CANTO
NONO.
Argomento
Tanto
pregò Filardo il gentil figlio
Di
Silvarte, ch'ei gli apre il suo secreto.
Lo
conforta e gli dà speme e consiglio
Ei
sì, che torna anco alla giostra lieto.
Scioglie
Gracisa; e in sempiterno esiglio
Manda
il trace un guerrier poco discreto,
Vanno
insieme all'oracolo e del divo
Mirano
il tempio sontuoso e divo.
Quai
animi più lieti e più felici
Di
duo ch'uniti sian, vissero in terra?
Quai
contenti maggior, quai benefici
Ad
uomo nato il ciel largo disserra?
Sol
la cara union de i veri amici,
Né
vince tempo, né fortuna atterra.
Robba
quei ponno e libertà levare,
Ma
'l tesoro del cor non pon toccare.
O
beati color, cui diero in sorte
Tanta
felicità le stelle al mondo,
Che
se ben corre in due varia la sorte
L'amor
fa d'ambi il cor mesto o giocondo;
Né
cosa è che tormento all'uno apporte
Che
non faccia doler di cor profondo
L'amico,
e se nell'un piacer si trova,
L'altro
il medesmo ben fruisce e prova.
Trovasi
quel da grave affanno oppresso
Aver
il cor, come talora accade,
E
'l caro amico suo per amor d'esso
La
vita espon non pur la facultade,
E
la metà del mal gl'invola spesso
Con
l'aiuto che può, con la pietade.
O
che dolce sfogar l'alma dolente
Con
chi del suo dolor cordoglio sente!
Quell'altro
di tal gaudio ha colmo il petto
Che
ne morria se nol dicesse altrui,
E
ritrovando un suo compagno stretto
Gli
lo discopre e ne fa parte a lui;
E
con questo raddoppia il suo diletto,
Che
'l ben ch'in un sentia si gode in dui,
E
fa d'alto piacer novo guadagno
Provando
il ben nel cor del suo compagno.
Ma
che dich'io, sì l'amicizia stende
Il
suo valor ch'in morte anco il mantiene,
Poi
che l'uom tutto in sé non si comprende
Che
la metà di lui l'amico tiene,
E
in cambio a lui mezzo se stesso rende;
Onde
se l'un di loro a morte viene,
Mezzo
nel vivo il morto vive ancora
E
mezzo il vivo in lui convien che mora.
D'un
amor sì possente e sì gagliardo,
L'un
verso l'altro d'animo sì pio,
Ben
in quel tempo esser dovea Filardo
E
Floridor di cui seguir desio.
Il
damigel, ch'avea levato il guardo
Troppo
altamente e 'l giovenil desio,
Tanta
vergogna avea che 'l suo martire
Non
pur ad'altri, a sé brama coprire.
Con
tutto questo al fin chiuso nol tenne
(Com'udirete)
al suo compagno caro,
Qual
vi narrai, ch'a consolar lo venne
Con
gran pietà del suo cordoglio amaro,
E
la metà del suo dolor sostenne
(Benché
di fuor nol dimostrasse chiaro).
Dissi
di lui che stava addolorato
Per
la fera risposta che gli ha dato.
Tutto
dolente alla risposta dura
Che
dica per gran doglia di morire,
Lo
supplica Filardo e lo scongiura
Ch'ormai
questo suo mal voglia scoprire.
–
Dunque, li dice, il
nostro amor non dura
Almeno
insino all'ultimo martire?
Tu
dici che finir tua morte il deve,
E
parmi ch'ancor vivo il vuoi far breve.
Perché
non scopri a me qual caso strano
Novellamente
al tuo pensiero occorre?
Perché
il giudizio tuo già saggio e sano
Stolto
ora e infermo in tal sciocchezza incorre
Che
lasciar brami il viver lieto e umano,
E
te medesmo a una vil morte esporre?
Uccider
dei chi te d'uccider brama,
Non
a te stesso tor l'alma e la fama.
Se
forse alcun timor t'ingombra il petto
Che
sta scoperto al re l'inganno usato,
Che
t'abbia scorto, o gli sia stato detto
Che
contra il suo voler tu ti sia armato,
Spoglia
pur il cor tuo d'ogni sospetto
E
versa sopra me tutto il peccato,
Ch'io
l'error fei, la colpa in te s'annulla,
E
puoi giurar, che ne sapevi nulla.
