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Modesta Pozzo de' Zorzi (alias Moderata Fonte)
Tredici canti del Floridoro

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  • CANTO OTTAVO
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CANTO OTTAVO



Argomento


Narra Circetta al cavallier Silano

Del padre Ulisse i lunghi e strani errori,

L'incanto che Circe orrendo e strano

Dopò le usate crudeltà e furori.

Floridor si lamenta e piange invano

I novi suoi troppo elevati amori.

Vol celarsi a Filardo e più ch'ei prega

Che gli si scopra, ei più s'asconde e niega.


Circe già in virtù d'erbe e di parole,

Con alto studio, oggi a nissuno espresso,

Potè oscurar l'illustre faccia al sole,

Girar i poli e fermar Cintia spesso,

E far fiorir le rose e le viole,

Quando più il campo è dalla neve oppresso,

Seccar i prati e tornar l'aria nera

Sul più bel verdeggiar di primavera.


Ch'ella potesse far contra i statuti

Di naturadegne opre ammirandi,

Mi maraviglio sì, poi che veduti

Oggi non son miracoligrandi.

Ma che cangiasse in animali bruti

Gli uomini a sue parole, a suoi comandi,

Mi parlieve ch'io stupisco invero

Ch'ella degnasse in ciò porre il pensiero.


Poco mi par che fesse ella cangiando

Gli umani corpi in orsi, in lupi, in tori,

Quando alla nostra età gli uomini errando

Di lor medesmi son trasformatori;

E con tal facilità girsi mutando

Gli veggio, senza oprar versi o liquori,

Che poco stima in ciò fo di quell'arte,

Poi che 'l secol di noi n'ha tanta parte.


Ciascun dell'esser proprio è sì buon mago,

Che non ne seppe tanto ella in quel tempo

Quando spese in cangiar la nostra imago

Tant'erbe, tanto studio, e tanto tempo,

E d'uscir di sé stesso è cosi vago

Che di tornarvi poi non trova il tempo;

Di tutti no, ma ben del più ragiono,

A cui piace parer quel che non sono.


Io vi direi, come di lupo ingordo

Spesso pigli sembianza or questo or quello,

Altri dell'animal fangoso e lordo,

Altri di stolido orso iniquo e fello.

Ma d'esser aspettata io mi ricordo

Dalla donna del monte, a cui sì bello

Parve il giovin latin, che sol desire

Ha di piacergli, onde comincia a dire:


Quel cavallier, che già molt'anni visse,

La cui virtù non ebbe pari al mondo,

Qual nelle greche e nelle frigie risse

Mostrò divin saper, valor profondo,

Quel sì prudente e valoroso Ulisse

Che più d'ogni altro ardito era e facondo,

Fu signor di quest'isola che detta

Itaca fu, si chiama or di Circetta.


Pria ch'avesse in quel tempo acceso e arso

Il superbo Ilion la greca face,

fra i più degni di Grecia eroi comparso

Ulisse in ragionar pronto e vivace,

Contra il forte uom ver sé di pietà scarso,

Quel sì famoso e furibondo Aiace,

Ottenne con parole alte e ornate

Del fortissimo Acheo l'arme onorate.


E poi ch'al regio campo alto spartano

Rese placato il miser Filotette,

Che nello scoglio irato di Vulcano

Tenea d'Alcide l'arco e le saette,

Senza cui il re de' Greci attendea invano

Sul muro frigio l'ultime vendette,

Si pose a ritentar l'ondoso sdegno

Ver questa patria sua, ver questo regno.


Sì come quel che tanto era bramoso

Di riveder la sua progenie bella,

E la casta moglier fida al suo sposo

Ch'a lui sol pensa e sol di lui favella.

Ma 'l gran rettor del mar gonfio e sdegnoso

Gli mosse irato asprissima procella,

Come a fautor della corona achea

E distruttor della grandezza idea.


L'odio ch'egli ha d'appalesar si affretta

Per vendicare il suo superbo muro,

E mentre irato aspira alla vendetta

E pensa darlo al regno inferno e scuro,

Il vento lo trasporta a una isoletta

Dove sopra uno scoglio infame e duro

Dormir trova il Ciclope in cima il monte,

E l'occhio invola alla terribil fronte.


