CANTO
TREDICESIMO
Argomento
Seguono
i due guerrier l'istoria incisa
Di
contemplar nei quadri di diamante.
In
Armenia altri due van con Gracisa
Ove
Artemita assedia Risamante.
Della
battaglia ria l'alfier divisa
Lor
la cagion. Prende il guerriero amante
L'alta
sorella di Biondaura; ei crede,
Ch'ella
Biondaura sia quando la vede.
Cinge
con ricco e prezioso fregio
Giudizioso
artefice talora
Vil
pietra sì che piace e monta in pregio
Mercé
dei smalti, ond'ei l'orna e colora.
Così
risplende d'un valor egregio
Veste
se dotta man l'inostra e indora,
La
qual è per se stessa e rozza e vile
Ma
i ricami la fan bella e gentile.
E
io di sì bei fili adorno e tesso
La
tela mia c'ha in sé rozzo ordimento,
Che
ben può parer bella e star appresso
Qualunque
altra si sia d'oro e d'argento.
Mentre
raccolgo in lei chiaro e espresso
Della
mia bella patria ogni ornamento,
E
tutte le sue glorie altere e belle,
Di
cui la fama ascende oltra le stelle.
Dell'alte
imprese sue, del suo splendore
Rendo
quest'opra mia vaga e pomposa;
Ma
qual tra belle gemme ha 'l primo onore
La
margarita e qual tra fior la rosa;
Come
l'or tra metalli ha più valore,
Tal
sopra ogni altra eccelsa e gloriosa
È
la vittoria e fortunata a pieno,
Che
conseguì nel falso Ambraccio seno.
Della
qual ragionar volea Circetta,
Quando
per pigliar fiato i passi volse,
E
i cavallieri alla fenestra detta
Seco
ridusse e ristorar gli volse.
Ma
poi che fer ritorno, ove gli aletta
La
tralasciata istoria, i labri sciolse,
E
stendendo la man candida e bella
Mostra
gli esempi e poi così favella:
–
Mirate quante genti
ivi raccolte,
Che
gran cose trattar mostrano insieme;
Il
senato è de' Veneti, che molte
Minaccie
intende e di nissuna teme.
Questo
che parlar sembra e che l'ascolte
Ciascun
(ch'a tutti il caso importa e preme)
Il
Mocenico sia principe degno
D'alta
eloquenza e di profondo ingegno.
Appar
dapoi, che la romana sede,
E
Filippo di Spagna in favor piega
Le
forze sue della cristiana fede,
E
con quei padri al fin s'accorda e lega;
E
contra il forte re ch'in lei non crede,
Conchiudon
qui la fortunata lega.
Or
mirate di qua de i porti uscite
L'armate
de' cristiani insieme unite.
Guerra
crudel per certa occasione
Tra
'l signor turco e i Veneziani nata,
Di
por col tempo in mar sarà cagione
Così
superba e valorosa armata.
Or
quivi ecco apparir contra il leone,
Contra
la croce e l'aquila ben nata
Pertaù
general, che inanzi fasse
Con
la potente sua turchesca classe.
Di
quà, di là preparasi la gente
Scorte
l'arme contrarie esser vicine,
E
pregano il lor dio devotamente,
Che
la vittoria dal suo canto inchine.
Quei
per un regno aver ricco e potente
Preso
e condotto all'ultime ruine
Somma
speranza alla battaglia alletta,
Patria
e religion questi altri affretta.
Al
felice mattin ridente e vago
Il
sol con novi rai la testa bionda
Sporgerà
fuor del mar forse presago
Che
la sorte i Cristiani avrà seconda.
Già
quei dell'Adria e quei vicini al Tago
Solcano
inanzi e quei del Lazio l'onda.
Stanno
i dèi, stanno i pesci e i lidi intenti,
Il
ciel, la terra e tutti gli elementi.
In
questo terzo spazio è poi distinto
Lo
avvicinar delle contrarie schiere,
Epiro
è da quel canto, ivi è Corinto,
Qui
la Morea, ma non si pon vedere.
Questo
è l'Ambraccio sen di sangue tinto,
Che
renderà vermiglie le Riviere,
E
questo è proprio il mar (se 'l ver mi mostra
La
profezia) che cinge Itaca nostra.
Quinci
e quindi ondeggiando all'aria vanno
Le
varie insegne con varia fortuna,
Queste
de turchi son che dentro il panno
Portan
depinta una scemata luna;
Le
chiavi con la mitra arrecheranno
Questi
che 'l papa all'alta impresa aduna,
Venezia
ha 'l suo leon nella bandiera,
Ha
il principe spagnol l'aquila altera.