S'anco
d'entrar nel marzial invito
Non
ti dà il cor fra tanti cavallieri,
Che
ti spaventi il numero infinito
Sì
che della vittoria ti disperi,
Di
partir quinci è facile il partito;
Sian
del finto pensier gli effetti veri,
Ma
non credo, che 'l cor t'affligga questo
Che
non l'avresti pria tanto richiesto.
Deh,
se per altra causa è sì possente,
L'affanno
in cui di fresco entrato sei,
Che
sì t'ingombra l'animo e la mente
Che
t'occupa l'onor ch'acquistar dei,
Perché
non apri e sfoghi il cor dolente
A
me? che tu sai ben ch'io nol direi,
E
se potrò e saprò donarti aita
Ecco
pronta la mia per la tua vita.
Perché
non scopri il tuo novo desio
Alla
nostra sincera antica fede?
Già
che t'avrei spiegato il pensier mio
Se
me premesse il duol che 'l tuo cor fiede;
Non
si conserva in guisa tal (cred'io)
La
vera legge d'amicizia in piede,
Deve
un amico all'altro aprir il petto,
E
mostrargli il suo cor senza sospetto.
Sai
pur Floridor mio ch'apprezzo e amo
Tutto
ciò ch'egualmente ami e apprezzi,
E
quel solo accarezzo, adoro e bramo,
Ch'io
so che brami, adori e accarezzi;
E
per contrario a morte odio e difamo
Ciò,
che difami a morte, odii e disprezzi;
Del
tuo ben rido e del tuo mal mi doglio,
E
in ogni caso accompagnar ti voglio. –
Così
disse egli, e al giovenetto amante
Con
sì belle ragion combatte il petto,
Ch'ormai
non è più di negar bastante
E
forza è che gli esprima il suo concetto.
Il
modesto fanciul, come importante
Delitto
fosse il suo amoroso affetto,
Tingendo
di rossor l'umide gote,
Queste
aperse al cor suo dolenti note:
–
Piacesse a Dio che
mai fussi in Atene,
Venendo
il padre mio, venuto seco,
O
se pur io dovea lasciar Micene
Fuss'io
restato pria per mio ben cieco,
Che
non avrei veduto (ond'ho tal pene)
L'alto
splendor del regio sangue greco,
Né
per trovarmi in sì misera sorte
Cercherei
darmi or di mia man la morte.
La
singolar beltà divina in terra
Dell'eccelsa
figliuola di Cleardo
Così
possente ha mosso al mio cor guerra,
Ch'esprimer
non potrei com'arsi e ardo
Da
che per pormi il mio destin sotterra
Mi
fé drizzar nel suo gran lume il guardo. –
Né
più seguì, che 'l duol l'occupò tanto
Che
mancar le parole e crebbe il pianto.
Resta
Filardo attonito e scontento
Di
lui non meno al fero annunzio ch'ode,
Quanto
sa che né ingegno né ardimento
Può
al gran desio giovar che 'l cor gli rode.
Né
dee nel suo saper far fondamento
Che
ivi non val né finzion né frode,
E
quanto spera men donarli aita
Tanto
dubita più della sua vita.
Pensa
e discorre or questa cosa or quella
E
non sì tosto a Floridor risponde,
E
mentre sta sospeso e non favella
Floridor
versa in maggior copia l'onde;
Che
vede ben che quest'empia novella
Il
fido amico suo turba e confonde.
Ma
l'accorto ditteo con pronto avviso
Tosto
cangiar gli fé quel pianto in riso.
Come
ch'avesse più di pianger voglia,
Sforzò
'l suo cor per non gli dar più pena,
E
del novo desir, ch'in lui germoglia
Con
fronte se ne rise alma e serena.
Poi
disse: – Dunque Amor regge tua voglia?
Novello
amor tua libertà raffrena?
Che
solevi di me prenderti gioco,
Quando
narrava il mio amoroso foco.
Non
ti turbar, ch'inusitata e nova
Ti
è questa piaga a me solita e antica,
Che
mille volte io n'ho fatto la prova
E
so quanto mal fa chi se n'intrica;
Né
però in tanti affanni il mio cor trova
Così
la sorte al suo desir nimica,
Che,
vinto dalla pena e dal martire,
Per
disperazion cerchi morire.
