Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText
Modesta Pozzo de' Zorzi (alias Moderata Fonte)
Tredici canti del Floridoro

IntraText CT - Lettura del testo

  • CANTO DECIMO
Precedente - Successivo

Clicca qui per nascondere i link alle concordanze

CANTO DECIMO



Argomento


Nel loco sacro e pio dei chiari ingegni

Non nati ancor, vede Risardo il fiore.

Apollo risposta ai voti degni;

Floridor della giostra è vincitore.

Finge venir da più lontani regni

Con Floridor Filardo. Arde d'amore

Celsidea per lo figlio di Silvarte,

Gli la gemma e quei vanno in disparte.



Deh, perch'a nostra età non si ritrova

Un oracolo pio, santo e verace,

Che di quel che ci nuoce e che ci giova

Far potesse il pensier nostro capace?

So ben che si vedria spesso a tal prova

Più d'una guerra convertire in pace,

E mille danni l'uom, mille ruine

Schivar potria, s'indovinasse il fine.



O quanti matrimoni son seguiti

E seguon tuttavia per non sapere,

Che non sariano in fatto riusciti

Quando il fin si potesse antivedere.

Quanti da propri suoi sono traditi

Nell'onor, nella vita e nell'avere,

Che potrebbon guardandosi da loro

L'onor salvarsi e la persona e l'oro.



Più d'un sta nei peccati e non s'emenda

Con speranza di viver lungamente,

Che forse ne faria debita emenda

Se si vedesse il fin quasi presente;

Ma non avendo onde l'aviso prenda

Alla cieca nel mal vive la gente,

E s'uom pur trova uom che 'l suo mal prevede

Per esser uom com'egli a lui non crede.



Benché in quel tempo fede al falso desse

Il mondo e a un'idol van rendesse onore,

Pur si crede ch'ei spesso il ver dicesse

Per mantener ogn'alma in quello errore.

A cui la gente poi quel tempio eresse

Di cui sentiste il magisterio fuore;

E vi lasciai, che l'una faccia avea

Descritta dentro e all'altra io mi volgea.



Prima il celeste artefice vi spiana

Nude le gambe un uom rozzo e villano,

A piè de cui risorge una fontana

Di chiaro vin, che gìa rigando il piano.

La chioma sulle spalle ha stesa e piana

E una vite ha nella manca mano,

Con l'altra i graspi in gran copia cogliea

Dell'vua e con la bocca gli premea.



Come il vendemiator co' piedi suole

L'uva calcar per farne uscir il mosto,

Con la bocca costui, con le man sole

Era a diversi offici atto e disposto.

Dunque con tal effetto inferir vuole

Il mese successor del caldo agosto;

Ed è ben con ragion ch'ei si rassembre

Al fruttifero mese di Settembre.



L'imagine seconda è un giovenetto

Ch'ancor non mostra il primo fior nel volto,

Velato ha 'l capo e candido il farsetto,

Polito indosso e accommodato molto.

E' ver ch'egli era infin a' fianchi stretto

E 'l resto largo al vento aperto e sciolto,

Le gambe e i piedi sol gli avea lasciati

A studio lo scultor nudi e spogliati.



Costui con molte gabbie d'uccellini

Parea che mille frasche in mezzo un prato

Piantate avesse, e d'aggroppati lini

Tutto quel campo fosse circondato,

E che gli uccelli aerei e pellegrini

Non potesser veder l'inganno usato,

E parean quei di gabbia ascosi e lieti

Invitar gli altri a dar giù nelle reti.



L'ascoso uccellator lungo il pratello

Alla sua preda intento si vedea,

E nel pigliar che fea più d'un augello

Di lor semplicità rider parea.

Questo ch'insidia il passero e 'l fanello,

L'Ottobre sol significar volea,

Quando gli uccelli insieme a schiera vanno

Verso il paese, ov'è più caldo l'anno.



Un rustico arator si vedea poi

Oprarsi anch'ei nel nobile teatro,

E stimolar gli travagliati buoi

Che dietro si traevano l'aratro.

Eran tutti stracciati i panni suoi,

Il color del suo viso è bruno e datro,

Sulla chioma ch'avea distesa e corta

Per lo vento un cappel di lana porta.



Con la man destra l'arator tenia

L'aratro, che tiravano quei due

Lassi animali, e nel terren scolpia

Con la sinistra le fatiche sue.