Poco
più in là mirate il fiero assalto,
Vedete
l'affrontar, che fanno insieme;
Mandan
l'arteglierie la nebbia in alto
Di
nero fumo, e il ciel rimbomba e geme,
Cadon
gli uccei sul liquefatto smalto,
Al
fiero suono ogni caverna freme,
Apron
le palle il mar di rombo tale
Che
sbalza sino al ciel l'ondoso sale.
Quell'orrendo
fracasso e quel profondo
Romor,
che non si può discerner quivi,
Quel
portar via mezze le navi al fondo,
E
in bocca all'orche dar gli uomeni vivi.
Quella
ruina non più vista al mondo,
Quella
confusion de morti e vivi,
Qual
penna, o stil sarà tanto eccellente
Che
descriva e disegni pienamente?
Or
cessata la furia e 'l grido infesto
E
dell'arme fulminee il grave danno,
Vedete
che si abborda insieme il resto
E
'l più delle galee ch'intere vanno.
Ecco
menar l'un più che l'altro presto
I
fieri brandi e i colpi, che si dànno;
Tanto
presso si son che l'opre vane
Son
d'archibugi e d'altre arme lontane.
Ciascun
con la galea seco abbordata
S'azzuffa
e quinci e quindi e taglia e fora.
Ecco
il Venier dell'adriana armata
Capo,
col brando in man sopra la prora.
Ha
la galea contraria fracassata
Con
quel valor, c'havrò in memoria ognora,
E
puossi dir con verità che tale
Virtù
sia in lui via più che d'uom mortale.
Vedete
ch'un ginocchio sanguinoso
Gli
fa nemico stral d'empia ferita,
Né
vol con tutto ciò prender riposo
Né
ritirar la sua persona ardita;
Ma
più che mai gagliardo e animoso
Espone
per altrui la propria vita,
Rivolge
francamente il petto e 'l ciglio,
Né
lo spaventa alcun mortal periglio.
Ecco
che giunto qui dove quel franco
Giovanni
d'Austria a far gran prove attende,
La
galea del nemico urta per fianco,
Spezza
e fracassa e 'l capitano prende;
E
di gloria immortal s'adorna e anco
Dal
proprio lato la vittoria rende,
Mentre
cento altri legni oppressi e vinti
Son
da cristiani e i lor contrari estinti.
Innalzano
i fideli unitamente
L'amato
nome di vittoria al cielo,
E
a quel grido orribil, che si sente,
Scorre
per l'ossa agli Ottomani il gelo.
Eccoli
tutti rotti finalmente
In
preda ai defensori del vangelo.
Fuggir
non ponno i miseri, che l'onda,
E
la fiamma i lor legni arde e circonda.
Più
d'un che dall'ardor salvar si crede
Mezz'arso
in mar si getta e un poco appare,
Ma
in breve spazio il mar tanto l'eccede,
Ch'in
foco annega, e arde ancor nel mare.
Quel
capitan, che de' suoi turchi vede
Parte
vivi abbruggiar parte affogare,
Con
sessanta galee si salva quivi,
Restan
gli altri sommersi, arsi e cattivi.
Più
d'una nave in pezzi si profonda
Con
la misera turba ivi adunata,
Chi
s'appiglia ad un legno, acciò dall'onda
La
cara vita sua resti salvata,
Ma
poco sta che sull'istessa sponda
Da
crudel colpo gli è la man troncata;
Altri
le freccie o qualche trave uccide,
Caccia
altri il ferro ove la fiamma stride.
Alfin
vedete dopo molti e molti
Incendi,
uccision, strazi e rapine,
I
soldati di Cristo ivi raccolti
Con
gli occhi al cielo e le ginocchia chine.
Alcun
bagnando l'allegrezza i volti
Di
lagrime con mani al ciel supine,
Rendono
insieme a Dio tai grazie quali
Render
si pon per gli uomini mortali.
In
questo ultimo spazio si comprende
L'estrema
gioia, ond'è Venezia oppressa,
Quando
le nove già sperate intende
Da
un Giustinian della vittoria espressa.
Per
l'immenso piacer ch'ogni cor prende
Par
che la gente sia fuor di sé stessa,
E
sì gran calca intorno il nunzio serra
Che
no 'l lascia coi piè toccar la terra.