Io
so ben Floridor quanto ti preme
Su
due cose impossibili il discorso,
Che
dell'una e dell'altra hai poca speme
E
però finir brami il vital corso.
La
prima è di scacciar l'alte e supreme
Voglie
e di porre al novo amor il morso,
L'altra
è (se pur ti resti in tal tormento)
Di
conseguirne il desiato intento.
Se
ben amor non vol udir ragione
Vuo'
che le ragion mie con pace ascolti,
Scaccia
un poco dal cor la passione
E
comincia a pensar dove ti volti.
Vedrai
c'hai sciocca e vana opinione,
C'hai
fallaci pensier nel petto accolti,
L'amar
senza speranza è cosa vana,
E
ben sai quanto ell'è da te lontana.
Tenta
un poco il tuo cor poi ch'anco il piede
Non
v'ha fermato ben l'empia radice,
Che
quando nel principio si provede
Ogni
stato schivar puossi infelice;
E
poi se amore imperioso siede,
Né
discacciarlo alla tua mente lice,
Tenta
ogni via per arrivarne al segno
Prima
che di morir facci disegno.
Tu
se' il più bello, il più leggiadro amante
Che
si possa trovar dall'Indo al Moro,
Più
valoroso spirto e più prestante
Non
si può immaginar di Floridoro.
Oltra
le grazie in te celesti e sante
Tu
sei ricco di gemme e di tesoro,
E
se ben non possedi imperio o regno
Almen
ne sei quanto alcun altro degno.
La
tua florida età, la tua bellezza,
La
grazia, la virtù, l'ardir, e l'arte,
La
cortesia, il valor, la gentilezza,
E
ogni altra degna tua lodata parte,
Potrà
forse in colei che 'l tuo cor prezza,
Sì
ch'otterrai della sua grazia parte;
Non
parlar di morir, Floridor, senza
Far
della tua fortuna esperienza.
Servirla
ti convien celatamente
Che
troppo un alto amor pericol porta,
Ma
scopri il tuo valor sì chiaramente
Che
resti ogni altra gloria occulta e morta,
E
fa che 'l grido tuo l'orecchie tente
Dell'inclita
e real fanciulla accorta,
Fa
che le sia palese il tuo valore
Ma
non il nome tuo degno d'onore.
Forse
che la tua fama eccelsa e diva,
Pervenendo
all'orecchie illustri e altere,
Desterà
in lei qualche scintilla viva
Di
desio di conoscerti e vedere.
Credimi,
Floridor, che l'uomo arriva
Sol
per tai strade al fin del suo volere,
Sol
per le vie della virtù s'ottiene
La
felicità somma, il sommo bene.
Dunque
per non mancar dal proprio canto
Di
far quanto sei debito a te stesso,
Asciuga
da quest'occhi il tristo pianto
E
comincia a sperar lieto successo.
E
ritorniam nel campo a mostrar quanto
Può
nel tuo cor l'alto pensiero impresso,
Escano
oggi da te prodezze tante
Che
ti possa sperar felice amante. –
Queste,
e altre ragion di più valore
Disse
Filardo al giovane dolente,
Che
gli van consolando il mesto core
E
racquetando la turbata mente.
Mancando
a poco a poco il suo dolore,
È
il sospirar più raro e meno ardente,
Sì
che preso vigor leva la faccia,
Rasciuga
gli occhi e 'l caro amico abbraccia.
Qual
gli fesse risposta e di che sorte
Per
l'obligazion che gli ha infinita
Ben
si può giudicar, quando da morte
Per
lui conosce aver salva la vita.
Chiuse
ai sospiri e al lagrimar le porte,
La
guancia torna bella e colorita,
Gli
cresce il cor, gli torna il primo affetto,
Che
di gloria acquistar gli accendea il petto.
Come
fior languidetto, ch'abbia il crine
Tenuto
chin sotto una lunga pioggia
All'apparir
del sol le pellegrine
Foglie
rasciuga e 'l ciel mirando poggia,
Così
fer le bellezze alme e divine
Di
Floridoro o in simigliante foggia,
Poi
che 'l piover cessò de gli occhi e insieme
Godete
i rai della novella speme.
