CANTO
DODICESIMO
Argomento
Narra
Circetta ai cavallier latini
L'imprese
di VENEZIA illustri e rare,
Com'ella
i fondamenti suoi divini
Dovea
locar (come poi fè) nel mare.
Dei
terrestri trionfi e dei marini,
Di
mille onor, di mille palme chiare
Gli
fa capaci, e nel fatato muro
Lor
fa ogni gesto suo veder futuro.
Chi
provò mai sì avventurosa sorte
O
nella nostra, o nell'antiqua etade,
Dai
liti iberi alle caucasee porte
O
dall'ardenti all'umide contrade,
Che
potesse trar vita dalla morte
E
tesoro cavar di povertade,
Di
guerra pace, e gran piacer di duolo,
E
d'infiniti petti un voler solo?
Fortunata
città; tu sola il cielo
Avesti
al nascer tuo largo e cortese,
E
di tai privilegi ornasti il velo
Che
scordò il mondo le passate offese.
Anzi
sforzato fu (se 'l ver non celo)
A
benedir le sanguinose imprese
De
l'immanissimo Attila, ch'a foco
E
a ferro pose Italia in ogni loco.
Distrusse
tutte l'altre, e fé una sola
Sorger
città delle reliquie sparse,
Per
cui la mesta Italia si consola
E
ne godon le terre e le mur'arse.
Vita
costei dell'altrui morte invola,
Dell'altrui
povertà splendida apparse.
Questo
con tutto ciò, ch'a lei s'aspetta,
Vol
riferire ai cavallier Circetta.
S'eran,
com'io dicea, con l'eloquente
Giovane
presso i cavallier condotti,
Dove
apparean della futura gente
Le
lunghe istorie con diversi motti;
Mà
di ciò che dir voglian finalmente
Non
si pon far da sé medesmi dotti,
Né
per legger di brevi e di scritture
Possono
interpretar quelle figure.
Quattro
quadri per faccia eran distinti
Tra
una fenestra e l'altra; e da quel lato
Nel
primo appar d'uomini d'arme cinti
Un
infinito esercito adunato;
Parean
di sangue uman bagnati e tinti
Strugger
il più bel loco e 'l più pregiato
Che
fusse al mondo (ahi, troppo iniqua stella)
E
di sopra era scritto ITALIA BELLA.
Stavano
intenti a quell'orrendo marte
Ch'uscir
vedean di quella gente armata,
La
materia lodando e insieme l'arte
Onde
sì vivamente era intagliata,
Quando
la bella donna a quella parte
S'accosta
anch'ella e per mostrarsi grata
Al
suo Silan di quanto gli promise,
Così
l'istoria a raccontar si mise:
–
Fu di mia madre il
principal intento,
Quando
mostrò sì bei ritratti espressi,
Sol
per far noto a noi dal fondamento
D'una
illustre città gli almi successi.
Di
lei l'avventurato avvenimento
E
la gloria mostrò de suoi progressi,
Poi
ch'in lei fiorirà donna col tempo
Che
sia onor del suo sesso e del suo tempo.
Di
questa altera e gloriosa donna
Prevedendo
l'ingegno alto e sottile,
E
come vestirà sì chiara gonna
Di
bei costumi e d'ogn'atto gentile;
E
che fia di virtù salda colonna
Sì
che null'altra a lei sarà simile,
Tanto
mia madre amor li pose sopra,
Ch'a
gloria sua fé sì mirabil opra.
E
anco ciò più volontier descrisse
Poi
ch'ella in sposo avrà (felice sorte)
Un'almo
eroe che da mio padre Ulisse
Discenderà,
di lui più saggio e forte.
Il
bel nome di lei ch'a me predisse,
Di
sì degno signor cara consorte,
BIANCA
è, che rende ogn'altro oscuro e fosco,
E
ei FRANCESCO sia gran duca tosco.
Or
mirate quel re superbo e crudo,
C'ha
il gran flagello in loco della spada,
Contra
cui non varrà maglia né scudo
Alla
misera Italia che non cada;
Attila
nome avrà, di pietà nudo,
Ch'allagherà
di sangue ogni contrada,
E
struggerà con mille infami esempi
L'eccelse
torri e gli onorati tempi.
