CANTO
UNDICESIMO
Argomento
Floridoro
a spiar la regal cena
Va
di nascosto e 'l fato il piè gli invia
Nella
camera amata. Ei la sua pena
Scrive
e per lo balcon scende e va via.
Celsidea
trova il foglio e duolse e pena.
L'un
perse uccide l'altro. Ha lite ria
Floridor
con Marcan. Del perse morto
Danno
a Cleardo i re barbari il torto.
Qual
vigor e possanza alberghi e regni
Nella
virtù, ch'in gentil petto siede,
A
mille prove, a mille chiari segni,
In
mille occasion s'è visto e vede.
La
forza di costei gli odi e gli sdegni
Spegne
e in suo loco accende amore e fede,
La
virtù non pur placa e spegne l'ira,
Ma
l'uom da molte iniquità retira.
Sforzisi
ogn'uom de aver qualche virtute,
Che
a loco e tempo, in qualche modo e via
Esser
non può, che questa non l'aiute,
Che
qualche ben, qualch'util non gli dia.
Sua
forza spesso trae di servitute
L'uomo
e pregion gli schiva e morte ria,
E
degli antichi e dei moderni tempi
Addur
potrei mille di questo essempi.
La
virtù ben disposta in un soggetto
Rende
il suo possessor chiaro e gentile,
E
l'uom che l'ama e se n'adorna il petto
Non
si può dir (sia chi si voglia) vile,
Nè
può da povertade essere stretto
Chi
di virtù segue il lodato stile,
Che
sia d'arme, o scienzia, premiato
Da
più d'un spirto vien cortese e grato.
Ma
non è da pigliarsi maraviglia,
Ch'all'uom
tal dia costei grazia e favore,
Che
di man cava altrui la robba e piglia
Gran
premi o per dottrina o per valore;
Se
del re greco alla superba figlia
Può
la virtù cavar del petto il core,
Di
quel possente giovene in persona,
Che
vinta avea la giostra e la corona.
Lasciaive
il giovinetto valoroso
Poco
di tanta sua vittoria altero,
Che
dopo un breve spazio di riposo
Lasciato
avea Filardo e lo scudiero.
E
spinto dallo stimolo amoroso
Ch'entrar
fa l'uomo in ogni caso fiero,
Verso
il real palagio i passi volse,
Né
fuor che 'l brando altra armatura tolse.
Tra
la turba de' servi entra infinita
Che
dal felice albergo or scende or sale,
E
senza alcun pensier della sua vita
Ardisce
di montar le regie scale.
Fortuna,
che gli audaci spesso aita
Gli
fu così propizia e liberale
Ch'alcun
non gli diè mente, alcun non disse,
Chi
sei? né pur cercò donde venisse.
Solicito
ciascun studia e attende
Quell'offizio
a fornir che gli fu imposto,
Né
cura di cercar l'altrui facende
Per
essequir le sue quanto più tosto.
Nella
regia cucina il foco splende
Col
diverso animale allesso e arrosto,
E
le grate vivande in copia fanno
Di
quante sorti imaginar si sanno.
Nella
splendida sala aurea, lucente
Dell'allumata
cera in ogni canto,
La
festa si facea solennemente
Fra
le donne e i guerrier ch'onoro e canto.
Il
cauto Floridor celatamente
Si
pone al buio, el popol tutto quanto
Potea
veder né esser d'alcun veduto,
Non
che raffigurato e conosciuto.
A
prima giunta il re di Persia vede
Che
la regia fanciulla al ballo invita,
E
lei cortese alzarsi dalla sede,
Alla
sua man la man barbara unita.
Mover
la scorge or l'uno or l'altro piede
Con
grazia e leggiadria tanto spedita,
Ch'in
un medesmo tempo amor l'assale,
El
punge gelosia cruda e mortale.
La
danza a coppia a coppia era guidata
Con
lungo filo a passo grave e lento,
Felice
occasion, comoda e grata
Di
scoprir agli amanti il lor tormento.
Chi
la sua dea pietosamente guata,
Chi
le chiede mercé con muto accento;
Tutto
quel regio albergo è festa e gioco,
Ogni
gaudio, ogni ben regna in quel loco.
Era
nella stagion, che si rinova
Di
Bacco il soavissimo liquore,
E
che 'l pesco maturo il gusto approva
Col
pomo più durabile e migliore.
E
'l sol lontan dalla vindemia nova
Cresce
alle notti e ai giorni abbrevia l'ore,
Tempo
che di cenar s'ha per costume
Di
notte allo splendor del cereo lume.
Poi
che in tanta allegrezza e in piacer tanti
Si
consumò gran parte della sera,
Le
tavole fur poste, ove di quanti
Cibi
si pon bramar gran copia v'era.