Poi spiega i lini e l'isola abbandona

Per fuggir Polifemo infame ed empio;

Va al re de' venti e così ben ragiona

Col dolce stile, onde non ebbe essempio,

Che Eolo tutti gli prende e gli li dona

Acciò fuggisse il minacciato scempio;

Ma tutto invan, che più d'un servo infido

Del don lo priva e dell'amato lido.


Sciolser gli avari il vento empio e leggiero

E 'l mar rinnovò in mar l'empia tempesta,

L'armata si disperde e 'l duca altiero

Errando va col legno che gli resta.

Alfine il tempo ingiurioso e fiero

Lo trae di Circe all'inclita foresta,

Circe la bella e virtuosa fata

Si mostrò a Ulisse e a suoi compagni grata.


E taccia pur chi dice ingiustamente

Che trasformasse i suoi consorti in fiere,

Che mai non , se non sforzatamente,

A chi la volse offender dispiacere.

Venne alla fata il cavallier prudente

E ricevé da lei gioia e piacere,

E dell'uno e dell'altra io fui concetta

E del nome di lei nacqui Circetta.


Il possente guerrier genitor mio

Ulisse fu, mia madre quella diva

Che figlia fu del luminoso dio

Che l'ombre scaccia e 'l giorno spento aviva.

Data che m'ebbe in luce, al suo desio

Dimostrò Ulisse aver la mente schiva,

E con l'astuzie ond'era esperto e dotto

Un se l'involò senza far motto.


Diè i remi all'acque e con più destro fato,

Egli e li amici suoi quivi arrivaro,

E dal tempo d'efigie trasformato

Fu conosciuto a pena il signor caro.

Circe s'accorge, esser il duca amato

Partito e sparge un rio di pianto amaro,

E seguìto l'avria, ma le 'l contese

La propria sua virtù, ch'Ulisse apprese.


Perché mentre egli in grazia ebbe mia madre

E che gli piacque il bel saturnio colle,

E che d'una figliola si padre,

Tutta l'arte di Circe ritender volle.

Ella, ch'alle maniere ostar leggiadre

Non può con vari versi e varie ampolle,

Fece all'amante ogni scienza espressa

E per gradir altrui nocque a se stessa.


Or poi, che d'impedir non fu possente

Circe che 'l padre mio non si partisse,

Che l'istess'arte in ch'era ella eccellente

Favor prestava al fuggitivo Ulisse,

Chiuse il dolor nell'affannata mente

E aspettò che 'l cavallier morisse,

Per far sopra quest'isola vendetta

Che la vista di lui l'avea interdetta.


Fatto il debito rogo usato e pio

Del popol di dolor colmo e di pieta,

E 'l cenere mortal del padre mio

Chiuso nell'urna sacra consueta,

Circe per donar loco al suo desio,

Poscia ch'alcun non glie 'l disturba o vieta,

Qui si conduce, e i carmi alti e fatali

Invisibil la rendono a mortali.


Copre ella ogni città di nebbia oscura,

Fa leoni apparir, tigri e serpenti,

E furon quei che guardan quelle mura

Che voi meco passar foste contenti.

Quella ferocità c'han per natura

Lor raddoppiava il suon de maghi accenti,

Tal ch'il tosco, la branca, il dente, e 'l corno

Disolar le città tutte d'intorno.


E poi che fu d'esercitar ben sazia

Quella gran crudeltà nata d'amore

(Che mentre intorno all'isola si spazia

Non scorge illeso alcun dal suo furore),

Chiede al verso opportun favor e grazia,

Per lo nome eternar del suo signore,

Vol, che d'Ulisse il pregio al mondo viva

E sia la fama sua splendida e viva.


E sforza il vento col suo forte incanto

A penetrar nel centro della terra,

E schiude le vie per ogni canto

Sì ch'invan per uscir s'aggira e erra;

Ma il desio natural lo spinge tanto

Che move con gran furia al terren guerra,

S'alza e gonfia il terren vinto e sforzato

Come un pallon s'alcun gli dona il fiato.


Cede la terra al vento e forma il monte,

Il monte che ci serra intorno e sopra;

Circe allor con parole accorte e pronte

In sì raro artificio il senno adopra.

Nel giogo altier, nell'elevata fronte

Fece da poi via più mirabil opra,

Un tempio , ch'ovunque splende e gira

Più bella cosa il sol di lui non mira.