Vedete
il fior delle famiglie illustri,
Ch'abandonar
la cara patria denno,
Per
viver, se potran, più lunghi lustri
E
a fuggire avran fortuna e senno.
Mirate
come son pronte e industri
A
dar le spalle al regnator di Lenno,
Benché
col viso tinto di paura
Mirino
ancor lontan l'amate mura.
Così
pria, che da gli Unni arsa e destrutta
Con
le terre vicine e le lontane
Sia
la città d'Antenore costrutta
Delle
reliquie nobili troiane,
Si
troverà la nobiltà ridutta
Delle
misere genti italiane
Ad
abitar fra i più deserti scogli
Con
le sostanze lor, con le lor mogli.
E
veggendo sicura la marina
Per
li tesor, per la servata prole,
Daran
principio alla città divina
Ch'empirà
poi di maraviglia il sole.
O
fortunata italica ruina
Che
innalzerà così superba mole,
Che
fia cagion di partorir nel mondo
Un
mostro sì stupendo e sì giocondo.
E
ben c'abbia di pria ne i lazii prati
Raro
cespo a fiorir d'alme radici
Che
i figli dalla lupa nutricati
Vi
pianteran con opportuni auspici,
Non
però avrà così benigni i fati
Come
questo gran germe e i cieli amici,
Il
qual frondi aprirà sì ricche e belle,
Che
l'orneran sì come il ciel le stelle.
E,
sebben quello insin ad or si vanta
Che
'l capo in lui della futura fede
Resider
dee di quella fede santa,
In
ch'ora alcun non spera, alcun non crede,
Non
men del mar questa celebre pianta
Si
pregia e stima e punto non gli cede,
Che
mille volte sia per lei difesa
Roma
col papa e la cristiana chiesa.
Questa
immortal republica non Marte,
Non
Giove adorerà, non altri mille
Gentili
dèi, ch'or hanno in ogni parte
Del
mondo sacrifici, are e faville,
Ma
solo un Dio, di cui predetto parte
Hanno
le prudentissime Sibille;
Che
venir dee per trar d'errore il mondo,
Che
cieco or giace e tenebroso al fondo.
Di
questo poi che sia successo in terra
L'alto
e miracoloso avvenimento,
Comincerà
la sopradetta guerra
Anni
cinquanta aggiunti ai quattrocento.
E
così allor per gloria della terra
Si
fonderà nel liquido elemento
L'alma
cittade al cui felice stato
Eterna
libertà promette il fato,
Bench'al
venir di Radagasso in prima
Con
Gepidi in Italia e Goti sia
D'abitar
questo sen l'origin prima
Che
lo spavento i popoli v'invia;
E
Alarico un'altra volta opprima
Ogni
cor sì (che dopo un tempo fia)
Che
per tema il terren patrio gradito
Cangia
con questo mar, con questo lito.
Vedete
come cresce a poco a poco
Quasi
fanciulla ingenua, alma e gentile,
E
par che 'l ciel, la terra, il mar e il foco
Donin
favore al suo ridente aprile,
Ch'i
fondamenti suoi nell'onde han loco
Miracolosamente
oltra ogni stile.
Il
ciel la copre e la sostien la terra
Non
men del mar, che la circonda e serra.
Né
questi pur, ma sì lieta e ridente
Ai
bei principi arriderà fortuna,
Che
mentre in altre parti avrà la gente
La
sorte al suo desir contraria e bruna,
S'amplierà
costei quietamente
Senza
contrasto e senza guerra alcuna,
E
grande aquisterà forza e vantaggio
Prima
che pensi alcun di farle oltraggio.
Né
mai sì bella e sì leggiadra forma
Fu
vista al mondo o su nel ciel superno
Com'in
costei, che di virtute l'orma
Seguirà
ogni or nel suo divin governo;
Tal
che per lei convien che 'l vizio dorma,
Anzi
che muoia e scenda nell'inferno.