Quella
dolce speranza ebbe tal forza
Nel
giovenil pensier d'amor acceso
Che
nel petto il vigor cresce e rinforza
E
'l dolce viso ai primi onori è reso.
Già
non vol più tardar, ma altier si sforza
Di
racquistar l'indarno tempo speso,
Altier
lo rende amor, bello e gagliardo
Più
che veduto ancor l'abbia Filardo.
Rimontaro
a caval contenti e lieti
Ma
più Filardo in faccia che nel core
(Ch'era
un de più prudenti e più discreti
Giovani
e temea il fin di questo amore).
E
ritornaro taciti e secreti
Alla
gran moltitudine, al romore,
Dove
trovar che del collegio strano
Tre
cavallier caduti erano al piano.
Il
prancipe Aliforte era il guerriero
Che
vinti i cavallier barbari avea.
L'un
possedea di Persia il grande impero,
L'altro
di Siria il popolo reggea;
Cadde
per terzo l'african Riviero.
Il
primo nello scudo un sol tenea,
Un
falcon il secondo, e per impresa
Rivier
portava una facella accesa.
Giunto
frattanto alla superba lista
Col
suo Filardo il giovene possente,
Vario
pensier questo e quel petto acquista,
E
comincia a mirar diversamente
Che
Floridoro alla gioconda vista
Di
Celsidea tutto mancar si sente,
E
mentre il buon ditteo la giostra mira,
Egli
sul palco in lei le luci gira.
Ma
'l compagno al suo onor ministro fido
Dal
dolce oggetto suo l'invola e svia,
Tal
che pur viene ad occupar quel nido
Che
'l re di Creta accomodar devria.
L'ultimo
dedicato al re del lido
Venereo
serve alla sua compagnia,
Perché
'l re non avea posto in lor vece
Altri
per farne il numero di diece.
Se
'l suo nipote si trovasse in corte,
Parlo
di Polinide il gran Sicano,
E
'l buon Griante anco in vecchiezza forte
Gli
faria in vece lor calar al piano.
Ma
'l ritornar all'un vieta la sorte,
L'altro
gli bisognò mandar lontano
Con
molta gente alcuni giorni inante
In
aiuto e in favor di Risamante.
Loda
il gran re, lodan l'altere squadre
De
greci eroi la bella coppia ardita,
E
Celsidea con la regina madre
Le
dà loda non men rara e infinita.
Le
belle spoglie candide e leggiadre
Ogni
occhio guarda e ogni mano addita,
E
di saper chi siano i cavallieri
Braman
non men de' Greci i forestieri.
La
bella giostra e chi n'ottenne il vanto
Altrove
io dirò poi, ch'or me ne svia
Risardo
che va al tempio illustre e santo
Con
la sua bella Odoria in compagnia
E
con quei due che le van sempre a canto,
Colmi
nel cor d'invidia e gelosia
Poi
che fur vinti da Risardo egregio,
Onde
troppo la donna il tolse in pregio.
Giunsero
una mattina ad una croce
Che
'l sentiero in due strade dipartiva.
E
ecco un grido, una dolente voce
Dal
destro lato al loro udito arriva.
Punse
Filardo il suo destrier veloce
Ver
quella parte onde il romor veniva,
E
la donzella e i due guerrier non manco
Spronaro
inanzi a lor destrieri il fianco.
Né
molto andar, che scorser di lontano
Una
donzella a un grosso pin legata,
La
qual piangendo si lamenta invano
Tutta
rossa nel viso e scapigliata.
Risardo
che gentile era e umano
Corse
ver la donzella addolorata,
E
smontato la mano al tronco stese,
Ma
in questo un cavallier lo sopraprese.
Un
cavallier che stava ivi nascoso
Tra
verdi piante all'arbore vicino,
E
scoprendosi altero e disdegnoso,
–
Non scioglier (gli
gridò) costei dal pino,
Non
esser, cavallier, ver lei pietoso,
Lasciala
stare e torna al tuo camino,
Perché
potresti a lei sciogliendo il laccio,
Te
poner meco in più gravoso impaccio. –
E
tuttavia dicendo e minacciando
Perché
Risardo al suo gridar non resta,
Cava
del fodro il suo tagliente brando
E
gli segna un gran colpo in sulla testa.