Il sangue che dalle punture uscia

Dell'uno e l'altro affaticato bue,

Così leggiadramente era scolpito

Che da vivi animai pareva uscito.



Del mese delle Pliade indizio dava

La figura ch'io dico, e a suoi confini

Era un che miglior abito portava,

Più bianco in faccia e con più lunghi crini.

La sua polita barba non mostrava

Un pel che più degli altri s'alzi o chini,

Nella man manca un cesto avea di grano

Di cui spargendo gìa l'arato piano.



Era il Decembre quel, la cui stagione,

Che si semini il gran nel campo chiede.

Appresso un robustissimo garzone

D'aspetto fiero e d'animo si vede;

Che va alla caccia il suo ritratto espone,

Che i fieri veltri inanima alle prede,

Ch'alle timide lepri il laccio tende

E qual coi cani e qual con reti prende.



Il giovane mostrava atto e robusto

La ben composta barba, el crin ornato,

Ma le gambe cingea, le braccia e 'l busto

D'un vestir molto stretto e rassettato;

I cani, c'han di lepri avido il gusto,

Seco scherzando andavangli da lato,

Ei gli lusinga e liscia a lor la testa,

Essi a lui con la coda fanno festa.



Con Gennaio tenea molta sembianza

Questo ardito garzon, quando uscir fuore

Con reti e cani suol, com'ha in usanza

Per le nevose strade il cacciatore.

Per ultimo ingombrar quivi la stanza

Si vede un vecchiarel carco di orrore,

Che presso ad un gran foco siede involto

Di folte pelli e tutto in se raccolto.



I giorni di Febbraio aspri e gelati

Mostra il canuto vecchiarel tremante,

Che sta coi membri involti e arricciati,

Con le man stese a quel gran foco inante.

Vedevansi i disegni variati

Variar le figure tutte quante,

E come allo scultor fu ben aviso

Un color ha la chioma, un altro il viso.



Con sì bell'arte era ciascun espresso

Che sembra vivo e che si mova e spiri,

In modo fra le gemme era ben messo

L'oro cinto da perle e da zafiri.

Non avean le figure un atto stesso,

Ma con diversi accomodati giri

Facean l'officio a lor tempi opportuno,

Con un gesto che proprio era a ciascuno.



Non mancan sopra questi i propri segni,

Ariete, Toro, Gemini e i seguenti.

Par poi ch'ogni pianeta alberghi e regni

Sopra le case lor convenienti;

E tutti quei ritratti e quei disegni

Che sono al chiaro nume appartenenti,

I rilievi, gl'impressi, i pieni e i fori

Cinti e divisi son da verdi allori.



Il pavimento è tutto lastricato

Di quadri d'alabastro e di coralli,

Sorge l'altar nel mezzo almo e sacrato

Di marmo lustro assai più che cristallo,

Sopra cui Febo in piede figurato

Tutto d'un pezzo è del più bel metallo;

D'oro massiccio in mezzo all'altar sacro

Splende il suo divo egregio simulacro.



Son l'auree chiome sue splendide e chiare

Di verdeggiante alloro incoronate.

Nella destra la cetra e 'l plettro appare,

Nell'altra l'arco e le saette aurate.

Chiuso in una cappella è il sacro altare

Con colonne di porfido intagliate,

Fra colonna e colonna in piedi stanno

L'ore pronte a servir l'autor dell'anno.



I sacerdoti con dorata stola

Van per lo tempio taciturni e cheti;

Il tempio alato or quinci, or quindi vola

Che scopre a lungo andar tutti i secreti.

Ma che dirò della superba scola

De' gloriosi e nobili poeti,

Ch'intorno al divo altar furo intagliati,

Ben ch'in quel tempo ancor non fosser nati?



Nella facciata anterior fra loro

Un uom d'ogn'onor degno e riverenza

Stava nel mezzo, il cui lume e decoro

Parea fra gli altri aver la preminenza.

Più che di lauro aver corona d'oro

Meritava egli alla regal presenza,

E non parea fra quei c'aveva a canto,

Ch'altro uom vi fusse venerabil tanto.



Sedea con grave e con serena faccia

Di gloriosa porpora togato,

Di girli appresso ogniun ben si procaccia,

Ma pochi son quei che vi vanno a lato;

E ei par che pur chiami che si faccia

Innanzi ogn'alma e se le mostri grato.