Gli archi, le basi, i capitelli e 'l tetto

Comparte con egual proporzione,

Senza maestro aver, senza architetto,

Con la virtù del magico sermone;

Quando ella il suo lavor vide perfetto

Con l'aiuto dell'orco e di Plutone,

Nella maggior città discende sola

E le reliquie pie d'Ulisse invola


Oltra 'l cener ch'al sacro mausoleo

Dell'ingrato amator ritrova e toglie,

Vi trova ancor del figlio di Peleo

Le gloriose e trionfanti spoglie,

Quell'arme a cui Vulcan la tempra feo,

Appese e sparte, ispicca ella e raccoglie

E le trasporta in questo albergo fido,

Come in più degno e glorioso nido.


A tutte queste imprese io fui presente,

Che non avea mia madre altro conforto,

Che d'in me contemplar naturalmente

Quel bel ch'era in Ulisse estinto e morto.

Non però vol far dotta la mia mente

Com'altrui far si possa oltraggio e torto,

M'insegna il ben ch'uscir può da quell'arte

E asconde il mal nelle possenti carte.


Come piacque all'inique e dure stelle

Termina allor la genitrice mia

Che dell'uman commercio empia ribelle

(Da me poi detto) in questo scoglio io stia.

E meco pose ancor le tre donzelle,

Che servitù mi fanno e compagnia,

E l'incanto a tutto 'l mondo oscuro,

Che 'l secolo durar dovea futuro.


E statuì che 'l tempo non potesse

Della mia giovanezza aver trofeo,

E che di quella età mi mantenesse

Ch'ella mi pose in questo incanto reo;

E ben si può veder, quanto valesse

Il suo saper ch'invan l'opra non feo,

Quando da indi in qua tanti anni sono

Corsi, e pur fresca e giovanetta sono.


E meco ancor di quei, (che, mentre visse

Il padre mio se gli mostrar contrari)

Circe (che lor più lunga etade ascrisse,

Di quel, c'hanno ordinato i cieli avari)

Pose gli eredi a guardar qui d'Ulisse

L'arme, fin ch'un guerrier di virtù pari

A lui di questo carcer venga a trarmi,

E sia signor dell'Isola e dell'armi.


E come venne a lei l'amato duca

Non per sua volontà ma per ventura,

Così non vol ch'alcun la fama induca

A tentar l'immanissima avventura,

Ma che fortuna a caso lo conduca

A provar s'ha la sorte amica o dura,

vol che possa alcun nel tempio entrare,

Che non sia in arte a Ulisse e in valor pare.


E quando audace alcun di poco merto

Nelle mura infernal d'entrar si sforza,

Così punito vien che 'l tempo incerto

Vive dell'età sua sotto altra scorza.

Pur dianzi il fatto voi vedeste aperto,

Farmi vedeste alla natura forza;

Quel guerrier fu da voi pur dianzi visto

Perder la carne e far del legno acquisto.


Or, s'a voi cavallier pare esser tali,

Se vi il cor d'entrar per quella porta

Quando i contrasti havrete empi e mortali

Passati, e 'l gran terror ch'ella vi apporta,

Dalle lastre ricchissime fatali

Vedrete cosa uscir, ch'assai più importa,

Colosso e Tantalon ciascun estremo

Che vendetta vorran di Polifemo.


Ma ponghiam, che 'l feroce empio gigante

Resti da voi mirabilmente ucciso,

Chi vi difenderà dal gran Theante

Che vi moverà assalto all'improviso?

Dal capo è inviolabile alle piante,

Né può da ferro alcun restar conquiso,

Fatato ha come 'l padre il carnal panno

E brama vendicar d'Aiace il danno. –


Il ragionar, che la giovanetta

Pose in un gran pensier l'alme latine;

Il desio dell'onor ben ambi alletta

A tentar quelle imprese alte e divine,

Ma 'l timor del castigo che s'aspetta

A chi non giunge al desiato fine,

Che vien costretto in arbore a cangiarsi,

Fa ch'in dubbio si stan né san che farsi.


Ma l'astuto Silan, che dal periglio

Si cerca trar con arte e con ingegno,

Gira spesso ver lei cortese il ciglio

E le mostra d'amor questo e quel segno,

Che senza aver da lei grazia e consiglio

Giunger non spera al destinato segno,

Non si tien senza il suo favor bastante

D'una impresa trattar tanto importante.