Le
cetere e le lire consonanti
Da
umiliar ogni anima più fiera
Col
canto dolce più che di sirena
Accompagnar
la sontuosa cena.
Né
vi mancaro illustri, alti poeti,
Che
di felice e ben purgato ingegno,
Versi
accordando al suon leggiadri e lieti,
Laudaro
ogni guerrier famoso e degno.
Né
celebraro men come discreti
Gli
esterni eroi che quei del greco regno,
Né
men lor piacque alzar sopra le stelle
La
virtù de le donne ornate e belle.
Concesso
avea per somma grazia immensa
Ai
cavallier de le diverse arene
Che
sedessero insieme ad una mensa
Con
le vergini greche il re di Atene.
Qui
(come il fato a suo piacer dispensa
Grazie)
tal loco il re di Persia tiene,
Che
sedea incontra al suo lascivo sguardo
La
bellissima figlia di Cleardo.
Era
dell'amor suo quel re sì acceso,
Ch'ad
or ad or traea caldi sospiri,
E,
fatto impaziente, il petto offeso
Scopre
col guardo i suoi novi martiri.
La
mira, la vagheggia, e sta sospeso
Acciò
ch'ella comprenda i suoi desiri;
Si
rende or tutto ghiaccio or tutto foco,
Né
può cibo gustar molto, né poco.
Floridor,
che nascosto il tutto mira,
Amor
lo strugge e invidia lo divora,
Lo
afflige amor, l'infiamma e lo martira
Per
la beltà che tutto il mondo adora,
Gli
accende il petto alla vendetta e all'ira
La
gelosia, che l'ange e che l'accora,
Nè
può patir di veder posto a fronte
Alla
sua cara donna il re Acreonte.
Numerava
i sospir, contava i sguardi
Che
troppo spessi a lei quel re porgea,
E
come avesse al cor pungenti dardi
Geloso
e impaziente si rodea.
Talor
(se ben non è) gli par che 'l guardi,
Che
l'ami e 'l favorischi Celsidea,
Né
può la bella donna alzar i lumi
Ch'ei
non ne prenda affanno e si consumi.
E
vinto dalla rabbia finalmente,
Ond'il
misero cor languendo serve,
Si
vol partire acceleratamente
Ma
la memoria oppressa non gli serve;
Che
al buio entra in un adito ove sente
Gran
mormorio di paggi e di conserve,
E
per fuggirlo a man sinistra cala
E
s'allontana in tutto dalla scala.
Confuso
se ne va di quella in questa
Camera
tardi il giovane pentito,
E
ben si duol che mai venne alla festa
Senza,
ch'alcun gli avesse fatto invito.
Se
sia scoperto perderà la testa,
Fia
come ladro e malfattor punito,
Che
v'è la legge e vien di vita sciolto
Chi
nelle stanze altrui di notte è colto.
Come
'l cupido amante al piè permette,
Che
troppo audace ingombri il terzo loco,
Gli
fere gli occhi un lume che reflette
Dal
quarto al terzo, el fa temer non poco;
Teme
che vi sia gente, onde non mette
Più
inanzi il passo ove risplende il foco,
Ma
la fedel orecchia all'uscio tende
Per
ascoltar s'alcun parlare intende.
Come
l'attenta orecchia al senso apporta
Ch'a
suo giuditio ivi non è persona,
E
che fa l'alma senza dubbio accorta
Che
dentro alcun non parla e non ragiona,
Fatta
la man più ardita apre la porta
(Benché
pian piano), e 'l guardo intorno dona,
E
vede una real camera ornata
Da
una splendida gemma illuminata.
La
stanza d'una egregia architettura
Ben
compartita è ugual per ogni faccia,
D'ostro
vestite ha le superbe mura
Che
la cornice d'or cinge e abbraccia.
Nel
mezzo una bellissima figura
Giace
sul fregio alla gran porta in faccia,
E
sta con sì mirabil prospettiva
Ch'a
tutti par natural forma e viva.
L'imagine
di donna illustre e rara,
Anzi
di vaga e ben ornata dea,
La
bionda testa ha di più gemme chiara
Ove
un carbonchio a par d'un torcio ardea.
Tosto
il giudizio a Floridor dichiara
Che
vergine sì degna è Celsidea,
Onde
comincia a prendere speranza
Che
questa sia di Celsidea la stanza.
Di
ciò ringratia in parte i dèi celesti,
In
parte teme alta vergogna e scorno,
Ch'in
quella stanza non è ben che resti
E
non sa come indietro far ritorno.
Vari
pensieri or consolati or mesti
Fan
nel cor giovenil duro soggiorno,
Di
lei non s'assicura e d'ognun teme,
E
pon sol nel morir l'ultima speme.