Risardo,
che lo vede fulminando
Calar,
lascia la donna afflitta e mesta,
E
spicca un salto al fin ch'egli nol giugna,
Lo
scudo imbraccia e anch'ei la spada impugna.
Senza
dir altro la battaglia cruda
Cominciano
e ai gran colpi che si danno
Or
quinci or quindi in fin sopra la nuda
Carne
più volte a ritrovar si vanno.
Già
per timore Odoria or trema or suda
Che
ne riceva il suo Risardo danno.
Intanto
un di quei due discioglie e sgroppa
La
damigella e se la pone in groppa.
Tremava
ancor la donna come foglia
Per
la paura del guerrier villano,
Ch'un'altra
volta ancor se la ritoglia,
Per
tormentarla, ai cavallier di mano.
Ma
il possente Risardo, c'ha gran voglia
Di
castigar quell'uom crudo e insano,
A
tal partito già l'avea condotto
Che
cominciava a rimanergli sotto.
Gli
avea tolto lo scudo e l'elmo aperto
In
quattro parti e rotto piastra e maglia;
Tutto
del proprio sangue era coperto,
Così
il guerrier lo fere e lo travaglia;
Tal
che 'l meschin di sua arroganza in merto
Perdé
la vita insieme e la battaglia.
Miser,
che non sapendo si condusse
Contra
un de' buon guerrier ch'al mondo fusse.
Risardo
quando scorse il cavalliero
Della
sua età condotto al fin amaro,
Rimise
il brando e rimontò il destriero,
E
così al lor viaggio ritornaro.
Odoria,
poi ch'a cavalcar si diero,
Pregò
la donna a farle espresso e chiaro
Qual
sdegno seco il guerrier morto avea,
Perché
a quel pin legata la tenea.
Disse
la donna: – Io mi venia mandata
Dalla
regina delle genti armene,
Che
dalla sua sorella è assediata
E
sola una città per lei si tiene,
Dove
con pochi misera è salvata,
Benché
di ripararsi ha poca spene
Dalla
sorella, che con genti tante
L'assale
ogni or, che detta è Risamante.
La
mia regina oppressa da ogni lato
Secretamente
mi fece uscir fuore,
Perch'io
trovi alcun re benigno e grato
O
cavallier che venga in suo favore
E
la riponga nel primier suo stato,
Né
vaglia a Risamante il suo valore;
Così
per lei servir la strada presi
E
vidi e camminai molti paesi.
Ma
non ho ancora un cavallier potuto
Trovar,
né re ch'a lei ne voglia gire.
Quei
che le han dato in sul principio aiuto,
Di
perder sazi, or niegan di venire;
Altri
d'aiutar lei fanno rifiuto
Perché
di Risamante aman l'ardire,
Amano
il suo valor, l'audacia e l'arte,
E
son con l'arme lor dalla sua parte.
Ond'io,
poi che più giorni indarno errai,
Questa
mattina a lei facea ritorno
Quando
per mia disgrazia m'incontrai
Nel
cavallier, ch'oggi fu tolto al giorno.
E
che venisse meco lo pregai
Per
caminar secura d'ogni scorno;
Il
cavallier fingendo cortesia
Accettò
il prego; e cavalcammo via.
Quando
giungemmo ove la via si parte
In
due sentier, ch'a dietro abbiam lasciato,
Rivolge
il freno ei dalla destra parte
E
non segue il camin ch'avea pigliato;
Io
lassa, che lo veggio ir in disparte
Per
altra via di quel che l'ho avvisato
(Del
viaggio d'Armenia a pieno instrutta),
Smarrita
resto e mi conturbo tutta.
Tosto
m'afferra il cor con gran ragione
Timor
ch'ei mover pensi al mio onor guerra,
Pur,
fingendo pensarne altra cagione,
Gli
dico che la strada ei falla e erra,
E
che se non vol esser mio campione,
Se
non vuol venir meco alla mia terra,
In
libertade almen mi lasci gire
(Come
era) sola, e 'l mio camin seguire.
Ma
quando veggio che 'l pregar non vale,
Che
mi tien per le redini e va inanti,
Per
lo sdegno e la doglia che m'assale
Levo
dolente al ciel le stride e i pianti;
Lo
bestemmio e gli dico tanto male,
Son
tante ingiurie e vilipendi tanti,
Ch'ei
vinto da gran sdegno che lo prende
Con
furia del destrier mi getta e stende.