Or, mentre sta sospeso, una donzella

Entra in quel loco e con gentil invito

La gentil donna, e i cavallieri appella,

Ch'era già posto in ordine il convito.

Si mosser dunque, e in una ricca e bella

Sala passar ch'ella gli mostra a dito,

Ch'eraricca e bella a maraviglia

Che di novo stupir l'ausonie ciglia.


Avea tre gran fenestre da levante

Con le colonne d'alabastro eletto,

Tre verso l'austro e 'l sol per altretante

Verso la sera illuminava il tetto.

L'ultima faccia il muro di diamante

Tre usci comportian d'avorio schietto.

Sono le soglie e i cardini d'argento,

E di vivi rubini il pavimento.


Il tetto è d'oro e l'architrave e tali

Son le cornici, e sopra gli usci e intorno

È un gran feston di perle orientali

Che sparge in fuori e d'altre gemme adorno

Fingea una vite poi, che naturali

Ha l'uve sì che fanno al vero scorno.

Tra l'architrave e la cornice, il fregio

Con un fogliame di smeraldi egregio.


Ma lasciam pur che la gran sala dia

Mirabile splendor di gemme e d'oro,

Anzi che pur tutta una gemma sia

Distinta in raro e non mortal lavoro,

Metto per nulla ogni altra leggiadria

Rispetto a quel che vince ogni tesoro,

Dico l'illustri, adamantine mura

Onde l'arte inganno alla natura.


In quella dura gemma forte e salda,

O pur che giunte in un siano infinite,

Com'in cera, ch'al foco si riscalda,

Mille belle figure eran scolpite.

Se fredda pietra son, se viva e calda

Carne, sarebbe ogni giudizio in lite,

Che l'artifizio v'ha sì poca parte

Che l'arte ascosa esser parea nell'arte.


Silano a prima giunta il senso adombra

E gli par che quel parla e questo spira,

Che 'l rilievo, il color, la linea e l'ombra

Mostra che 'l labro ride e l'occhio mira,

E quella illusion tanto l'ingombra

E 'l creder falso a tal sciocchezza il tira,

Che stimando esser vera e viva gente

Si mosse a salutarla riverente.


Ma come meglio del suo error si avvide

Che non gli fa al cortese atto risposta,

E che la giovinetta il guarda e ride

E fa che al duro intaglio il dito accosta,

E che prova la man le luci infide

Sì che la vana opinion si scosta,

Per la vergogna che nel cor lo prese

Di vermiglio color tutto s'accese.


E tornando in se stesso stupefatto

Sorridendo ammirò l'opra celeste,

Poi disse: – Assai mi trovo satisfatto

Di quel che già per via ci prometteste,

Quando quel cavallier fu per voi tratto

Fuor dell'umana sua natural veste,

Che seguendovi avrei veduto cose

Più del passato assai miracolose.


Vi prego ben che mi narriate un poco

Che vogliano importar queste scolture,

Se fur per adornar questo bel loco

Fatte le belle e nobili figure,

Oppur che siano vive in alcun loco

All'età nostra o sian nelle future,

Over che siano i naturali esempi

Delle persone de passati tempi. –


Disse la donna: – Assai vedete chiaro

Che queste istorie innanzi a noi descritte

Non fur né sono ancor, ma 'l tempo avaro

Le dee portar nell'ore in ciel prescritte;

E sian di tanto pregio illustre e raro,

Di tanto onor quelle persone invitte,

Che dalla fata a cui non furo occulte

Meritaro in diamante essere sculte.


Ma perché vi bisogna un lungo tempo

A dir le glorie al mondo ancor non sparte,

E l'alta istoria del futuro tempo

Ch'a Circe dimostrò la magic'arte,

Onde qui le ritrasse innanzi tempo

E me ne notizia a parte a parte,

Io vi voglio pregar che pria disniamo

Poi ch'egli è l'ora e i cibi innanzi abbiamo.


Di ragionarne poi lor diè speranza,

Onde accordarsi i duo guerrier latini,

Lasciando allor di rimirar la stanza

Per gustar di quei cibi almi e divini.