Mentre
sospeso sta gli vien veduto
Un
calamar col foglio e con la penna,
Lo
scriver loda, indi ne fa rifiuto,
Ch'alto
timor questo pensier dipenna;
Si
risolve nel fin di non star muto,
Amore
al cor nova speranza impenna,
Prende
la dura piuma, indi la tinge
Nell'atro
inchiostro è cosi il foglio pinge.
–
Io vinsi il mondo e
da una sola fui
Legato
e preso, e non men d'esser godo
Vinto
di lei che vincitor d'altrui,
Né
d'impresa miglior mi vanto e lodo.
Beato
e felicissimo colui
Che
degno sia del marital suo nodo,
Non
pur s'uom sia quantunque illustre e degno,
Ma
nume e dio del sempiterno regno. –
Per
questa via pensò l'occulta fiamma
Il
timido garzon render palese,
E
pregò Amor ch'in lei destasse dramma
Del
foco ond'el suo petto arse e accese.
Conchiuso
in breve spacio l'epigramma,
Sopra
quel che più importa a pensar prese,
Comincia
a imaginar qual via s'eleggia,
Come
fuggir, come salvar si deggia.
Dopo
vario discorso gli sovenne,
Che
'l meglio sia giù del balcon calarsi,
Che
più sicura e miglior strada tenne
Che
'l tornar per tanti usci a invilupparsi.
Dunque
non si trovando al volar penne,
A
un canape pensò d'accomodarsi;
Fortuna,
ch'aiutarlo si propose,
Un
canape in quel punto in man gli pose.
Prende
la fune, e ben legata stretta
La
raccomanda all'asse del balcone,
E
di calar ben più che può s'affretta,
Che
già gli par che vengano persone.
Ambe
le pugna a quella attacca, e in fretta
Giù
per la corda il suo mortal depone,
Né
prima la lasciò l'accorta mano
Che
la punta del piè toccasse il piano.
Com'egli
è in terra, in un giardino adorno
Di
frutti e fior si trova esser disceso.
Lucea
la luna che parea di giorno
Sì
ch'ancor teme esser veduto e preso,
Onde
cheto si posa a far soggiorno
Tra
spesse piante in grembo ai fior disteso,
Aspettando,
che lasci il cielo oscuro
Cinzia
per uscir poi quindi sicuro.
La
prima cosa che li vien in mente
(Perché
maggior pensier non lo premea)
È
colei di cui tanto ha il cor ardente,
La
bella principessa Celsidea,
A
cui sempre vorrebbe star presente;
Poi
del re ricordandosi, ch'avea
Del
suo medesmo ardor sì acceso il petto,
Tutto
arrabbia di sdegno e di dispetto.
Intanto
Celsidea, c'ha in mente fiso
Di
Biancador l'aspetto e i bei sembianti,
Sì
ch'a sanarli il cor punto e conquiso
Poco
valean le feste e i piacer tanti,
Poi
che fu spesa in danze, in gioco e in riso
Più
di mezza la notte, e in soni e in canti,
Ver
la camera sua drizzò le piante,
Ove
pur dianzi stato era il suo amante.
Afflitta
e mal contenta si raccolse
Quivi
la figlia innamorata e bella,
E
dentro sol per suo servizio tolse
Carinta
una fedel sua damigella,
E
mentre i vestimenti si disciolse
Di
varie cose ragionò con ella,
Forse
per iscemar del mesto core
L'ardor
che sempre in lei crescea maggiore.
Mentre
i passati giuochi replicando
Si
scioglie ella le perle e le corone,
E
'l bel collo e 'l bel crin va disornando,
E
tutti gli ornamenti suoi ripone,
A
caso quella carta vien mirando
Onde
il suo foco Floridor li espone,
L'oscuro
enigma che 'l garzon già scrisse
In
cui l'occulta sua fiamma descrisse.
La
piglia in man, la legge e tutta resta
Confusa
e 'l cor gli trema e la persona;
Sente
che quella carta manifesta
Un
grande amor senza nomar persona.
Legge
e rilegge, alfin trova che questa
Vien
da colui che vinse la corona,
Da
quel che vinse il dì la giostra altera
E
n'ebbe il pregio poi da lei la sera,
Quel
gentil cavallier la cui virtute
Ricevé
con tal forza essa nel core,
Che
per caso non fia che 'l pensier mute
C'ha
di servirlo e di portargli amore.
Lette
c'ha ben le note aperte e mute,
Interpretato
ben tutto il tenore,
Un
piacer pien di tema e maraviglia
Il
suo dubbio pensier circonda e piglia.
Maraviglia
e timor le ingombra il petto,
Che
non sa come ei qui l'abbia arrecata,
Il
tempo breve non le dà sospetto,
Ch'ad
alcun servo in man l'abbia fidata;
Perch'insieme
con lei stette a diletto
Quel
dì e la sera tutta la brigata,
Donne
e donzelle e paggi tutto il giorno
Presso
o lontan le fur sempre d'intorno.