Felice
dunque e cinque volte e sei
Beato
l'uom, che nascer debbe in lei.
E
più felice e più beato quello,
A
cui l'affezion prestando ardire
Depingerà
con stil leggiadro e bello
Non
la di lei beltà, ma 'l suo desire.
Che
non fia mai così divin pennello
Che
pur le sappia il manto colorire,
Ond'almen
dee di generoso affetto
Tal
nome aver che ne fia sempre detto.
E
perché di sì degna alma figura
Voi
ne veggiate il vero esempio espresso,
Eccol
di qua, non di superbe mura
Ma
di mar cinto, anzi fondato in esso.
Il
breve là di sopra è la scrittura
Ond'e
VENEZIA, il suo bel nome impresso,
E
se vi fusse spaZio seguirebbe:
«A
cui l'Europa e tutto 'l Mondo debbe.» –
Cosi
dicendo una Città superba
Addita
loro in mezzo 'l mar fondata,
Ch'in
sé tal mestà, tal gloria serba,
Che
par divinamente fabricata.
In
forma poi d'una donzella acerba
Nel
terzo quadro a studio era intagliata,
Ch'a
guisa di regina eccelsa e diva
Siede
e ha in man la preziosa oliva.
Dall'un
de lati una fanciulla bionda
Le
porge riverente una corona,
E
specchiandosi in lei tutta gioconda
D'un'altra
sé medesima incorona;
Indi
una giovenetta rubiconda
Di
lieta palma un ramuscel le dona,
E
un di verde allor dall'altro lato
Le
dà un garzon di ricche spoglie ornato.
Un'altro
bel fanciul pur da quel canto,
Ha
tra le labbra una sonora tromba,
E
par che tanto suoni e suoni tanto
Che
tutto l'universo ne rimbomba.
La
damigella instrutta dell'incanto,
Disse:
– Costei ch'a guisa di colomba
Porta
l'olivo glorioso e sacro
È
di Venezia bella il simulacro.
La
nobil giovanetta, che l'ammira
E
di ricca corona ornar la vuole
È
detta gloria, e questa che rimira
Più
fiso in lei, che l'aquila nel sole
E
mentre gli occhi al suo bel viso gira
Le
dà la palma, onde l'onora e cole,
Vittoria
è nominata; e sia ben degna
Dell'una
e l'altra gloriosa insegna.
Quel
leggiadro fanciul, che le offerisce
Il
lauro d'immortal pregio dotato
È
'l trionfo divin che comparisce
Di
sì superbi e ricchi manti ornato.
L'altro,
che per contrario non patisce
Di
vestir drappo e mostra il dorso alato
E
porge fiato all'instrumento arguto,
Da
tutti per la fama è conosciuto. –
Già
parendole aver detto abbastanza
Circetta
all'altro spazio si volgea,
Quando
chiese Silan con molta istanza
Ciò
che un leon significar volea.
–
Significa l'estrema
sua possanza –
Diss'ella.
– E il Liocorno? – ei soggiungea.
Ed
ella a lui: – Sua castità cred'io,
Che
accennar voglia: e poi così seguio:
–
Poni pur mente a
questa ultima parte,
A
sì bella union d'incliti eroi
Che
seguiran chi Pallade e chi Marte.
Parlo
de quei che sian principi suoi,
De'
quai se tutti i nomi io vo contarte
Temo
che 'l mio parlar troppo t'annoi;
Ben'alcun
ne verrò così nomando
Mentre
i fatti di lei verrò contando.
Fioriran
questi ingegni pellegrini,
Come
tu sentirai, d'età in etade,
E
con gesti mirabili e divini
Conserveran
la patria in libertade,
Mentre
fuori allargando i lor confini
Giustizia
manterran nella cittade,
Di
tempo in tempo avendo instituiti
Ordini,
leggi, magistrati, e riti.
E
benché sian nel Vatican famoso
Vari
i parer de' vari senatori,
Ch'al
ben comune, al comodo, al riposo
Concorreran
negli alti concistori,
Fia
nondimen quel sol vittorioso
(Non
per autorità, non per favori)
Che
dal sacro e giustissimo senato
Fia
come l'oro al paragon provato.