Poi
smonta anch'egli e per lo crin mi piglia
E
tutto il viso mi percuote e straccia;
E
mentre egli mi batte e mi scapiglia,
Non
può ottener che la mia lingua taccia.
Alfin
tra se medesmo si consiglia
Di
legarmi a quel tronco ambe le braccia,
E
non so donde tolta una catena,
Tutta
a quel pin mi lega e m'incatena.
Di
flagellarmi credo avea pensiero
Ancora
un pezzo, e poi così lasciarmi,
Quando
sentì spronar più d'un destriero
Da
voi ch'a tempo fuste a liberarmi.
Ond'ei
tosto levossi del sentiero
Per
ispiar s'alcun venisse a trarmi
Dalle
sue man (mi penso), e manifesto
Esser
vi può da che giungeste il resto.
Così
disse la donna, e poi richiese
I
cavallier con supplice preghiera
Che
volessero andar seco in difese
Della
regina sua perché non pera;
Che
per l'alto valor ch'in un comprese,
Di
tutti insieme poi tanto ne spera
Che
se vanno a colei ch'ella lor dice,
Rimanerà
la vinta vincitrice.
I
cavallier risposero a Gracisa
(Così
la Damigella era nomata)
Ch'essi
anderian sì come ella divisa
Ad
aiutar la terra assediata,
Ma
che volean gir prima ad ogni guisa
In
Delfo, ove la strada avean pigliata,
E
come stati al sacro tempio sieno,
Anderan
poi con lei nel regno armeno.
La
donna gli ringrazia sommamente,
E
d'ir anch'ella al tempio si destina
Per
intender dal dio biondo e lucente
Ciò
ch'esser dee dell'alma sua regina.
Così
d'accordo spronano egualmente
I
lor destrieri e tanto ognun camina,
Ch'in
breve furo in Delfo e al tempio santo
Giunser,
da lor desiderato tanto.
Era
l'egregia incomparabil mole
Composta
di celeste architettura,
Ben
degno albergo al gran nume del sole
Di
ricchezza, d'intaglio e di struttura.
Tutto
d'oro e di pietre elette e sole
Il
tetto splende e le superbe mura,
Il
pavimento, le colonne e il fregio
Son
tutte gemme d'incredibil pregio.
Appaion
le fenestre altere e sante
Fra
le colonne lor d'inclita stima,
Che
sembran di finissimo diamante
Tutte
d'un pezzo esser dal piè alla cima.
Le
basi ove si posan tutte quante
Della
seconda serie e della prima
Sono
intagliate con sottil lavoro
Di
figure e fogliami espressi in oro.
Sporgonsi
in fuora i ricchi capitelli,
Sopra
cui di rilievo assisi starsi
Veggonsi
più fanciulli ignudi e belli,
Che
paion vivamente ivi posarsi.
Questi
un feston di smalti e di gioielli
Da
gran giudizio accomodati e sparsi,
Con
mani sostenean per ogni lato
Che
cingea l'arco del balcon formato.
Sopra
l'ordine primo era il secondo
Delle
colonne di artifizio eguali,
E
'l terzo sopra quel non men giocondo,
Non
men ricco di gemme orientali.
Gli
è ver ch'un fregio bianco e rubicondo
Di
perle, di rubin, di gioie tali,
Tra
l'un ordine e l'altro era distinto,
Tutto
di lauree fronde agli orli cinto.
La
splendida muraglia intorno intorno
Di
vivaci carbonchi fiammeggiava,
Che
la notte non men che 'l chiaro giorno
L'aria
tutta e la terra illuminava.
Di
sopra esser coperta d'ogni intorno
La
macchina d'argento si mostrava;
Le
porte eran d'avorio e d'or conteste,
Con
figure d'intaglio almo e celeste.
Scolpito
appar con somma industria quivi
Il
biondo dio ch'al fier Piton s'oppone,
E
leva al mondo i morsi empi e nocivi
Del
venenoso, orribile dragone.
Sembrano
il cauto arciero e 'l serpe vivi;
E
in sì bell'atto sta contra Pitone
Apollo,
e opra l'arco tanto bene,
Ch'altro
alla verità non si appartiene.