Era il suo nome in or puro e giocondo;

DOMENICO VENIER luce del mondo.



Quel ch'alla destra più propinquo gli era

Di fresca età, di generoso aspetto,

Ben discerneasi al viso e alla maniera,

Ch'era un leggiadro e nobil intelletto.

Leggevasi dell'alma illustre e altera

In lettere d'argento il nome eletto,

E si potea da quel comprender chiaro

Ch'era MAFFEO VENIER celebre e raro.


Un altro dal suo lato era scolpito,

Di lui seguace e del suo onor compagno,

Turavasi la bocca con un dito,

Quasi gli sia il tacer lode e guadagno.

Dicea l'argento in note compartito

Sopra il suo capo, il nobil CELIO MAGNO

Parea di chiaro e di eccellente ingegno,

alla presenza l'uom famoso e degno.



Prossimo gli era un uom d'alta e profonda

Dottrina in vista e d'ottimi costumi.

Costui par che virtù col guardo infonda,

E che del suo splendor la terra allumi.

Ha lungo manto e d'anni in faccia abonda,

E sopra un libro aperto afisa i lumi.

Di sopra BERNARDIN PARTENIO appare,

nell'una e l'altra lingua uom singolare.



Quel che mirava alla sinistra mano

Del chiarissimo padre il vivo raggio,

Avea nera la barba, el viso umano,

Pareva uom di giudizio accorto e saggio.

Era la nota ORSATO GIUSTINIANO,

Felice spirto, onor del suo lignaggio.

Sì come i primi un lungo abito porta,

Che gravità con riverenza apporta.



D'età matura un uom gli succedea

Che par ch'alle sue spalle il passo appreste,

E per quel ch'alla vista si scorgea

Era non men d'ingegno almo e celeste.

La lunga spoglia indosso non avea

Ma corto è il manto che l'adorna e veste,

Nel breve suo che la scrittura espone

ERASMO si leggea di VALVASONE.



Finia questa facciata una persona,

Che dimostrava al grave aspetto e degno

Dover l'acqua gustar in Helicona,

E nel metro passar degli altri il segno.

VICENZO GILIANI il breve suona,

D'elevato saper colmo e d'ingegno.

In questa effigie è tal virtute espressa

Che non giunge il mio verso ai merti d'essa.



In testa dell'altar dal lato manco

D'età più fresca un nobil uom seguia,

Che nell'aspetto esser parea non manco

Dotto, onorato e pien di cortesia;

ALBERTO LAVEZUOLA, che mai stanco

Di seguitar il biondo Apollo sia

Espresso aver, per cui sarà gioconda

La gran città che 'l bello Adige inonda.



Poi si vedeva un uom che similmente

Parea nato agli studi, e nel cor molto

Era benigno e di elevata mente,

Se l'animo si può scerner dal volto.

Quegli anni che più rendon l'uom prudente

Lo spirto possedea leggiadro e colto.

Biondo era, e 'l manto infino al piè l'ingombra

E scritto avea BARTOLOMEO MALOMBRA.



Veniva a empir il quadro da quel canto

Una persona affabile e discreta,

Di saggio e di bel animo per quanto

Mostra la faccia degna e mansueta.

Parea fermar le dolci acque col canto,

men de gli altri esser degno poeta,

Avea l'abito breve e la sua nota

CESARE SIMONETTI il mostra e nota.



Ne l'opposta faccia, pur in testa

Del sacrosanto altar, ma da man dritta,

Un'altra effigie in piè si manifesta,

D'alta presenza e signoril descritta.

Splendida e vaga indosso avea la vesta,

E la lettera che sopra era descritta

GIULIAN dimostrava GOSELIMO,

D'ingegno felicissimo e divino.



Un altro presso lui di fresca etade

Vedeasi, il qual parea venir con fretta,

Quasi che gli rincresca e non gli aggrade

Ch'altra persona innanzi il piè gli metta.

Il luoco ove è scolpito persuade

Ch'ei sia d'una virtù rara e perfetta,

E la nota, ch'avea rendea palese

Ch'egli era il dotto CESARE PAVESE.



Appresso avea ritratto lo scalpello

Un uom d'età più giovane e più fresca,

Che di gir presso il nobil drappello

Par che le forze e l'animo gli cresca.

Lungo avea il manto e in testa avea un cappello,

E benché tra questi ultimo riesca,

È però primo fra mill'altri dotti,

Di sopra era GIANMARIO VERDIZOTTI.