Ma
sia come si voglia ella è sì vinta
E
ha di tant'ardor l'anima accesa,
Che
nel viso guardandola Carinta
Tutta
s'ammira e trema e sta suspesa
Benché
sia Celsidea tutta discinta
Di
gir al letto le rincresce e pesa,
Ma
pur per forza a riposar si getta
Per
non farsi alla serva più sospetta.
Carinta
nel serrar (com'ogni sera
Solea)
i balcon, trovò la fune avvolta
Onde
già Floridor calato s'era,
E
senza motto far l'ebbe disciolta;
E
fu la diligente cameriera
Di
schivarle cagion vergogna molta,
Che
ne venia (s'altri vedea 'l legame)
A
torto Celsidea tenuta infame.
La
misera licenza la servente
Ch'in
una sua anticamera dormia,
E
poi ch'è sola e alcun non vede o sente
Apre
a sospiri e al lagrimar la via.
Colei
che sì felice e sì ridente
Fu
dianzi or mesta e piena è d'agonia,
Colei
che non sapea ciò che dolore
Fusse,
or tutta è dolor; colpa d'Amore.
Come
vago augellin ch'in aria sciolto
Con
libere ale un tempo volato abbia,
Che
quando men credea si trova involto
Nei
tesi inganni e nell'angusta gabbia,
Invan
s'aggira e duolsi d'esser colto,
Invan
di sù di giù salta e arrabbia,
Col
dolce canto in van lamentar s'ode
E
il cauto uccellator ne ride e gode.
Così
l'innamorata verginella
Che
già le voglie avea libere e liete,
E
vissa era molti anni altera e bella
Fin
che non arse d'amorosa sete,
Ora
s'affligge indarno, si martella
Che
non si può discioglier dalla rete;
Indarno
si lamenta, indarno stride,
E
Amor che l'ha in pregion di lei si ride.
Sopra
tutte le cose la tormenta
Che
'l cavallier ne sia sì tosto gito,
Che
se è ver che per lei tal pena senta
Come
del re non accettò l'invito?
Come
esser può ch'uom di lasciar consenta
L'amato
ben quando può starvi unito?
Doveva
ei procurar di starle a lato
E
non partirsi essendone pregato.
–
Sapess'io almen
(dicea) dove ito sei
Di
me teco ben mio portando il core,
Ch'in
qualche modo intender ti farei
Com'è
tra noi reciproco l'ardore.
Forse
che timor hai ch'i pensier miei
Non
faccin conto alcun del tuo valore,
E
non pensando ch'io t'apprezzi e ammiri
Da
me lontano lagrimi e sospiri.
Ah,
Biancador gagliardo e valoroso,
Che
non pur vinti hai tanti incliti eroi
Ma
'l mio cor, che non sente unqua riposo
Da
che ascondesti i bei sembianti tuoi!
Deh,
perché mi ti sei sì presto ascoso?
Che
fretta era la tua di lasciar noi?
È
segno che l'amante è poco ardente
Quando
può star dalla sua donna assente.
O
dèi per qual mio error nefando e tristo
Questa
punizion da voi mi viene
Ch'io
m'affliga per un che non ho visto?
E
ch'io provi nel cor sì dure pene?
Lassa
costui, per cui tanto m'attristo,
Forse
mai più non tornerà in Atene,
E
lagrimo e sospiro in pene e in guai
Né
forse son per rivederlo mai.
Ma
non promette questo il caldo affetto
E
l'accorta maniera ond'ei mi scrive,
In
guisa ei mostra d'essermi soggetto,
Ch'è
mio dovunque sta, dovunque vive.
Forse
per qualche suo degno rispetto
Della
sua vista ha le mie luci prive,
Forse
da noi partì contra sua voglia
E
tornerà anco un dì quando il ciel voglia. –
Queste
e altre ragion la bella figlia
Tra
sé discorre e si conforta un poco,
Poi
si fa di se stessa maraviglia
Com'abbia
dato a pensier vani loco,
E
fa la guancia or pallida or vermiglia,
Secondo
che l'assale o ghiaccio o foco.
Il
ghiaccio del timor la rende esangue,
Ma
vergogna e amor le accende il sangue.
Mentre
così tra sé pensa e ragiona
E
vegliando sospira e piange in vano,
E
al lume del carbonchio amor la sprona
A
tuor quel scritto mille volte in mano,
Improviso
romor la stanza introna
Che
le par nel giardin poco lontano,
Sente
ferri sonar, gridar persone,
Onde
timida s'alza e va al balcone.