E
di sì chiare e gloriose squadre
De'
padri, figli, e principi di questa
Non
sarà figlio, principe, né padre,
Né
porterà sì ricco corno in testa,
Chi
d'esser degno di tal figlia e madre
Non
mostrerà per prova manifesta,
Tenendo
i merti suoi proporzione
Con
l'alto seggio di quel gran leone.
Quivi
si può veder, come sia eletto
Prima
da quattro e poi da quarantuno,
Ed
in che guisa il suo candido affetto
E
'l libero voler spenda ciascuno.
D'ottantasei
n'è qui un drappello eletto
Che
l'un succede all'altro e l'altro all'uno.
Che
tanti sien so senza che gli conte
Da
Paulo Lucio a Nicolò da Ponte.
I
successori lor mia madre avria
Scolpiti
ancor, ma ad escusar la vegno
Che
pien fu il quadro e più non vi capia,
Onde
non poté 'l suo seguir disegno. –
E
così ragionando tuttavia
Si
ritrovaro al fin del quarto segno;
La
donna allor che compiacer li volse
Alla
seconda faccia gli raccolse.
–
Visto, dice ella, i
fondamenti strani
D'una
eterna, divina, alma cittade,
Ben
dritt'è ancor ch'in questa parte io spiani
L'alte
sue imprese in più matura etade,
Perché
qui sian veduti i Veneziani
Spogliar
le toghe e accingere le spade,
E
divenir in terra, e 'n mar sì forti
Che
sian terror de più superbi porti.
Ma
perché cerco ognor d'esser più breve
Ch'io
possa a fin ch'a tedio il dir non vegna,
E
perché ne' primi anni ella non deve
Impresa
far de vostri orecchi degna,
Cominciarò
dal tempo che riceve
Il
primo duce la pregiata insegna,
Tanto
più ch'anco Circe, avendo sculto
Da
questi in poi, lasciò il principio occulto,
Quando
nel tempo di sua etate acerbo
Le
ancor divise e picciole isolette
Ch'un
dominio verran poi sì superbo
Fian
da tribuni amministrate e rette,
Che
scorreran dall'incarnar del verbo
Seicento
anni oltre nontasette.
E
venticinque manco di trecento
Dal
di lei memorabil nascimento.
Ora
volgete a questa gente il guardo
Ch'insieme
parla e fa amicizia e lega,
E
l'un e l'altro principe lombardo
Che
col duce primier s'accorda e lega.
Ecco
un tempo da poi che lo stendardo
Sotto
altro duce ella in lor danno spiega,
E
del sommo pontefice ad instanza
Gli
fa uscir di Ravenna e mutar stanza.
Lascierà
poi Venezia il principato
Con
speranza d'aver miglior fortuna,
E
crierà novello magistrato
Sotto
di cui non veggio impresa alcuna;
Ma
poco poi parendogli allo stato
Più
la cura de principi opportuna,
Ritorna
al duce, e al tempo che 'l domino
Terrà
Obelerio in mar vince Pipino.
Sotto
i Participatii (ch'in Rialto
L'un
dopo l'altro i primi onori ottiene),
Vince
il Friuli e dal moresco assalto
Va
qui a difender le sicane arene,
Poscia
ottenendo il Gradenico l'alto
Seggio,
Narenta in cruda guerra tiene.
Qui
contra i Saracin spiega l'insegna
E
ne riporta una vittoria degna.
Qui
si prende Comacchio, i Narentani
Son
quei colà cui tocca a star di sotto.
Quello
è Piero Tribun, dalle cui mani
L'esercito
degli Ungheri sia rotto.
Né
men vinto a temer de' Veneziani
È
Berengario, imperador condotto.
Quei
luoghi d'Istria son presi da loro,
Che
Barri aiuteran poi contra il Moro.
L'Orseolo,
quel che di tal nome fia
Secondo,
star fa la Dalmazia al segno.