Nell'ultima facciata, che scolpita

Di dietro fu dove era poca luce,

Una giovane stavasi romita

E non ardia con gli altri uscir in luce,

Vergognandosi assai che troppo ardita

Aspirasse alla via ch'al ciel conduce,

Avendo tanto basso e fosco ingegno

Quanto sublime e chiaro era il disegno.



Bianca avea indosso e lunga la gonnella

Come allo stato virginal conviensi,

E pareva in età verde e novella

Aver nel petto alti pensieri accensi.

Non avea breve alcun questa donzella

Che la fesse palese agli altri sensi,

Ch'allo scultor che la sua effigie espresse

Grato non fu che 'l nome si sapesse.



Dell'eccelsa cappella è il cielo adorno

D'azzurro e d'or pur con figure elette,

V'erano le sette arti impresse attorno

Che liberali son chiamate e dette;

Nel mezzo un nobil uom vi fea soggiorno,

Cui ciascuna parea di queste sette

Voler cinger la testa illustre e rara

Di corona immortal di lauro a gara.



Benché fusse d'età cinto e ripieno

Com'alla vista scorger si potea,

Di vera gloria aver più colmo il seno

Il ritratto mirabile parea.

Un aere in fronte avea grato e sereno

Che più felice e amabile il rendea,

Di GIOSEPPE ZARLINO il nome scopre,

L'argento e lungo manto il veste e copre.



Poscia ch'alquanto il giovane Risardo

Con tutti i suoi religioso e pio

Andò pascendo il suo cupido sguardo

Per lo tempio fatal del biondo dio,

Devoto inginocchiossi e non fu tardo

A spiegar a quel nume il suo desio;

Così ciascun di lor fu ingenocchiato

Con le man giunte, el volto disarmato.



Il principal ministro, che consacra

Le vittime ad Apollo e quello adora,

Per li gradi salì dell'ara sacra

E com'è suo costume il prega e ora.

Per aver la risposta o dolce, od acra

Il sacerdote il vaticinio implora;

Pendon l'accese lampadi d'intorno,

Dando lume a colui ch'alluma il giorno.



A pena di pregar l'acceso nume

Finì il ministro avvolto in aurea gonna,

Che raddoppiar le faci il sacro lume

E tremò del gran tempio ogni colonna.

Indi s'udì fuor d'ogni uman costume:

Avrà la donna, e l'uom l'uomo e la donna,

E s'unirà la coppia con la coppia,

Che contra il sangue suo tant'arme accoppia. –



Dell'oscura risposta assai confuse

Restaro l'alme supplici e devote,

Col cor doglioso e con le labbra chiuse

Non potendo caper l'oscure note.

Allor pien di furor la bocca schiuse

Il profetico sommo sacerdote

E gridò forte: – O donne, o cavallieri,

Udite del gran dio gli annunzi veri.



Quello di voi ch'in abito d'uom forte

Nasconde il femminil suo vero sesso,

Di questo cavallier sarà consorte,

C'ha nello scudo una donzella impresso.

Agli altri due riserbasi altra sorte,

Come il felice oracolo ci ha espresso.

Sono in Armenia, ove fan guerra e liti,

Le sorelle cui denno esser mariti. –



Colmo d'inestimabile contento

Della risposta il giovanetto trace,

Ringrazia il dio propizio al suo talento

Poi che pur vuole il ciel quel ch'a lui piace.

Levossi in piede e d'abbracciar non lento

Fu la sua dea che n'arrossisce e tace;

E da quel giorno in poi volse Risardo

Ch'ella lasciasse l'abito bugiardo.



Gli altri duo cavallier dogliosi e mesti

Di ciò furon assai ne lor secreti,

Ma non osar dolersi dei celesti

Avvisi, onde restar taciti e cheti;

E ver l'Armenia a cavalcar fur presti

Onde speranza avean pur d'esser lieti,

E con Gracisa presero il camino

Che detto avea l'interprete divino.



Risardo, che benigno era e cortese,

Di questi cavallier mosso a pietade,

Di voler seco gir partito prese,

E cavalcò per le medesme strade;

Gli è ver, che non sì tosto in quel paese

Si ritrovò, ch'amor lo persuase

A passar qualche solo in riposo,

Poi che dir si potea novello sposo.