Era
all'occaso in quel gita la luna
E
tutto era il giardin tenebre e ombra,
La
fanciulla si pone all'aria bruna
E
paura infinita il cor le ingombra.
Ma
in breve più non sente cosa alcuna
E
lo strepito, e 'l grido intorno sgombra,
Talché
senza saper ciò che si fosse
Tutta
pensosa in letto ritornosse.
La
cagion di quel strepito ch'udio
La
bella figlia nel giardin fu questa:
Giaceva
Floridor tra i fior, com'io
Dissi,
con quel pensier che 'l cor gl'infesta,
E
del novo amoroso suo desio
Pensando
or l'alma avea gioiosa or mesta,
Intanto
ode chi parla e chi risponde
Con
basso mormorio tra quelle fronde.
Uno
dicea: – qual più felice stato
Del
nostro imaginarsi alcun potria?
Qual
uom sia più di me lieto e beato
S'io
posso far la bella donna mia?
Il
dolce viso suo benigno e grato
Mi
promette dolcezza e cortesia,
L'aria
soave, el bel sereno ciglio
Mi
dà speme, favor, grazia e consiglio. –
–
Deh signor mio
(quell'altro gli rispose),
Guardi
ben vostra altezza ove si pone.
Le
donne son gentili e amorose
E
si mostran ben grate alle persone,
Ma
quando lor si chieggion quelle cose
Che
'l donarle d'infamia è lor cagione
Ciascuna
è sì contraria e sì nimica
Che
si perde in un punto ogni fatica.
Né
credo mai che tanto alta donzella
Di
macchiar l'onor suo fusse contenta,
Anzi
temo io come saliate a quella,
Sì
che vi veggia o almen ch'ella vi senta,
Alzerà
sì la voce empia e ribella,
Che
la famiglia ancor non sonnolenta
Trarrà
a quel grido, e per menarla a noi
Ne
potreste restar per sempre voi.
Con
quella riverenza e quel rispetto
Che
deve il servo al suo signor avere,
Io
v'avertisco il periglioso effetto,
Che
può seguirne e faccio il mio dovere. –
–
Ben conosco fratel,
ch'onesto affetto
(Quel
primo replicò) ti fa temere,
Ma
fin ad or di te prendo stupore
Ch'abbi
sì poco ardir, sì basso core.
Non
dubitar, non fia tal gita invano
Ch'io
son dell'amor suo più che sicuro,
Pur
se sarà il destin tanto villano
Che
mi serbi la morte entro a quel muro,
Che
contra il rio sicario armi la mano,
Ti
prego, ti comando, e ti scongiuro
Fa
del tuo gran fratel vendetta degna
S'in
te giusta pietà, se valor regna. –
Promette
quei, così d'accordo vanno
Per
corre il fior delle fanciulle adorne,
E
una scala di lin ch'arrecat'hanno
Attaccano
a una pertica bicorne,
E
ben studia finir l'ordito inganno
La
coppia rea prima che Febo aggiorne,
Che
forse li sarebbe anco successo
Se
non che Floridor troppo ebbe appresso.
Accanto
al muro, a quel balcon diritto
Dov'il
buon Floridor scese pur prima,
In
terra il legno avean piantato e fitto
E
l'un s'accosta ove montar fa stima,
L'altro
tenea la fune el fusto ritto
Mentre
salisse il suo compagno in cima,
E
se ne va con mente infame e rea
Per
involar la bella Celsidea.
Quando
il buon Floridor l'oltraggio intende
Che
di far pensa il cavalliero audace,
E
che conosce il danno e che comprende
Che
seguir ne potria se soffre e tace,
Subitamente
in man la spada prende
E
grida: – Ahi, rio ladron, ladron rapace
Ben
sei, se credi in tutto e stolto e cieco
Far
questo scorno al regio sangue greco.
Gli
due, che l'un di Persia il signor era
E
l'altro un suo fratel detto Marcane,
Empir
d'ira e stupor la mente altiera
Alle
parole ingiuriose e strane.
E
all'improvisa voce orrenda e fiera
E
questo e quel dall'opra si rimane,
Che
Floridoro ardito come suole
Lor
sopravien senza più dir parole.
E
benché sia senz'arme al poco lume
Che
gli rendea dal sommo ciel le stelle,
Di
far battaglia e vincer gli presume
E
al re di Persia intacca della pelle,
E
già scorrer gli fa di sangue un fiume
Per
le ricche armi d'or lucenti e belle,
E
perché sopra il braccio il colpo è sceso
Gli
fé il brando cader, ch'avea in man preso.
Il
feroce Marcan, ch'assalir vede
Il
suo fratel da chi non sa chi sia,
Un
colpo a Floridor sul capo diede
Che
furioso incontra gli venia,
Ma
Floridor che 'l suo pensier prevede
Oppone
il brando alla percossa ria,
Sì
che quando col suo l'altro percosse
Lo
spezzò in due come di legno fosse.