L'altro
è 'l figliolo e ben convien che sia
Giovane
saggio e di maturo ingegno,
Poi
ch'è dal re stimato d'Ungheria
Degli
imenei della sua figlia degno
Vedete
qui ch'egli racquista Grado
Mentre
della sua patria ha 'l maggior grado.
Vedete
il Contarini uomo gagliardo
Rifar
pur Grado al patriarca tolta,
E
tornar sotto il veneto stendardo
Zara
che s'era al Corvatin rivolta.
Vedete
in Puglia poi vinto Guiscardo
Da
lui che la sua gente in fuga volta,
E
esaltar sì di Venezia il grido
Che
ne fia piena ogni sponda, ogni lido.
Onde
l'imperador greco per moglie
Al
successor di lui dà la sorella.
Quivi
il Faletro ottiene alle sue voglie
Le
città di Dalmazia e le castella.
Ecco
l'armata il Michael discioglie
E
manda in Asia il suo figliuol con ella,
Che
presso Rodi venirà alle mani
E
ventidue galee torrà a Pisani.
E
vincitor con fama eterna e chiara
Di
Smirna e in Puglia di Brindici fia.
Ecco
un'altro Faletro che prepara
L'armata
per andarsene in Soria.
Ecco
ritorna a obbedienza Zara
Datasi
a Caloman re di Ongaria.
Del
sangue padovan rosse le glebe
Farà
poi con suo onor presso le Bebe.
Nel
secondo quadrato a preghi giusti
Mosso
del papa ecco spiegar le vele,
E
liberarne Ioppe dagli ingiusti
Turchi
assediata. Un'altro Michaele
Qui
prende Tiro e mette a passi angusti
Con
le sue forze il popolo infedele
Avendo
quella al patriarca data
Della
città che santa sia chiamata.
E
Rodi avendo e Metelin rivolte
Alla
devozion del suo bel regno,
Con
Andro, Samo, e Scio, con altre molte
Si
mostrerà di tanto impero degno.
Questo
e 'l genero poi c'ha l'arme tolte
Contra
Pisani e rompe il lor disegno,
Riceve
Fano sotto il gran leone,
E
i Padovani vince e 'n fuga pone.
Ecco
che dà soccorso a Emanuello
Contra
Ruggier di Puglia allor signore
E
racquista Corcira e 'n gran flagello
Pon
la Sicilia col suo gran valore.
Vedete
il Moresin successo a quello
De
rei Corsali opprimere il furore,
E
mossa a Pola e a Parenzo guerra,
Tributarie
le fa della sua Terra.
Sotto
costui verran gli Anconitani,
Già
fatti amici, del dominio in lega;
E
non pur quei ma 'l re de Siciliani
Fa
con Venezia pace e si collega.
Ecco
il Michael terzo ch'i Pisani
Vecchi
nemici ad amicarsi piega.
Il
muro tracio qua rovina e spezza,
Là
di Ragusi atterra ogni fortezza.
Questa
naval battaglia, ove si vede
L'onda
di sangue orribilmente rossa,
Dove
la troppo audace aquila cede
Al
gran leon che l'ha vinta e percossa,
Sarà
tra Veneziani e tra l'erede
Dell'empio
Federico Barbarossa,
Che
scaccierà di Roma il papa giusto
E
ne fia preso il suo figliuol Augusto.
Ecco
che torna e mena Otton con esso
Il
gran Ziani e le vittrici schiere,
E
'l santo padre allegro del successo
L'abbraccia
qui come si può vedere.
Ecco
ch'in dito un'annel d'or gli ha messo
Col
qual gli dà ragion di possedere
Del
mar l'imperio, e vol da indi in poi
Che
sia soggetto a successori suoi.
Questo
è l'Imperador poi, che discende
Dove
sicuro il gran vicario regna,
Perché
l'amor paterno il cor gli accende
A
seguitar la vincitrice insegna;
E
così umiliato se gli rende
Che
'l santo piè baciar non si disdegna,
E
Alessandro allor conculca e preme
L'altera
testa, onde sospira e freme.
Nel
terzo spazio ecco mirate quante
Vele
di novo in alto mar spiegate
Son
dal Leon Cattolico in levante
Per
racquistar Hierusalem mandate.