Vedete
l'abbracciar che fanno insieme
Lagrimando
di gaudio per la via
Or
che la cara patria più non teme
Del
più forte signor di pagania.
Delle
concesse grazie alme e supreme
Lodan
nei tempi il figlio di Maria,
E
in tutta la città lieti e devoti,
Chi
rende grazie a Dio, chi scioglie i voti.
S'apron
le porte ai pregioneri in tanta
Letizia
che non pon caperla i cori,
Ciascun
della vittoria altera e santa
Mostra
il piacer con chiaro indizio fuori;
Il
poeta divin celebra e canta
Con
dolce stil gli illustri vincitori,
E
poi ch'è in man de' barbari Helicona
Qui
cantano le muse e Apollo suona.
Le
ricche gemme e 'l preziosissimo oro
Con
leggiadro spettacolo appar fuora,
Altri
scopre la seta e i panni d'oro
Con
apparenza non più vista ancora.
Ne'
giorni ch'un tal ben succede loro
Se
ben festa non è, non si lavora.
Ciascun
gli spende in giuochi, in suoni, in canti,
Come
sian baccanali o giorni santi.
Ma
che dich'io? Non pur l'umane genti
S'empion
di gaudio alla novella udita,
Ma
'l ciel, la terra e tutti gli elementi
Senton
di tanto ben gioia infinita.
I
freddi mesi della bruma algenti
Tornan
la terra verde e colorita,
Che
'l sol con chiaro e temperato raggio
Fa
nel verno apparir l'aprile e 'l maggio.
E
ben più renderà maravigliosa
Tal
novità, che negli altrui confini
Fia
la stagion, com'esser suol, piovosa
E
di frutti e di fior privi i giardini;
E
fiorirà la delicata rosa,
I
gigli, le viole, e i gelsomini
Sol
in Venezia e ne sia sol adorno
Il
terren fortunato a lei d'intorno.
Ecco
il Venier, che chiaro e trionfante,
Con
tal favor ch'esprimer non saprei,
Torna
alla cara patria altier di tante
Degne
del suo valor spoglie e trofei.
E
gli va incontra a queste rive sante
La
nobiltà di tanti semidèi;
Alla
sua giunta ognun grida e l'appella
Conservator
della sua patria bella.
Poco
dapoi che 'l suo ritorno amato
A
doppio la città felice rende,
Vedete
questo giovene onorato
Che
di Polonia al lito d'Adria scende.
È
il successor di Francia, che chiamato
Vien
da quella corona che l'attende.
Al
giunger suo così Venezia è lieta,
Che
'l gaudio e 'l bene in lei passa ogni meta.
Vedete
alfin, sendo nel cielo assunto
Il
Mocenico, uom d'immortal memoria,
Con
quanti applausi il gran Veniero è giunto
Al
maggior grado, alla più alta gloria.
Ma
poco sta che (il suo mortal consunto)
Lo
spirto chiaro di sì gran vittoria
D'angeli
accompagnato a Dio ne riede,
E
NICOLÒ DA PONTE gli succede.
Di
così degno principe discerno
Ch'immenso
sia l'onor che se gli debbe,
Sarà
del popol suo pregio e governo
Con
quel saper, che lungo a dir sarebbe.
E
se ei tal uom render potesse eterno,
Beato
lui, che gran ventura avrebbe
Poi
che sotto il favor di tanta insegna
In
lui la pace, e l'abbondanza regna.
Sotto
sì chiaro e glorioso duce
Ecco
BIANCA illustrissima CAPPELLA,
Ad
instanza di cui diè Circe in luce
I
sommi onor di questa patria bella.
Vedi
che tanto splende e tanto luce
D'ingegno
e di beltà, ch'amica stella
La
dona (onde via più sua gloria accresco)
In
moglie al Serenissimo FRANCESCO.
E
pregiata costei prima che vegna
Sarà,
e vivendo e dopo morte ancora,
Né
credo mai che la sua gloria spegna
Il
tempo ch'ogni cosa alfin divora.
E
poi che fia per tanta patria degna,
Per
stirpe e ancor per sé, com'ho detto ora,
Qual
è stupor se sia in moglier diletta
Dal
gran duca toscan fra mille eletta?