E
la punta di balzo venne a corre
Il
re di Persia e 'l fé d'un occhio cieco.
Floridor
non s'indugia un colpo a sciorre
Sopra
il fiero Marcan che la vol seco.
Intanto
il re va la sua spada a torre
E
va di dietro al valoroso greco,
E
con tutta l'angoscia che ne sente
Mena
un colpo terribile e possente.
Pensò
troncargli il collo, e ben seguito
Saria
senza alcun dubbio il rio pensiero,
Se
non che 'l suo fratel, ch'era stordito
Dal
colpo ch'avea avuto orrendo e fiero,
Tra
ch'era poco lume e avea smarrito
La
conoscenza, il buon giudizio intiero,
Proprio
in quel punto in fallo il fratel colse
Per
Floridor, ch'egli al garzon si volse.
Con
quella spada rotta a mezza fronte
Lo
fere sì che 'l parte insino al mento,
E
così l'infelice re Acreonte
Per
man del suo fratel rimase spento.
Credendo
aver ben vendicato l'onte,
Dice
Marcano a Floridor contento:
–
Dissi ben io,
signor, che 'l tempo e 'l loco
Non
fan per noi troppo sicuro il gioco.
Un
picciol foco è morto e un via maggiore
Suscitar
ne potria da queste mura,
Levianci
via di qua, per Dio, signore,
Ch'un'altra
volta avrem miglior ventura. –
Floridor,
che comprende il grande errore
Del
cavallier, che cerca a far sicura
Al
fratel quella vita che gli ha tolta,
Senza
parlar con gran pietà l'ascolta.
Ben
pensa che sia fuor dell'intelletto
Non
conoscendo il re di vita fuora,
Che
pur sapea, ch'avea lo scudo al petto
E
dell'altre arme era coperto ancora,
E
che egli in testa non vi tien elmetto
Né
altro schermo ha dalla spada in fuora.
Ma
poi ch'in tanto error sommerso il vede
Dietro
gli move taciturno il piede.
Giunsero
in breve ad una porta angusta
Che
rispondea sulla strada maestra,
La
qual fu (perché frale era e vetusta)
All'entrar
e all'uscir facile e destra.
Era
già più che mai bella e venusta
La
candida alba apparsa alla fenestra,
Quando
Marcan nell'esser suo tornato
Scorse
che Floridor non era armato.
A
prima giunta prese maraviglia
Come
non fosse d'arme il re guarnito,
E
poi meglio afisando in lui le ciglia
Scorse
un volto sì bello e sì polito
Che
mentre l'intelletto rassottiglia
Comprende
il caso e ne divien smarrito,
E
più che va volgendo per la mente,
Sta
per morir tanto dolor ne sente.
E
perché gli parea che Floridoro
Era
stato cagion di sì mal opra,
Che
minacciando avea assaliti loro
E
con la spada era lor corso sopra,
Qual
cruda tigre o qual feroce toro
La
forte branca o 'l duro corno adopra,
Tal
sopra Floridor la spada mena
Per
isfogar la sua gravosa pena.
–
Ah, disse Floridor,
non ti ricorda
Ciò
che vivendo il tuo fratel ti disse,
Quando
a tuoi detti fé l'orecchia sorda
Sperando
ch'ad effetto il pensier gisse,
Che
s'avenia per colpa dell'ingorda
Sua
volontà ch'a morte ne venisse,
Non
cessaresti che pietoso e forte
All'uccisor
di lui daresti morte.
Dunque
se stato sei tu quell'istesso
Che
la misera vita gli hai levata,
Ben
dritto sia se te gli uccidi appresso
Acciò
che l'ombra sua resti placata,
Né
dar la colpa a me del rio successo
Che
la vostra pazzia caggion n'è stata.
Pur
quando brami aver meco battaglia
Eccomi,
ancor che senza piastra e maglia.
Non
sperar perch'io sia solo e senz'arme
Che
di sì vile impresa abbia spavento,
Non
potria tutto 'l mondo spaventarme
Né
tutto 'l mondo a te dare ardimento.
Ma
spero ben che potrò tosto armarme
Di
queste tue che son nere e d'argento,
E
se non ti fei pria noto il tuo errore
Fu
per pietà di te non per timore. –
Era
tanto Marcan di rabbia acceso
Che
non gli par né vol che dica il vero,
E
aveva a due mani il brando preso
Per
menargli d'un colpo orrendo e fiero.
Or
mentre Floridor si tien difeso,
Ecco
lor sopragiunge un cavalliero
Che
disfidò Marcane e minacciollo,
E
a Floridor pose uno scudo al collo.