E
da lor presa è Tolemaida e tante
Gente
del Saladin rotte e spezzate;
Qui
Pola e Zara avendo riavuto,
Si
fanno a' Triestin pagar tributo.
Vedete
la città di Costantino
Presa
da loro e l'isola dittea,
E
col Peloponneso al lor domino
Ogni
scoglio ridur dell'onda egea;
E
non pur quei, ma quanti ha 'l mar vicino
Di
Creta e insieme l'isola d'Eubea,
E
i Padovani ancora e i Genovesi
Vinti
da loro e molti altri paesi.
Ecco
che sotto il Tiepolo è soccorsa
Candia,
allor da pirati molestata.
Ecco
per torle un grave assedio scorsa
Sin
a Costantinopoli l'armata.
Ecco
fortuna che sua rota inforsa,
Come
l'ha sotto il gran leon fermata,
Che
mille e più vittorie e paci e tregue
Di
tempo in tempo e mille onor consegue.
Ecco
che a' preghi di Gregorio santo
Sopra
la Puglia andran queste galere
(Le
dovete com'io conoscer tanto
Al
ritratto leon nelle bandiere).
Queste
che son di numero altrettanto
Van
contra Federico alle riviere
Di
Genoa, che per lor si racconsola,
Zara
a Venezia ricovrando e Pola.
Mirate
un'altra impresa assai maggiore
Contra
Ezzelin di Padua allor tiranno,
Del
cui furor fia d'Attila minore
L'usata
crudeltà, men grave il danno,
Perché
quei mostrerà rabbia e furore
Contra
nimici e gli porrà in affanno.
Ma
questo a' propri suoi con infinita
Pena
torrà l'onor, l'oro e la vita.
Però
dal gran pontefice ammonito
Vedete
qui dov'io v'addito e mostro
Che
dal senato è 'l Moresin spedito
Per
trar dal mondo un sì nefando mostro.
E
vedetelo alfin di stral ferito
Mandar
lo spirto di Pluton nel chiostro;
E
Padoa, sciolta da sì grave incarco,
Respirar
sotto il protettor san Marco.
Mirate
ultimamente i Genovesi
Esser
pur dal leon perseguitati,
E
vinti quei di Fano e i Felsinesi
E
gli Istri a sua devozion tornati.
E
da lui Pera di là a pochi mesi
Presa
e disfatta, e con più legni armati
Assalir
Greci, e trarne con molt'oro
Quindeci
mille e più pregion di loro.
Vedete
qui che si farà signore
Di
Spalato, Tragurio e Sebenico,
E
che difende il muro di Antenore
Dal
signor di Verona suo nemico.
Ecco
che manda al papa ambasciatore
Per
trattar contra il turco emulo antico,
E
che 'l re di Boemia addotto in lega
Coi
principi d'Italia unisce e lega.
Ecco
nel fin, dopo molti litigi
Tra
'l veronese e 'l veneto domino,
Ch'ei
Castel Baldo acquisterà e Trivigi,
E
si farà la pace con Mastino. –
Così
la donna che scopria i vestigi
Materni
e avea lo spirto alto e divino,
Narra
a' guerrier la profezia fatale
D'una
santa republica immortale.
Spiegato
avea della seconda faccia
I
maneggi importanti e di gran pondo
Onde
si vede che Venezia abbraccia
Impresa
universal con tutto il mondo,
E
che 'l più delle volte ebbe bonaccia
Né
mai d'alcun puot'esser messa al fondo,
Grazie
che né gli Assiri né i Romani,
Né
gli Afri ebbon, né i Persi né i Spartani.
E
scorto che 'l magnanimo Silano
Non
era d'ascoltar sazio né stanco,
L'un
e l'altro di lor prese per mano
E
girò ver l'occaso il suo bel fianco.
E
disse: – Dell'imperio venetiano
Ho
detto nulla a quel c'ho da dir anco.