Ma perch'io temo che 'l mio dir vi annoi

Se di lor seguo e delle due sorelle,

Fia ben che, differendo a dirne poi,

Del re di Grecia ormai vi dia novelle.

Dissi che dieci cavallier de i suoi,

Con arme e sopravesti ricche e belle,

Erano usciti ad acquistar l'alloro

Contandovi Filardo e Floridoro.



E lasciai che dal principe Aliforte

Tre cavallier furono posti al piano,

Brandilatte, ch'in Siria avea la corte,

Ateronte di Persia e l'Africano.

Or dico, ch'esaltando il guerrier forte

La nobiltà dei Greci e il popol vano,

Un cavallier uscì dall'altra parte

Che parea nell'aspetto un novo Marte.



Miricelso d'Egitto, che d'un padre

Nacque con l'innocente Raggidora,

Venuto anch'ei contra le greche squadre

fu quel ch'uscì contra Aliforte allora.

Tosto all'armi vermiglie, aure e leggiadre,

Scorto fu da ciascun quando uscì fuora,

Ciascun conobbe il principe del Nilo

All'insegna ch'avea del cocodrilo.



Preser del campo e fu l'incontro tale

Che piegò molto il cavallier d'Egitto,

E mostrò di cader più d'un segnale,

Perdé le staffe e pur rimase dritto.

Ma non ebber però la sorte uguale,

Così fu del gran colpo il greco afflitto,

Che perdute le forze e insieme il freno,

Fu sforzato a cader sopra il terreno.



Dopo lui Miricelso abbatte e getta

Il re d'Arcadia netto dell'arcione,

Indi al re Clizio fa premer l'erbetta

Che presso il duca avea Satirione.

Volea Satirion far la vendetta

D'Aliforte, di Clizio e d'Elione,

Quando alla giostra uscì fiero e sdegnoso

Della gran Tebe il principe famoso.



Venirsi incontra e poser l'aste in resta

I cavallier gagliardi oltre misura,

L'Egizio vol ch 'l ferro il ventre innesta,

Egli roppe la lancia alla cintura,

Ma 'l teban lui percosse nella testa

E dimostrò la spalla aver più dura,

Né si poté l'Egizio schermir tanto

Ch'Apollideo n'ottenne il pregio 'l vanto.



Caduto Miracelso, Apollideo

Del feroce Marcan, ch'era fratello

Dell'alto re di Persia, ebbe trofeo,

Ch'avea lo scudo candido e morello,

Quando un guerriero uscì di cui non feo

Natura il più superbo e a' dei ribello,

Ha l'arme azzurre e nello scudo segna

In campo azzurro un monte per insegna.



Ventiquattro anni il giovane feroce

Ha già finiti e è di forza estrema,

Tal che in ogni periglio e caso atroce

Par che infino di lui la morte tema.

Amor ch'è sì arrogante a lui non noce,

E da quel cor crudel s'asconde e trema.

Era costui del buon destrier signore,

Del quale or Floridoro è possessore.



Suo nome era il superbo Sfidamarte,

Cui l'imperio devea di Trabisonda,

Delle cui chiare imprese in ogni parte

Tutta la terra il grido altier circonda.

Non valse al buon teban l'ardir e l'arte

Contra costui che di tal forza abonda,

Che ben che si tenesse assai difeso,

Lo gittò lungi dal destrier disteso.



Con Stellidon roppe all'incontro l'asta,

Né l'un cadde né l'altro del destriero,

E poi che 'l primo incontro lor non basta

Con nove lancie un'altra prova fero;

Il greco cade, e l'altro ancor contrasta

Contra Satirion, Sirio, e Algiero,

E ciaschedun di lor con poca guerra

Per lo suo gran valor vince e atterra.



Or in Filardo solo e in Floridoro

De' greci eroi fondata era la speme,

Che restano a provar la virtù loro

Contra il guerrier che nullo incontro teme.

Per coronarsi il crin di palma e alloro

Pon Sfidamarte le sue forze estreme

Contra Filardo, il qual si mosse in fretta,

E quanto è lungo dell'arcion lo getta.



Gli è ver che nel colpir che Filardo

Il suo destrier non ben si tenne in piede

E parve pigro a rilevarsi e tardo,

Così grand'urto il buon ditteo gli diede.

Ma se di lui più Floridor gagliardo

Non si dimostra, il barbaro l'eccede;

Perdono i Greci il trionfal onore,

Se non è Floridor di lui migliore.