Quando
conosce il timido Marcane
Che
contra due non potrà far contesa,
Dalla
battaglia subito rimane
E
crede nel fuggir la sua difesa.
Il
cavallier ch'era sì come il cane
Dietro
all'odor venuto a quella impresa,
Poscia
che fu l'empio Marcan discosto
A
Floridor si diè a conoscer tosto.
Il
savio Celidante, che pensiero
Avea
di Floridor come di figlio,
Avendo
aviso che 'l garzon altiero
Posto
era in un grandissimo periglio,
Guidò
Filardo suo per quel sentiero
A
dargli aiuto e gliene diè consiglio,
E
lo scudo gli diè perché gliel desse,
Acciò
dal rio Marcan si difendesse.
Si
trasse l'elmo e gli fé chiaro e piano
Così,
ch'egli era il suo fedele amico,
Che
tutta notte il va cercando invano,
Sin
che trovollo a fronte col nemico.
Come
un anno sian stati o più lontano
Quella
festa si fer ch'io non vi dico,
E
s'andaro a posar ch'era ormai giorno
E
la gente veggiava e andava attorno.
Venuto
il dì fu ritrovato morto
Il
re di Persia perfido assassino,
E
tosto fu chi fé di questo accorto
Cleardo
ch'in persona andò al giardino.
Spiacque
il caso a ciascun quando fu scorto
Ma
via più ai re del barbaro domino,
Duolsi
ognun di Cleardo, e ei l'intende
E
di giusto furor l'animo accende.
E
più li duol che sia trovato presso
Al
muro ove la figlia si raccolse,
Che
la cagion a lei di tal successo
Forse
qualche maligno imputar volse.
Ella
quando ch'intese il grave eccesso
Le
increbbe molto e molto le ne dolse,
Non
perché avesse al re di Persia amore
Ma
per gran gelosia, c'ha del suo onore.
Il
giusto re che tutta Grecia onora
Dell'innocenza
sua fa chiara fede,
Benché
fuor d'ogni dubbio il loco e l'ore
Fa
ch'a suo modo ognun favella e crede.
Intanto
fu portato il morto fuora
Sì
come il re Cleardo ordine diede,
Publicamente
in piazza fu condutto
E
'l popol corse allo spettacol tutto.
Cleardo
assiso esamina ciascuno
Della
sua corte e chiama or questo or quello,
Per
poter se trovasse indizio alcuno
Al
malfattor donar pena e flagello.
Ecco
in questo apparir Marcan di bruno
Armato
sopra un gran caval morello,
E
poi ch'al fratel morto fu presente
Così
parlò ver la cecropia gente:
–
Tu re, che miri il
mio gran frate morto,
E
voi perfide achee genti villane,
Poi
che da voi m'è stato ucciso a torto,
Poi
che nel campo acheo spento rimane,
Sappiate
pur ch'un dì di sì gran torto
Vendicar
mi vorrò, ch'io son Marcane,
E
la Persia onde sian vostre arme spinte,
Voi
mirerà poi che sarete estinte. –
Al
fin delle parole il destrier punse
E
saltò fuor del cerchio ch'avea intorno,
Né
di spronar cessò ch'al porto giunse
Ed
entrò in nave in quel medesmo giorno.
Resta
Cleardo, a cui l'alma compunse
Ira
e dolor di così fatto scorno,
Pur
però che prudente era e discreto
Ritenne
il volto saldo e 'l ciglio lieto.
E
comandò ch'in ricca sepoltura
Fusse
deposto il re privo di vita
A'
servi suoi che preser tosto cura
Che
la sua volontà fosse adempita.
E
così lo portar fuor delle mura,
E
ordinò il re che seco seppellita
Ne
fosse ogni memoria, e chi di quello
Parlasse
più s'avesse per ribello.
Gli
altri signori e cavallieri strani
Che
'l giorno inanzi stati erano in festa
E
ch'oggi, amando il re di Persiani,
L'accompagnar
con pompa atra e funesta,
Biasmando
l'empie e scelerate mani
Ch'offeso
avean così onorata testa,
E
sazi de piacer del greco regno
D'ire
alle patrie lor feron disegno.
E
furon questi il principe d'Egitto,
Che
Miricelso detto era per nome,
E
Brandilatte, il cui valor invitto
Gli
fé di Siria incoronar le chiome.
Il
superbo African giura ch'afflitto
Farà
Cleardo e le sue forze dome,
E
d'aiutar Marcan fa sagramento,
A
cui fu morto il frate a tradimento.
Il
re di Tartaria fé similmente,
Poco
del re Cleardo satisfatto,
E
minacciollo che 'l faria dolente
E
che gli avrebbe il cor del petto tratto,
Ch'era
stato cagion secretamente
Che
fu sì nobil re morto e disfatto
E
tanto più gl'incresce la sua morte
Quanto
ch'era fratel della consorte.