A
la gradita avventurosa nova
Delle
cui nozze splendide e regali
Tanta
allegrezza e ben Venezia prova
Che
ne darà grandissimi segnali,
E
Fiorenza gentil tanto si trova
Lieta
chiudendo in sé due teste tali,
Che
non la eccede alcun'altra cittade
O
della nostra o della loro etade. –
Con
questo e altro assai ch'in onor disse
Di
tanta donna e di sì magno duce,
La
giovinetta il suo parlar prescrisse
Che
già calava in mar Febo la luce;
E
pur Silan, c'ha nella mente fisse
Sì
belle imprese, ancora si conduce
A
mirar or da questo or da quel lato,
Rammemorando
il ragionar passato.
Poi
ch'ivi stati fur più, ch'abbastanza
I
gioveni ai conforti di Circetta,
Lasciaro
alfin di contemplar la stanza
Perché
la cena è in ordine e gli aspetta.
Silano
con lietissima sembianza
Segue
dovunque vol la giovanetta,
Né
cessa di mirarla, e per più fido
Parer
finge guardarsi da Clarido.
La
vergine tra sé loda e ringrazia
Il
cieco amor che lei fa cieca ancora,
E
con casta pietà mai non si sazia
Di
rimirar quel cavallier ch'adora.
Le
par che nel mirarla abbia tal grazia
E
sì le mostri il cor per gli occhi fuora,
Che
stima per l'amor che ne comprende
Gran
villania se 'l cambio non gli rende.
Con
queste opinion varie e diverse
Passò
la donna e i cavallier la cena,
E
poi ciascun di loro il piè converse
Dove
la donna a riposar gli mena.
Ma
non dormiron mai, ch'in ciel disperse
La
notte l'alba candida e serena
Poi
che la figlia amor fere e travaglia
E
il dubbio i cavallier della battaglia.
Né
manco questo alla donzella pesa,
Che
teme che Silan non sia di tanta
Virtù
ch'abbia l'onor di quella impresa,
Onde
convenga poi cangiarlo in pianta,
Quando
ciascun che di sì gran contesa
Resta
perdente ella per forza incanta,
E
se ben di tal opra assai si duole,
È
costretta voler quel che non vole.
Pensa
e ripensa e mai non chiude il ciglio,
Qual
sia la miglior strada e 'l miglior modo
Perché
salvi Silan da quel periglio
Senza
cangiarlo in tronco verde e sodo.
Alfin
risolta per miglior consiglio
Vol
l'incanto ingannar con questo frodo:
Pensa
invisibil farlo e vol che vada
Sin
al tempio fatal senza oprar spada.
Sa
come sia l'incanto e di che sorte,
Che
'l cavallier, che di provarlo intende,
Pur
che tratto non sia fuor delle porte
Il
fato in alcun modo non l'offende,
Però
se va, né di lui sieno accorte
L'alme
ond'il passo orribil si difende,
Pensa
senza temer di caso strano
Assicurar
la forma al suo Silano.
Ritornata
la luce, il sole e 'l giorno
I
cavallier di letto si levaro,
E
la donzella a lor fece ritorno
E
con l'usato stil si salutaro;
Ma
lor di quanto ella pensato intorno
Ai
casi lor non fa palese e chiaro.
Quei
si dispongon di provar l'incanto,
Ma
d'altro or son per ragionarvi alquanto.
Io
vo', che lasciam questi, e di lasciarli
Non
vi rincresca in tale stato un tempo,
Che
poi verremo un giorno anco a trovarli
E
li trarrem di qui forse col tempo.
Or
de li due guerrier dritto è ch'io parli
Che
non credean che mai venisse il tempo
D'arrivar
in Armenia a quella terra
Ove
patia Biondaura atroce guerra.
Cavalcan
con Gracisa a gran giornate,
(Fatto
d'Europa in Asia già passaggio),
E
veggion più città, più genti nate,
Varie
d'usanza e varie di linguaggio.
Giunser
nel fine al sì famoso Eufrate,
Che
per l'Armenia stende il suo viaggio,
Benché
oggidì l'Armenie sono due,
Mà
già per una intesero ambedue.
In
ogni loco, o sian città o castella
Di
quel reame, ovunque ergono il ciglio
Veggiono
i cavallieri e la donzella
L'insegne
sventolar del bianco giglio;
Che
'l tutto Risamante alla sorella
Biondaura
avea già tratto dell'artiglio,
E
si tenean per lei tutte le terre
Ch'ella
avea debellate in quelle guerre.
Tanto
spinsero inanzi i lor destrieri
Per
la più breve via, per la più trita,
Che
giunsero la donna e i cavalieri
Al
minacciato muro d'Artemita.
Da
copioso esercito i sentieri
Tutti
occupati son di gente ardita,
Per
tutto son trabacche e padiglioni.