Di
questa bella patria ho detto poco,
Rispetto
a ciò che resta in questo loco. –
I
cavallier vaghi d'udir il resto
Drizzano
al suo parlar la mente e i rai,
Ch'udir
maggior miracolo di questo
Non
han speranza in alcun tempo mai.
Ella
con lieto e grazioso gesto
Ritrova
accenti più leggiadri e gai,
Come
quella che sa tutti i successi
Ch'eran
nel muro adamantino impressi.
–
Mirate il gran
pontefice Clemente
Che
allor fia con Venezia collegato
A'
danni della fera d'oriente,
E
di Boemia il re da un'altro lato
Per
far il duca di Milan dolente;
E
ecco sopra Genova il senato
Mandar
più legni in quel medesimo anno
E
farle giustamente oltraggio e danno.
Vedete
poi che l'alto re ch'affrena
L'isola
della madre di Cupido
Viene
a veder quella famosa arena
Che
spargerà sì glorioso grido,
Onde
di feste e d'allegrezze piena
Si
vede esser la gente, e 'l mar e 'l lido,
E
accettar con cor lieto e benigno
Il
duca d'Austria e 'l nobil re ciprigno.
Ecco
reggendo il buon Cornelio Creta
Che
si ribella e poi ritorna al segno,
E
che Trieste il Contarino accheta
Sotto
il favor del suo potente regno,
E
che resa Antenorea umile e cheta
Patteggia,
col leon famoso e degno.
E
Clodia, c'have altrui volto il pensiero,
Ritorna
ancor sotto il medesmo impero.
Contemplate
il Venier principe giusto
Che
fa punir per sue male opre un figlio.
Quel
per far danno al carrarese ingiusto
(Che
sprezza ancor del suo leon l'artiglio),
Ferrara
unisce all'animal robusto,
E
Milan seco e fa abbassargli il ciglio;
Qui
fanno pace, e quel che là si vede
È
il duca d'Austria che a Venezia riede.
E
non pur quel, ma 'l gran nipote scende
Del
re di Francia e viensen da Parigi,
Che
d'infinito gaudio i cori accende
Sendo
spenti di marte i gran litigi.
Però
feste mirabili e stupende
Fansi
in onor dell'aurea Fiordeligi,
Come
veder si ponno ultimamente
In
questo primo quadro espressamente.
Di
qua si vede che Vicenza dassi
Con
Feltro, con Belluno, e con Bassano
Al
gran dominio, il qual accorta i passi
Al
signor veronese e al paduano,
Onde
Verona e Padoa acquisterassi
Che
contra lui terran con Genua mano.
Poi
le terre dall'Ungara si vede
Redur
nel Foroiulio alla sua fede.
Ecco
tenendo il Foscari l'insegna
Il
fiorentin con questa patria unito,
Perché
'l visconte a penitenza vegna
Che
di far pace alfin prende partito;
E
con quel patto a' Veneti consegna
Ravenna
e Brescia. Indi al famoso lito
Federico
secondo se ne viene
Poi
che dal papa incoronarsi ottiene.
Le
bandiere spiegate al vento fresco
Che
portan pur la generosa fiera
Manda
Venetia qui contra Francesco
Sforza,
Duca in Milan per la mogliera.
Poi
con l'imperio accordasi turchesco,
Indi
sotto l'insegna Malipiera
Vedete
qui la pace con la copia
Unite
star come in lor casa propia.
Ma
poco poi, sendo già assunto il moro
Al
maggior grado, un'altra lite appare
Tra
'l feroce leone e i serpi d'oro,
Che
qui a Trieste ancor darà che fare;
Manda
ei nella Morea qui contra loro
Per
terra il Malatesta e lì per mare
Scioglie
l'armata il Giustinian gagliardo
E
dona Sparta al veneto stendardo.
Ecco
poi che per lor fia stabilito
Nel
suo ducato il buon Ercol da Este.
E
ecco il re di Persia a questi unito
Per
abbassar le serpentine creste.
Segue
poi l'acquisto alto e gradito,
Ch'allor
faran quelle famose teste,
Della
soave e bella isola nido
Della
dea delle Grazie e di Cupido.