Restava a Floridor l'ultima prova

Contra costui ch'ogn'altro in terra stese,

E ben credean della vittoria nova

I barbari portar nel lor paese.

Già Floridoro, a cui nel petto giova

Quella fiamma ond'amor tanto l'accese,

La lancia tolta in sulla coscia avea

E contra Sfidamarte il fren volgea.



Ben parve in atto, ai gesti, al movimento

Superbo, al grave, eroico, e fier sembiante

Esser il fior degli altri, e d'ardimento

Gire e di forza a tutti gli altri inante,

Come uso fosse delle volte cento

Mila in tal gioco, altier si fece inante,

E nel uscir tal mena il destrier vampo

Che par che tenga ei sol tutto quel campo.



Grande è il vantaggio suo, ch'oltra il valore

C'ha per natura, amor gli accresce lena,

E di più sotto ha sì buon corridore

Ch'un altro tal porria trovarsi a pena.

Sfidamarte, ch'ancor non sente Amore

E ch'a un debil destrier preme la schena,

Altier vien a incontrarlo, e alla penna

Dello scudo al garzon rompe l'antenna.



Da Floridor fu colto nell'elmetto

Il barbaro, che lui non avea mosso,

E s'urtaro i destrier petto con petto

E in guisa ne restò ciascun percosso,

Che quel di Sfidamarte fu costretto

A rovinar col suo signor addosso,

Il qual di tale incontro ebbe più sdegno

Che s'avesse perduto il proprio regno.



Per la grave percossa anco il cavallo

Di Floridor mise le groppe in terra,

Ma pose al rilevar poco intervallo

Tosto ch'ai fianchi ebbe l'usata guerra.

Smarrì ciascun di Sfidamarte il fallo,

Maraviglia e timor ciascuno afferra.

Or alla giostra il re d'Arabia venne,

C'ha la fenice, e anch'ei cader convenne.



Vinto costui, ch'era di bianco e d'oro

Ornato e nome Lucidalbo avia,

L'un dopo l'altro assalse Floridoro

Il re di Media e quel di Tartaria.

Norando il primo ha per impresa un toro,

L'altro una lince e nomasi Anachia.

La lancia Floridoro in resta pone

E l'uno e l'altro abbatte dell'arcione.



Dopo questi il garzon getta sul prato

Il re d'Ircania e quei di Sufiana,

Il primo, ch'Androcaspe è nominato,

Una tigre crudel disegna e spiana,

Frangileo, che fu l'altro, avea arrecato

Un uom selvaggio in mezzo una fontana.

Già il candido guerrier tutta la gente

Vincitor della giostra auguria e sente.



Ma il barbarico stuol che non intende

Che Floridor rimanga vincitore,

Tosto altre lancie una per uno prende

E rimonta ciascun sul corridore.

Floridor non si perde, anzi s'accende

In maggior ardimento e in più vigore;

Urta il cavallo e Miricelso coglie,

Che primo venne, e del destrier lo toglie.



Rivier scavalca, il re di Persia abbatte,

Che superbo l'incontra e se gli oppone,

Urta Marcan, percote Brandilatte,

E l'uno e l'altro fa restar pedone.

Il cavallier più candido che latte

Insomma vinse tutte le persone;

Per l'allegrezza allor suona ogni tromba,

E 'l grido de le genti al ciel rimbomba.



Gioisce il re, s'allegra Celsidea,

Tutto il popolo ride, ognun ne gode

Che dal suo canto la vittoria avea,

E all'incontro il barbaro si rode.

Ma perché 'l nome altier non si sapea

Del vincitor non se gli può dar lode,

Pur con quei nomi onorano il suo merto

Che dar si ponno a un cavallier incerto.



Tosto invitar per publico trombetta

Fa l'alto re l'illustre vincitore,

Perché 'l ricco tesor, ch'a lui s'aspetta

Vol presente ciascun dare al suo onore.

Anzi vol che l'eccelsa giovenetta

Lo dia per grazia al cavallier maggiore,

E comanda a ciascun della gran corte

Ch'accompagni il guerrier famoso e forte.



Dai più illustri signori accompagnato

Fu l'alto cavallier non conosciuto,

E si fu al re Cleardo appresentato,

Dinanzi a cui venne tremante e muto.

Quel magnanimo re sel pone a lato

E vol che sia da ciaschedun veduto,

L'onora, l'accarezza e gli loda,

E cosi ognun lo riverisce e loda.