Che
cavallieri alloggiano e pedoni.
Quel
giorno non aveano i terrazzani
Assalto
alcun per quanto si vedea,
Non
si scorgeva alcun menar le mani,
Come
ogni giorno inanzi si facea.
Giunti
che furo in campo i guerrier strani
Con
Gracisa, ch'un vel posto s'avea,
Videro
un gran duello incominciato
Tra
duo guerrieri in mezzo uno steccato.
Gli
Artemitani ascesi in su le mura
Mesti
contemplan la crudel battaglia,
Gli
eserciti di fuori alla pianura
Stanno
a mirar qual di lor due più vaglia.
Siedono
in alto i giudici c'han cura
Della
giustizia che le parti agguaglia,
Intanto
i due che fan l'orrendo marte,
A
riposar si traggono in disparte.
Era
ciascun sudato e sanguinoso;
De'
lor destrier, l'un giace in terra spento,
L'altro
rodendo il fren rendea spumoso,
Che
di verde e di bianco ha 'l guarnimento;
Ma
l'un guerrier non mostra di riposo
Aver
bisogno e sta con ardimento,
L'altro
stassi appoggiato in gran pensieri
Com'uom
che di sua impresa poco speri.
La
coppia de'guerrier che venuta era
Con
Gracisa accostossi ad un alfiero,
E
dimandolli con gentil maniera
Chi
fosse l'uno e l'altro cavalliero,
E
perché si facea la pugna fiera
Lo
supplicò che lor dicesse il vero.
L'alfier
sopra costor le luci fisse
E,
miratoli alquanto, così disse:
–
Quel cavallier dal
lato di levante
Ch'in
verde scudo arreca il giglio bianco
È
la nostra regina Risamante,
Che
non ha 'l mondo un cavallier più franco.
L'altro,
che mal per lui le venne innante,
Con
la bianca colomba al lato manco,
Di
Babilonia è il re Cloridabello,
Che
per Biondaura fa sì gran duello.
Biondaura
già partecipar non volse
Con
la sorella sua di noi regina
Questo
reame, e a sprezzar si volse
Costei,
ch'era lontana e peregrina,
Perché
di casa un mago già la tolse
Del
re suo genitor sendo bambina,
Il
qual, morta stimando la fanciulla,
A
morte venne e non le lasciò nulla.
Risamante
dal mago fu allevata
In
ogni prova e arte militare
Dentro
una rocca ch'è nel mar fondata,
Ma
dove non si sa che non appare.
Quindi
(poi che benissimo informata
L'ebbe
dell'esser suo) la fé passare
In
terra ferma e gire alla ventura
Provvista
di cavallo e d'armatura.
Risamante
a Biondaura (poi ch'uscìo
In
libertà) la parte sua richiese,
Ma
la sorella al suo retto desio,
Al
giusto dimandar non condiscese;
Talché
sdegnata Risamante unio
Gran
gente e venne sopra il suo paese,
E
'l tutto le ha di man tolto con scorno
Fuor
che questa città cui siamo intorno.
Ella
raccolse da diverse bande
Le
genti, che vedete insieme unite,
E
compose uno esercito sì grande
In
brevissimo spazio e il modo udite:
Il
mago a quei portò le sue dimande
Che
se le avean proferto in questa lite,
E
solo in una notte con sue arti
Guidò
tutte le genti in queste parti.
Fu
d'improviso sì nostra venuta,
Tacita
sì, sì presta oltra ogni stima,
Che
trovammo l'Armenia sproveduta
E
la pigliammo in sù la giunta prima.
Biondaura
che la nova ebbe saputa
Raccolse
molta gente e di gran stima,
Ch'alla
battaglia s'appicciò con noi,
E
sconfitti rimaser tutti i suoi.
Or
la misera figlia è rifuggita
Con
pochi suoi fidati in questa terra,
E
perché mal si trova esser fornita
Di
vettovaglie e munizion da guerra,
Ha
posto di sé stessa e d'Artemita
E
di tutto l'aver che in lei si serra
La
causa in man del re Cloridabello,
O
per salvarsi o per cader con ello.
Questo
principe acceso già per fama
Della
rara bellezza di costei;
E
per propria virtute e perché l'ama,
Venne
pur dianzi in difension di lei.
Il
patto è tal fra l'una e l'altra dama
Che
se 'l re manda l'alma ai stigi rei
O
riman preso, perde la cittade
Biondaura
e in man della sorella cade.