Intanto con gentil bella creanza

E con modesti e riverenti inchini,

Entrar due donne in lor servigio accinte

Con le maniche al cubito succinte.


L'una in man porta un ricco vaso aurato

Pien d'acqua rosa a chi lavar si deve,

E sulla manca spalla un delicato

Drappo che di candor vincea la neve,

L'altra un bacino d'or largo e cavato

Nel fondo che lo sparso umor riceve,

E alla donna e a' cavallieri strani

Incominciaro a dar l'acqua alle mani.


Poi che le man l'un dopò l'altro asperge

Di quello umor che spira odor soave,

E con quel bianco lin l'asciuga e terge

Che la donna a tal fin sull'omer have,

Circetta a' cavallieri il bel viso erge

Nel parlar dolce e nell' aspetto grave,

E lor concesse i lochi più sublimi,

E volle anco a seder che fusser primi.


Poi siede anch'ella e alle vivande grate

Pongono man con somma gioia immensa,

E le due damigelle accostumate

Volano intorno alla superba mensa.

Chi serve di coltel, chi nell'aurate

Coppe il nettareo vin porge e dispensa,

Quella di novo cibo i piatti ingombra,

Questa de' primi il lin sparecchia e sgombra.


Mentre a gustar quel desinar giocondo

Si sta quell'onorata compagnia,

Ne vien la terza giovane ch'al mondo

Non avea par di grazia e leggiadria,

E con la cetra e con un dir facondo

Mosse una soavissima armonia,

Talmente ch'era ai due guerrier aviso

Fruir tutto il ben del paradiso.


Ma mi riserbo un'altra volta a dire

Di questa coppia e della figlia vaga,

Perché Filardo ha di trovar desire

Floridor suo, ch'amor fere e impiaga;

Benché molto Filardo intorno mire

Non può la vista sua far lieta e paga,

Di su di giù per quella gente assai

L'andò cercando, e no 'l ritrovò mai.


E pien di alto stupor, pien di sospetto,

Poi ch'invano il caval gira e lo sguardo,

Rivolge verso il solito ricetto

Con poco speme il suo destrier gagliardo;

Dov'era giunto il mesto giovanetto

Molto pria che giugnesse il suo Filardo,

E d'estremo dolor chiuso nel core

Stava confuso e di se stesso fuore.


Come uom cui mentre il sonno i sensi opprime

Finti e vari pensier tratta e discorre,

E con sembianze rie nel petto imprime

Cosa che 'l suo cor odia e 'l gusto aborre,

Che l'imagine allor che 'l sonno imprime

Con ogni affetto rio che vi concorre

S'affisa, e in lui divien tanto possente

Che desto ancor più se ne risente.


Così di trarsi più non è bastante

Quella diva immagine del core,

Dove come in un saldo, aspro diamante,

Scolpita l'ha di sua man propria Amore.

Quella memoria ogni or salda e costante

Gli rinforza nel petto il vivo ardore,

Cresce la pena ogni or, cresce l'effetto

Nel semplicetto e ancor tenero petto.


Dal caldo e dall'affanno afflitto e stanco

Disarma il bello e scolorito volto,

E stende sopra un letto il suo bel fianco,

Che trova a tempo in quell'albergo occolto.

La fiamma che lo strugge al lato manco

Distilla il sangue intorno al cor raccolto,

Quel trasformato in acqua pura ascende

E fuor per gli occhi in molta copia scende.


Come vezzoso, indomito torello

Uso libero a gir tra verdi campi,

Se por si sente al collo ancor ribello

Il duro giogo avvien che d'ira avvampi,

E invan ne gema, e per sottrarsi a quello

S'aggiri assai, non però sì che scampi.

Così Floridor preso al novo laccio

Invan si lagna e cerca uscir d'impaccio.


Tacito un pezzo in lagrime e sospiri

Sfoga il suo grave, insolito tormento,

Poi vinto da suoi novi, aspri martiri,

Così accompagna al lagrimar l'accento:

Lasso, che disusati, alti desiri

Disturban la mia pace e 'l mio contento,

Che novo duol, che novo affanno è questo,

Onde si afflitto e travagliato resto?


Se questo dolce mal mi nasce e viene

Dal dolce ben da me pur dianzi scorto,

L'alma non usa a sentir tanto bene

Come non sciolse il subito conforto?