O re, se conoscesti il cavalliero

Che tanto esalti e sopra ogn'altro onori,

Non so se così caro al tuo pensiero

Saria comor che 'l suo bel nome ignori.

Anzi saria, ma se sapesti il vero

De suoi novelli a te non grati amori,

Perché sei troppo altier, troppo superbo,

Gli saresti nimico empio e acerbo.



Eran concorsi in numero infinito

Duchi, principi, re, conti e marchesi

Nella gran sala, ove al reale invito

Sono coi Greci i barbari cortesi.

Ivi Marcane, e 'l re di Persia ardito

Son con Rivier, con tutto il resto ascesi,

Eccetto Sfidamarte che per sdegno

Allora allora uscì del greco regno.



Fatta la dolce e debita accoglienza

Tra quella e questa egregia alta persona,

Floridor trema alla real presenza

E confuso non parla e non ragiona.

Non vede l'ora mai di far partenza,

E d'acquistar la trionfal corona,

E tuttavia si sta raccolto e muto

Per timor di non esser conosciuto.



Stupisce il re, ciascun si maraviglia

Che non dia il cavallier la voce fuora,

E se ne duol tra sé la regia figlia

Che dentro più che fuor gia 'l pregia e onora.

Il re lo prega a discoprir le ciglia

E 'l nome a dir che sia celebre ogn'ora;

Vol ch'all'altezza sua tal favor faccia

Ch'esso lo veggia e tutti gli altri in faccia.



Gli altri signori instavano Filardo

Che si cavasse ormai l'elmo di testa,

E che fesse palese al re Cleardo

La loro altera e gloriosa gesta.

Il buon ditteo non fu a risponder tardo

A più d'un che l'astringe e lo molesta,

Sapea finger benissimo e mentire

La voce e i gesti, onde comincia a dire:



Serenissimo re, noi siam fratelli

Di Tanafrè, gran principe de' Sciti,

Né per esser maligni, empi e ribelli

Dal nostro almo terren semo partiti,

Ma 'l grido de tuoi fatti illustri e belli

Ci ha tratti a tempo ai tuoi famosi liti,

Dove, s'oggi mostrato abbiam valore

Vogliam che 'l tutto ceda a tuo favore.



Piacque al nostro signor nel partir nostro

Questo statuto e questa legge darci,

Che mentre noi starem nel regno vostro

Non dovessimo mai l'arme spogliarci.

Dunque se 'l sangue ho con la patria mostro,

Non ti doler se non vogliam mostrarci,

Che giustizia e ragion non può patire

Che dobbiamgran re disobedire.



Né t'adirar signor, se 'l fratel mio,

Che detto è Biancador, non ti favella,

Perché fiero accidente, iniquo e rio

Gli ha tolto la pronunzia e la favella.

E per gradir più avanti al tuo desio

Me, Calindrano, al tuo servigio appella,

Che sarò pronto agli mandati tuoi

Non men che siam questi onorati eroi. –



Le oneste scuse il re, ch'era prudente,

Finse accettar con volto accorto e lieto,

E con l'esempio suo tutta la gente

Rimase col pensier tranquillo e cheto.

Sol la regia fanciulla arder si sente

Di contrario voler nel suo secreto,

Né il cor può far dal gran desir leggiero

C'ha di veder quel muto cavalliero.



Di cento vaghi gioveni presenti

Che stanno a contemplar la sua bellezza

Ella non cura, e sol tiene gli occhi intenti

Nel cavallier che tanto ammira e prezza.

Se non son l'altre parti differenti

(Dicea tra sé), se 'l viso ha tal vaghezza

Qual l'aspetto dimostra, non è al mondo

Un cavallier più bello e più giocondo.



Felice chi veder l'alto valore

Poté di lui, che dianzi ogni altro oppresse,

Ma più felice poi chi lo splendore

Del suo volto divin mirar potesse. –

Cosi va rivolgendo per il core

Un pensier e un altro che successe,

Non sa qual che sia amor, né sa dar nome

Al novo affetto, e arde e non sa come.



Rozza la verginella ai duri affanni

D'amor loco e tra sé langue e pena,

E non intende in così teneri anni

Ch'amor sia quel che l'arde e l'incatena;

Ma vede ben che de suoi dolci danni

Saria rimedio e di sua dolce pena

Se potesse mirar l'amato obbietto,

Ma l'impedisce il verginal rispetto.



