
caldo e dall'affanno afflitto e stanco
Disarma
il bello e scolorito volto,
E
stende sopra un letto il suo bel fianco,
Che
trova a tempo in quell'albergo occolto.
La
fiamma che lo strugge al lato manco
Distilla
il sangue intorno al cor raccolto,
Quel
trasformato in acqua pura ascende
E
fuor per gli occhi in molta copia scende.
Come
vezzoso, indomito torello
Uso
libero a gir tra verdi campi,
Se
por si sente al collo ancor ribello
Il
duro giogo avvien che d'ira avvampi,
E
invan ne gema, e per sottrarsi a quello
S'aggiri
assai, non però sì che scampi.
Così
Floridor preso al novo laccio
Invan
si lagna e cerca uscir d'impaccio.
Tacito
un pezzo in lagrime e sospiri
Sfoga
il suo grave, insolito tormento,
Poi
vinto da suoi novi, aspri martiri,
Così
accompagna al lagrimar l'accento:
–
Lasso, che disusati,
alti desiri
Disturban
la mia pace e 'l mio contento,
Che
novo duol, che novo affanno è questo,
Onde
si afflitto e travagliato resto?
Se
questo dolce mal mi nasce e viene
Dal
dolce ben da me pur dianzi scorto,
L'alma
non usa a sentir tanto bene
Come
non sciolse il subito conforto?
Se
forse amor per darmi maggior pene
Non
oprò allor ch'io non restassi morto,
Fu
certo quel tiranno empio e crudele
Che
seppe in un temprar l'ascentio e 'l mele
Miser
m'accorgo ben che quel protervo
Rozzo
fanciul m'ha colto al laccio e ignaro,
E
qual fugace e temidetto cervo
Fuggo
piagato indarno il colpo amaro.
Ma
come ardirò mai chiamarmi servo
Di
lui per un soggetto così raro
Che
sceso in noi dallo stellato chiostro
È
miracolo e onor del secol nostro.
Ah,
per Dio, non sia alcun ch'oda, e ascolte
Sì
temerario ardir, voglia sì insana,
Stian
le mie doglie qui chiuse e sepolte,
Né
le possa caper credenza umana.
Che
quando abbia tentato invan più volte
Di
far sì sciocca opinion lontana,
Fia
questa spada alfin sola il rimedio
Che
mi trarrà dal cor sì duro assedio. –
Mentre
tutto affannato e lagrimoso
Il
bello innamorato Floridoro,
Così
disfoga il suo pensier focoso,
E
donar cerca al gran martir ristoro,
Il
caro amico suo dubbio e geloso
Di
lui ch'era il suo bene, il suo tesoro,
Sopragiungendo
in fretta a suoi tormenti,
Gli
interrompe le lagrime e i lamenti.
Il
calpestio gli orecchi al garzon fiede,
Ond'ei
si rizza e con astutia bella
Corre
al destrier con frettoloso piede,
E
d'acconciarli il fren mostra e la sella.
Ma
indarno di celar s'ingegna e crede
Quella
sua passion fiera e novella,
Che
Filardo giungendo il trova molto
Dall'esser
suo trasfigurato in volto.
A
Floridor parea così gran fallo
L'aver
levato il suo pensier tant'alto
Che
mentre più che può celando vallo,
Fa
il viso or d'ostro or di color di smalto,
E
danna e fa colpevole il cavallo
Del
suo partir, con l'amoroso assalto;
Ma
l'accorto Filardo era ben certo
Ch'un
danna egli ha, che vol tener coperto.
Stupisce
il buon ditteo quando comprende
Che
così Floridor celar si vole,
Che
pur sempre ogni mal, che 'l cor gli offende
Ogni
pensier manifestar li suole;
E
di tanta pietà l'anima accende
Che
più ch'egli non fa si lagna e duole,
E
non si può tener di non gli dire:
–
Deh Floridor, per
Dio non ti coprire.
Non
ti coprir a me che ben m'accorgo
Che
nova passion nel cor ti è nata,
Ma
la cagion di ciò però non scorgo,
Né
so perché la vuoi tener celata. –
A
questo Floridor di pianto un gorgo
Distilla
per la guancia delicata;
Lo
conforta Filardo, e gli occhi belli
Col
lin gli asciuga e pregal che favelli.
Con
gran fatica il giovane e con arte
Alfin
ne cava una risposta tale:
–
Deh, fuggi amico il
mio consorzio, e in parte
Ne
va lontan dal mio propinquo male!
Questo
indegno figliuol del buon Silvarte
Lasciar
destina il suo carcer mortale;
Per
non esser d'alcun mai più veduto
Brama
in sì verde età donarsi a Pluto.
Fuggi
pria, che 'l duol forte o 'l ferro audace
Scioglia
questo caduco e fragil velo,
E
la cagion che turba ogni mia pace
Non
ti doler, per Dio, s'ascondo e celo;
Perché
l'alto pensier che m'arde e sface
È
d'eccellenza tal ch'io no 'l rivelo;
Bastati
di saper ch'esca di vita
Un'alma
troppo audace e troppo ardita.
Non
sospirar del mio stato dolente,
Che
vol ragion ch'io sol m'afliga e pera,
Né
mi duol di morir quando la mente
Morendo
restar dee sciolta e sincera;
Ma
sol mi aggrava il cor che sia possente
Morte
a partir tanta amicizia vera,
E
sia diviso il nostro amor interno
Ch'io
mi credea ch'esser dovesse eterno. –
Con
questo il dolor cresce e 'l cor gli stringe
Sì
che raddoppia in lui l'angoscia e 'l pianto,
E
di tanto martir l'amico cinge,
Che
nel cor piange e duolsene altrettanto;
Ma
la di lor pietade or mi constringe
Quindi
sviarmi e poner fine al canto.
Come
poi si scemasse il lor martire
Farò
nell'altro a chi m'ascolta udire.
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