Ma
se per caso Risamante è quella
Che
faccia fallo e 'l re resti vincente,
Vivendo
reinvestir de' la sorella
Di
tutto quel reame incontinente,
E
de' rimover la battaglia fella
Facendo
altrove gir tutta la gente;
Così
per ischivar morti e ruine
Di
genti assai, son convenute alfine. –
Ma
non avea finito di dir questo
Anco
l'alfier che l'inclita guerriera,
Sendole
ormai 'l posar troppo molesto,
Ritornò
ardita alla battaglia fiera.
Cloridabel
non fu di lei men presto
E
menò un colpo alla donzella altiera,
Ma
scarso alquanto fu, che se cogliea
A
pien la spalla destra le fendea.
Pur
tagliò di maniera ch'uscir fenne
Il
sangue vivo l'arme luminosa;
Risamante
al gran colpo in viso venne
Vermiglia
più che in sul mattin la rosa,
E
fu lo sdegno tal che ne divenne
Poco
men che insensata e furiosa,
Perché
se tinta è ben di sangue tutta
Non
era ancor del suo macchiata e brutta.
Spinta
da gran furor lo scudo getta,
E
con ambe le man la spada presa,
Disegna
far sul capo la vendetta
Più
debita alla man che l'avea offesa.
Cloridabello
alza lo scudo in fretta,
Visto
il colpo calar, per sua difesa,
Taglia
in due parti il colpo altier lo scudo
E
penetra nel capo il brando crudo.
Il
re stordito cade e 'l verde piano
D'un
corrente ruscel vermiglio irriga;
La
guerriera, c'ha 'l cor molle e umano,
Vistosi
il meglio aver di quella briga
Gli
corre sopra e con pietosa mano
Dell'elmo
sanguinoso il capo sbriga,
E
dimostra a ciascun la sua vittoria
Nel
volto smorto, ond'ha trionfo e gloria.
L'aer
che prese il re dell'elmo privo
Qualche
spirito in lui serbò di vita,
Onde
rivenne e dimostrossi vivo,
Ma
preso in man della donzella ardita.
Spargeva
intanto un lagrimoso rivo
Biondaura,
avendo la novella udita
Da
alcuni suoi, ch'avean nel campo scorto
Il
suo re preso e lei giunta a mal porto.
A
Risamante i giudici donaro
La
palma e l'adornar di lauree fronde;
Si
tolse ella l'elmetto e mostrò chiaro
Il
suo bel viso e le sue chiome bionde.
Ma
come il re prigion, che sente amaro
Duol
per Biondaura e dentro si confonde,
Costei
mirò tanto simile ad ella,
Pensò
che fusse la sua donna bella.
–
Non è questo
(dicea) l'amato volto
Che
mi stampò nel cor la man d'Amore?
Non
son questi i begli occhi, che m'han colto
Al
dolce laccio e posto in dolce errore?
Io
non son già sì cieco, né sì stolto
Che
non conosca chi m'ha tolto il core.
Dunque
dalla mia dea restai conquiso,
E
rimango prigion del suo bel viso.
Maraviglia
non è s'ella mi vinse
Poi
che prima m'avea preso e legato,
Ché
altri che costei mai non mi strinse
Tanto,
né potea pormi in tale stato.
Ma
presso la bellezza, onde m'avinse
Non
credea che valor tanto pregiato
Regnasse
in lei, né so per qual cagione
Abbia
voluto far meco tenzone.
Felice
inganno, se ingannar mi volse
Per
mostrar forse a me la sua virtute,
Beate
piaghe e 'l sangue, che mi tolse
Quando
col guardo suo mi dà salute.
M'aggreva
sol (né d'altro unqua mi dolse
Tanto)
delle percosse ricevute
Da
lei per me, dei colpi iniqui e rei
Che
per troppa ignoranza io diedi a lei. –
Così
dicea quell'infelice amante,
E
certo non credea di restar preso
Parendoli
che fusse Risamante
La
bella donna ond'avea 'l petto acceso,
Per
non saper che tanto simigliante
La
giovene che seco avea conteso
Era
a Biondaura, che ciascun prendea
L'una
per l'altra e 'l ver non discernea.
Con
gran pietà fé l'inclita guerriera
Quel
re condur nel regio padiglione
E
medicar, che forte piagato era,
Trattandolo
da re non da prigione.
In
questo uscir della cittade in schiera
Le
più onorate e nobili persone.
Quel
che poi ne successe altrove io canto,
Ch'ora
di Celsidea vuo' dirvi alquanto.
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