Mostra
quest'altro spazio che 'l Marcello
Terrà
quell'alto e sopra umano seggio,
Sotto
di cui daran pena e flagello
All'Ottoman,
come descritto veggio.
Ecco
qui la vittoria, ecco il drappello,
Onde
i Macometani avranno il peggio.
Vedete
come altero e trionfante
Torna
da Scodra a queste rive sante.
Scorgete
sotto il Vendramin che Troia
Dall'empie
man si salva in Albania;
Quel
successor c'ha poi tal guerra a noia
Fa
pace col signor della Turchia.
Coritta
acquista, indi Ferrara annoia,
Qui
sopra il re Ferrando il campo invia,
Ferrando
re delle piacevol mura,
Che
fur della sirena sepoltura.
Questo
ch'è il Barbarico, il qual succede
Al
buon fratel, fa guerra con Gismondo
D'Austria
per le minere, onde procede
Il
più fero metal, ch'oggi sia al mondo.
Sotto
lui cava il re di Francia il piede
D'Italia,
e da lor rotto e posto è al fondo.
E
cacciato costui si rende e dona
Con
altre terre al gran leon Cremona.
Nell'altro
quadro è manifesto e piano
Di
Cambrai la memorabil lega.
Vedete
qui l'imperador romano
Col
re di Francia e quel di Spagna in lega.
Né
il ferrarese vi starà lontano
Ma
col duca di Mantoa anch'ei si lega,
Perché
l'imperio sol da Dio difeso
Resti
per sempre oppresso e vilipeso.
Ma
non potrà la forza e la possanza
Che
mostrerà tutta l'Europa insieme,
Sì
che non vaglia in lui più la speranza
Ch'egli
avrà nelle grazie alte e supreme,
Per
cui tanta difesa ancor gli avanza
Che
ripararsi può ch'altri no 'l preme.
E
squarcia l'union, scherne i furori,
E
torna più che mai ne primi onori.
Vedete
come in breve e facilmente
Va
racquistando le perdute terre,
E
per molti anni poi felicemente
Vieta
la strada all'odiose guerre.
Tal
che per lei fia chiuso lungamente
Di
Giano il tempio e non fia chi il disserre.
E
molti duci sian de cui non dico
Sin
al Venier d'ogni bontade amico.
Quest'onorato
principe la pace
Conserverà
delle felici arene.
Al
suo tempo ogni vizio estinto giace,
Fiorisce
ogni virtù, regna ogni bene,
Tal
ch'alla fama, che 'l suo pregio face
L'alta
regina di Polonia viene,
Al
suo felice e glorioso grido
Eccola
scesa al fortunato lido.
E
poi qui non si vede altra figura
Che
l'ultima è costei, però la lasso;
E
per narrar della città ventura
Un'altra
impresa all'altro lato io passo.
Della
qual fortunata, alta avventura
Molto
direi, se non che troppo lasso
Ciascun
di voi già deve esser d'udirmi,
Onde
con brevità voglio espedirmi.
Ma
pria ch'io dia principio a novi carmi
E
narri il fatto eccelso e glorioso,
Voglio
della stanchezza riposarmi,
E
voi meco signor trarre a riposo. –
Con
questo torse il piè dai sacri marmi,
Né
so se a lor fu ciò grato o noioso.
Basta,
o di voglia, o contra il lor desiro,
Alla
cortese giovane obediro.
Ella
ad una fenestra gli ritira,
Che
guarda le campagne d'occidente,
Dove
un fresco, un odor zefiro spira
Che
ristorava ogni affannata mente.
Confetto
intanto e vin soave mira
Portar
Silano in coppe d'or lucente
Dalle
donzelle di Circetta astute,
Che
fin'allor non s'eran più vedute.
E
così cominciaro a rinfrescarsi
Con
ragionar delle predette cose,
E
più dubbi i guerrier vennero a trarsi
Che
tutti accortamente ella gli espose.
Ma
mentre ch'essi stanno a ricrearsi
Ben
dritt'è ancor ch'alquanto io mi ripose,
E
somministri forze al mio intelletto
C'ha
da narrar così importante effetto.
|