Se forse amor per darmi maggior pene

Non oprò allor ch'io non restassi morto,

Fu certo quel tiranno empio e crudele

Che seppe in un temprar l'ascentio e 'l mele


Miser m'accorgo ben che quel protervo

Rozzo fanciul m'ha colto al laccio e ignaro,

E qual fugace e temidetto cervo

Fuggo piagato indarno il colpo amaro.

Ma come ardirò mai chiamarmi servo

Di lui per un soggetto così raro

Che sceso in noi dallo stellato chiostro

È miracolo e onor del secol nostro.


Ah, per Dio, non sia alcun ch'oda, e ascolte

temerario ardir, vogliainsana,

Stian le mie doglie qui chiuse e sepolte,

Né le possa caper credenza umana.

Che quando abbia tentato invan più volte

Di far sì sciocca opinion lontana,

Fia questa spada alfin sola il rimedio

Che mi trarrà dal corduro assedio. –


Mentre tutto affannato e lagrimoso

Il bello innamorato Floridoro,

Così disfoga il suo pensier focoso,

E donar cerca al gran martir ristoro,

Il caro amico suo dubbio e geloso

Di lui ch'era il suo bene, il suo tesoro,

Sopragiungendo in fretta a suoi tormenti,

Gli interrompe le lagrime e i lamenti.


Il calpestio gli orecchi al garzon fiede,

Ond'ei si rizza e con astutia bella

Corre al destrier con frettoloso piede,

E d'acconciarli il fren mostra e la sella.

Ma indarno di celar s'ingegna e crede

Quella sua passion fiera e novella,

Che Filardo giungendo il trova molto

Dall'esser suo trasfigurato in volto.


A Floridor parea così gran fallo

L'aver levato il suo pensier tant'alto

Che mentre più che può celando vallo,

Fa il viso or d'ostro or di color di smalto,

E danna e fa colpevole il cavallo

Del suo partir, con l'amoroso assalto;

Ma l'accorto Filardo era ben certo

Ch'un danna egli ha, che vol tener coperto.


Stupisce il buon ditteo quando comprende

Che così Floridor celar si vole,

Che pur sempre ogni mal, che 'l cor gli offende

Ogni pensier manifestar li suole;

E di tanta pietà l'anima accende

Che più ch'egli non fa si lagna e duole,

E non si può tener di non gli dire:

Deh Floridor, per Dio non ti coprire.


Non ti coprir a me che ben m'accorgo

Che nova passion nel cor ti è nata,

Ma la cagion di ciò però non scorgo,

so perché la vuoi tener celata. –

A questo Floridor di pianto un gorgo

Distilla per la guancia delicata;

Lo conforta Filardo, e gli occhi belli

Col lin gli asciuga e pregal che favelli.


Con gran fatica il giovane e con arte

Alfin ne cava una risposta tale:

Deh, fuggi amico il mio consorzio, e in parte

Ne va lontan dal mio propinquo male!

Questo indegno figliuol del buon Silvarte

Lasciar destina il suo carcer mortale;

Per non esser d'alcun mai più veduto

Brama in sì verde età donarsi a Pluto.


Fuggi pria, che 'l duol forte o 'l ferro audace

Scioglia questo caduco e fragil velo,

E la cagion che turba ogni mia pace

Non ti doler, per Dio, s'ascondo e celo;

Perché l'alto pensier che m'arde e sface

È d'eccellenza tal ch'io no 'l rivelo;

Bastati di saper ch'esca di vita

Un'alma troppo audace e troppo ardita.


Non sospirar del mio stato dolente,

Che vol ragion ch'io sol m'afliga e pera,

Né mi duol di morir quando la mente

Morendo restar dee sciolta e sincera;

Ma sol mi aggrava il cor che sia possente

Morte a partir tanta amicizia vera,

E sia diviso il nostro amor interno

Ch'io mi credea ch'esser dovesse eterno. –


Con questo il dolor cresce e 'l cor gli stringe

Sì che raddoppia in lui l'angoscia e 'l pianto,

E di tanto martir l'amico cinge,

Che nel cor piange e duolsene altrettanto;

Ma la di lor pietade or mi constringe

Quindi sviarmi e poner fine al canto.

Come poi si scemasse il lor martire

Farò nell'altro a chi m'ascolta udire.




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