L'alto
Cleardo a cui né ciel né terra
Potria
metter terror molto né poco,
Sprezza
in secreto e in publico tal guerra
Che
minaccia alla Grecia e ferro e foco.
Con
tutto ciò d'assicurar la terra
Non
mancò al gran bisogno a tempo e a loco,
Ma
di lui più non dico or che m'aspetta
nell'isola
Silano di Circetta.
Dissi
di lui ch'avendo un paradiso
Trovato
a sorte in quella opaca cella,
S'era
alla mensa con Clarido assiso
In
compagnia della giovane bella,
Dove
fra suono e canto, e giuoco, e riso
L'udito
appaga, il gusto e la favella,
Ma
pur con tutto ciò non vede l'ora
Che
possa uscir di quell'albergo fuora.
Non
so, signor; se vi è di mente uscito
Per
che cagion Silano si partisse
Dall'antic'Alba,
ancor che trasferito
Fusse
dal tempo all'isola d'Ulisse.
Amor
fu che 'l levò del proprio sito
Per
la beltà che 'l petto gli trafisse.
La
fama della bella Celsidea
Mosso
a pigliar questo camin l'avea.
Ma
Fortuna a desir nostri nemica
Contra
sua voglia in Itaca il condusse,
Dove
trovò la vergine pudica
Che
l'uno e l'altro al lieto prandio indusse.
In
tutto replicar faria fatica,
Né
ciò accadea che ricordato fusse,
Basta
ch'io son tornata al chiuso loco
Dove
'l lasciai con la donzella in gioco.
Parea
Circetta in quell'età novella
Ch'è
più disposta all'amoroso strale,
E
una faccia avea gioconda e bella,
Un
aspetto dignissimo e reale;
Ma
la facondia c'ha nella favella
Ben
si dimostra alla paterna eguale,
Avea
un parlar sì dolce e sì giocondo
Ch'all'età
sua poche ebbe pari al mondo.
Ma
con tutta la grazia e la bellezza,
Onde
sì largo il ciel ver lei si rese,
Il
cavallier Silan poco l'apprezza
Che
d'altro foco avea le voglie accese.
Pur
non le vol negar quella dolcezza
Che
vien da un giovenil guardo cortese,
La
mira la vagheggia, e con ingegno
Le
mostra ognor qualch'amoroso segno.
La
giovane s'allegra nel pensiero,
Ma
finge fuor di non s'accorger punto
Che
sì leggiadro e nobil cavalliero
Fusse
dell'amor suo trafitto e punto.
Ahi,
falso amor, come sovente il vero
Nascondi
e mostri un petto arso e consunto,
Fai
che tal ama e alcun mai non gli crede,
Altri
poi finge e se gli presta fede.
Finito
il desinar splendido e magno
Che
lungo fu, non fer molta tardanza
Il
Principe d'Italia e 'l suo compagno,
Ma
ritornaro a rimirar la stanza,
Dove
senza d'artefice guadagno
Fu
già intagliata e fuor di nostra usanza
In
aspro e lucidissimo diamante
La
nobil gente ch'io vi dissi inante.
Non
si può saziar di contemplarla
Del
re latin la stupefatta prole,
E
giureria che quel ragiona e parla
E
questo tace e ascolta le parole.
Ma
chi l'alto saper ch'ebbe a ritrarla
La
figlia incomparabile del sole
Mi
presterà, sì che narrarne parte
Oggi
a voi possa in così basse carte?
E
le grandezze esprimere e gli onori
Che
seguir poi nel secolo futuro
D'una
illustre fanciulla i cui splendori
Dalla
gran maga antiveduti furo?
E
con che strazi uscir con che dolori
Un
parto sì perfetto e sì maturo
Dovea
nel colmo dell'orribil guerra
Che
fé di sangue uman correr la terra.
Tu
sacro Cinzio, a cui la bionda chioma
Corona
il casto e sempre verde alloro,
Tu
che mirasti a quell'antica Roma
Che
già 'l tartaro vinse, il turco e 'l moro,
E
ch'ebbe di trofei sì ricca soma,
D'onorati
trionfi e di tesoro,
Ben
sai ch'a dir di lei fu vile impresa
A
paragon d'una miglior c'ho presa.
Però
di sì leggiadro, alto concetto
ove
si perde ogni più ardito ingegno,
Scopri
l'alte eccellenze al mio intelletto
E
apri il varco a stil più raro e degno,
Poi
che nell'altro canto il più perfetto
Miracolo
del mondo a spiegar vegno;
Pur
che sia grato all'alma patria mia,
Ch'a
suoi gran pregi alto principio dia.
|