S'accorse Floridor ch'era mirato

Con molta affezion dalla sua dea,

E tra sé dice: – O Floridor beato,

Se per tal ti tenesse Celsidea,

E non per quel c'ha finto e imaginato

Il cavallier dell'isola dittea!

Beato tu, s'ella sapesse il vero,

E non fusse il suo cor ver te più fiero. –



In questo il re con graziose ciglia

Per non mancar d'alcun suo debito atto,

Dolce ricorda alla diletta figlia

Che 'l cavallier da lei sia satisfatto.

Divenne più che rosa ella vermiglia,

Abbassò gli occhi, e riverente in atto

In premio dell'altissima vittoria

Diede al guerrier la meritata gloria.



Diè, ma fu quel suo dar di tal valore

Che più gli tolse assai che non gli diede;

La corona gli diè, gli tolse il core,

Strano cambio, e senza opra alta mercede.

Ahi, che tra quelle gemme è ascoso amore

Qual tra fior serpe, e 'l misero non vede,

Per ricordarli poi col don felice

La dolce avara sua condonatrice.



Di quella bella man d'ostro e di neve

Troppo fu grato al cavalliero il dono,

E mentre accorto il gran favor riceve,

Le offre con cenni ogni or la vita in dono.

Fatta la cerimonia che si deve,

Il cavallier che può dar fuora il suono,

Chiede licenza al re che di negarla

Già non ardisce, ond'in tal modo parla:



Famosi cavallier che nel mio lido

Venuti siete, e col valor che mostro

Avete al mondo, ove sia eterno il grido,

Conservaste l'onor del regno nostro,

Mi duol di non poter nel proprio nido

Pagar in parte il gran merito vostro.

Sol del vostro partir m'incresce e duole,

Ch'effetti usar vorrei, non dir parole.



E se debito alcun di gentilezza

In generoso cuor ritrova loco,

Vi prego a restar qui dove s'apprezza

Virtù e valor più ch'in ogn'altro loco,

E con gaudio comune e contentezza

Sarete i primi eroi di questo loco,

manco avrete qui grazia e favore

Ch'abbiate appresso il vostro imperatore. –



Delle cortesi offerte il buon ditteo

Grazie infinite al re Cleardo rese,

E di lasciar disposto il campo acheo

Conferma il detto suo tutto cortese.

Con Algier se ne duole Apollideo,

Duolsene ognun che la partita intese,

Ma Celsidea di cor tanto sospira

Che la madre ver lei le luci gira.



Per vietar ogni scandalo occorrente

Che del troppo tardar nascer potria,

Filardo allor si parte incontinente

E quasi Floridor per forza invia.

O quanto è grave a un amator ardente

Lasciar colei che tanto ama e desia!

Credo che Floridor per quel partire

Fusse vicino all'ultimo martire.



Scendon le scale e lascian mesti tutti

Della partenza lor quei gran signori,

E fingendo voler gli ondosi flutti

Solcar, girano al porto i corridori;

Di novo poi nella città ridutti

Spogliarsi l'armi e i candidi colori,

Né fu chi comprendesse il lor ritorno

Ch'era già sera e alcun non gìa più attorno.



Nel lor comodo albergo si raccoglie

L'illustre greco e 'l cretico garzone,

E vi richiudon l'armi e quelle spoglie

Che potean farli noti alle persone.

Orfil di preparar cura si toglie

La cena a Floridor e al suo patrone.

Orfil che di Filardo era servente,

Fido, secreto, accorto e diligente.



Ma sazio Floridor troppo e svogliato

Dall'assiduo pensier che lo molesta,

Non può cibo gustar che gli sia grato

E con la faccia sta languida e mesta.

Si finge tutto stanco e travagliato,

Tutta la vita aver lacera e pesta,

vol che 'l servo sappia il suo concetto

Per più d'un ragionevole rispetto.



Tra lor conchiusa in breve spacio d'ora

La poco grata e solitaria cena,

L'acceso Floridor, ch'ad ora ad ora

Nel cuor si sente aumentar la pena,

Col raggio di Proserpina esce fuora

Dove il desio troppo sfrenato il mena,

E al palaggio tornò, ma già m'aveggio

Che pieno è il foglio onde posar mi deggio.




Precedente - Successivo

Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC
IntraText® (V89) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2008. Content in this page is licensed under a Creative Commons License