Risardo
e i suoi compagni stupefatti
Restano
un pezzo a contemplar di fuore
Quella
fabrica illustre e quei ritratti
E
lodan l'architetto e lo scultore,
Quell'opre
e quei lavori sì ben fatti
Con
tante gemme di vario colore.
E
poi che 'l tutto assai di fuor miraro,
Già
scesi dei destrier nel tempio entraro.
Dentro
il sacro, famoso, ampio edificio
Era
non men che fuor lucido e bello,
E
non men di ricchezza e d'artificio,
D'egregie
pietre e d'opre di scarpello;
E
di figure c'han diverso officio
Nel
muro espresse in questo lato e in quello;
Per
tutto ove fenestra non appare
Splendono
statue sontuose e rare.
Vedeansi
intorno il transparente muro
I
mesi tutti figurati in oro,
Sei
di qua, sei di là scolpiti furo,
Di
color vari e vari di lavoro.
Dal
destro lato un uom forte e sicuro
Espresso
appar, che primo era di loro,
D'elmo,
di scudo e d'ogni spoglia ornato,
Come
guerriero all'arme apparecchiato.
Perché
nel fin del verno alla battaglia
Esce
il soldato pratico e esperto,
Disegna
il Marzo l'uom di forte maglia
E
di piastra finissima coperto.
Propinquo
a questo ingombra la muraglia
Un
contadin che 'l capo avea scoperto,
Con
rabbuffata barba e crin negletto
Parea
un pastor all'abito e all'aspetto.
A
piedi suoi, ch'ignudi egli mostrava
Sino
al ginocchio, una capra giacea,
Che
con grave dolor languendo stava
E
due capretti partorir parea.
Una
sampogna il pastorel sonava,
E
per questa figura s'intendea
L'April,
quando il pastor lieto e giocondo
Conduce
al pasco il suo gregge fecondo.
Seguiva
appresso un giovane d'acerba
Età
nel viso fresco e colorito;
Tutta
è di fiori e d'or vaga e superba
La
spoglia, ond'era infino al piè vestito.
Parea
che fosse in mezzo un prato d'erba
Di
mille fior da zefiro arricchito;
Spira
dal suo bel crin soavi odori
Fresca
ghirlanda di leggiadri fiori.
D'erbe
odorate, di rose e di gigli,
Di
viole e d'acanti ha le man piene;
Gli
aurati panni suoi bianchi e vermigli
Lieve
aura intorno sollevando viene.
Che
'l leggiadro garzon si rassomigli
Al
maggio par con cui ben si conviene;
Tant'erbe,
tanti fior, tanti ornamenti
Mostran
del maggio i dì vaghi; e ridenti.
Un
campo di bellissima verdura
Era
a costui per ordine vicino,
In
mezzo a cui si scopre la figura
D'un
faticoso e rozzo contadino;
Gli
finge intorno il capo la scoltura
Ghirlanda,
non di rose, ma di lino.
Ha
un dardo al fianco e tien la falce adonca
Con
ambe mani e l'erba mira e tronca.
Dir
volea il Giugno allor che nelle apriche
Campagne
il fien maturo il villan siega.
Un'altro
dietro lui le bionde spiche
Taglia
del grano e 'l dosso incurva e piega,
E
con queste importanti sue fatiche
Con
tali effetti essere il Luglio spiega.
Dal
sol li fa un cappello in testa scudo,
E
fuor che 'l fianco in ogni parte è nudo.
L'ultima
effigie ch'a man dritta appare
Era
un'altro uom pur nudo come nacque.
Il
fianco sol se gli vedea celare
D'un
pannolin, come al maestro piacque.
Dinanzi
un bagno di fresche onde chiare
Parea
lavarsi in quelle limpide acque;
Con
la destra una tazza al labbro tiene,
Con
la sinistra il pannolin sostiene.
Costui,
che sitibondo il fresco sorso
Ingozzar
sembra e bagnar piedi e braccia,
L'Agosto
par, quando con tal soccorso
L'ardor
canicolar l'uom tempra e scaccia.
L'altra
metà dell'anno, ove il suo corso
Séguita
il sol, stava dall'altra faccia.
Ma
saria troppo se passar lasciassi
Altri
sei mesi pria che mi posassi.
|