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Modesta Pozzo de' Zorzi (alias Moderata Fonte) Tredici canti del Floridoro IntraText CT - Lettura del testo |
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CANTO PRIMO
Argomento
Giunto Macandro alle Cecropie mura Abbate tutti i cavallier di Corte. Segue il destrier dentro una selva oscura Lungi il Sican da le Palladie porte. Gli narra una donzella l'avventura Della ghirlanda, e di Parmin la sorte. Macandro in gran terror pon tutta Atene, Alfin un cavallier contra gli viene.
Scegli d'ornati, e ben composti accenti Il più bel fior, leggiadra Musa, e canta Li spogliati trofei, gli incendi spenti Dal tempo, ond'ancor Marte e Amor si vanta. Di' le battaglie rie, le fiamme ardenti, Ch'uscir da l'arme, e dalla face santa Allor, che 'l fero Dio gli altari avea, E Ciprigna adorata era per Dea.
De' cavallieri, e de le donne illustri, Fa' che di quelle man, di questi petti Viva il pregio, e la gioia eterni lustri; E agguaglia lo stil con quei concetti, Ch'escon de' pensier miei vaghi e industri, Mentre al raggio purissimo, e divino D'un'alma coppia il rude ingegno affino.
Della nobil da noi fatica presa, Favorirà per così lunga via Quel bel desir di c'ho la mente accesa; Altrimenti quest'opera saria Oscura troppo, e mal guidata impresa, Né sperarei, senza il suo lume grato, Di pervenirne al fin sì desiato.
Del fortunato Imperio di Toscana. Voi, che quel sete, senza il cui favore Ogni fatica mia reputo vana; Degnisi il vostro generoso core, Per l'alma sua virtù via più ch'umana Talor rivolger del mio basso ingegno Gli incolti versi, che cantando vegno.
Di casto unita, e maritale affetto Lieta regnate, e grazie alte e supreme Spargete in ogni cor vostro soggetto; Voi che sete non meno appoggio e speme Di quei pensier, che m'infiammaro il petto, Non sdegnate accettar questo umil dono, Poi che fra tanti anch'io serva vi sono.
Secol famoso, in quella età novella, Ch'in Attene piovea propizio il Fato Quante può grazie dar benigna stella, Superbo in lei sen gìa del regio ornato, E d'ogn'alma virtù pregiata e bella Un Re, non men prudente che gagliardo, Giusto, e uman, che si nomò Cleardo.
Sciolti avea i voti al protettor Cupido, E la stirpe real del Re Alismondo Tolta al Sicano e tratta al Greco lido, Di cui produsse una fanciulla al mondo, C'ebbe sopra le belle il pregio, e 'l grido, E fu dotata d'eccellente ingegno, Che in bel corpo non regna animo indegno.
Di costei, che fu detta Celsidea, Ei suoi costumi sì leggiadri, e santi, Che parea non mortal donna, ma dea, Tal che sua fama a tutte l'altre inanti Pel mondo gìa, né d'altro si dicea; E mentre ogn'uom di lei parla, e favella, Ogn'altra perde il titol d'esser bella.
Farsi seder questa fanciulla a lato, Con la Regina, e più donzelle intorno, Ch'eran le più gentil del greco stato. Or accade che stando in sala un giorno Co' Greci eroi nel modo, c'ho narrato, Comparve in mezzo un gran gigante e fiero, A cui rivolse ognun gli occhi, e 'l pensiero.
Ove gran tempo avea servita in vano Una giovene bella da marito, Che di quel Regno avea lo scettro in mano. De' cui begli occhi avendo il cor ferito Venuto era per lei presso che insano; E stimando più ch'altro esserle grato, Si tenea sopra ogn'amator beato.
Ch'era amante per lei disconcio troppo; Ma perché lite avea con la sorella, E temea ognor di qualche strano intoppo, Con lieta vista, e con dolce favella Lo tenea stretto all'amoroso groppo; E l'avea un tempo in corte intertenuto, Perché al bisogno suo le desse aiuto.
Beato serve e altier di tanta dama. Ode quanto gran biasmo il grido apporte Di questa greca a lei, ch'egli tanto ama, E gli accende una rabbia il cor sì forte, Che (se potesse) uccideria la fama, Pur, quando altro non può disegna almeno Sfogar nel regno acheo tanto veleno.
Di cui nel core impresso ha il viso adorno; E com'io dissi inanzi al re d'Achei Si transferì nella gran sala un giorno. Tosto ch'ei giunse, agli occhi iniqui e rei S'appresentò quella beltà che scorno Al sol facea, non che ad ogni altra bella; Della real illustre verginella.
Non osò di fermar l'uom crudo e fiero, Conobbe lei per quell'eccelsa figlia, Ch'erede esser dovea del greco impero. E ne prese tra sé gran maraviglia, Che la sua dea mirando nel pensiero Non gli parve sì vaga e bella quanto Era costei, benché l'amasse tanto.
Indarno e per l'amor ch'a lei portava, E per aver materia onde veduto Fusse il valor ch'ei tanto in sé stimava, Non volse rimaner tacendo muto, E voltatosi al re, ch'attento stava, Disse con alta e con superba voce, Ch'ognuno intese il suo parlar feroce.
Ch'alla figliuola tua tal rende onore; E per colmar di gloria il parthio lido, E all'Armenia donar luce e splendore, Io Macandro ch'in Parthia ho 'l proprio nido, E son di tanto imperio alto Signore, Son venuto a provar con l'arme in mano, Com'il grido è dal ver troppo lontano.
Con chi fra i guerrier tuoi più in pregio sale, Che la bella Biondaura, ch'agli Armeni Comanda, e al valor mio (ch'assai più vale) Di chiaro viso e d'occhi almi e sereni Vince tua figlia e non ha in terra uguale. Dico c'ha sì bel viso e sì giocondo, Che costei passa e non ha par nel mondo.
Sia per tre giorni, e di chi resta a piede (Questo patto fra noi voglio che vada) Lo scudo sia del vincitor mercede; E per ch'altro disturbo non accada, Tu m'assicurerai sulla tua fede, Che 'l patto osserveranno i guerrier tuoi, Senza ch'altro romor nasca tra noi.
Fuor della terra al grand'Olivo accanto, Et ivi aspetterò chi venga in prova Contra di me, che di provar mi vanto, Che la Regina mia sol si ritrova, I cui begli occhi e 'l cui bel viso santo Non pur non cede alla bellezza altrui, Ma non è volto uman simile a lui.
La sua proposta e ne diè segno in vista. Ma tu, bella fanciulla, che sembiante, Che cor fu il tuo per così strana vista? Il re, che vede, che quel fier gigante La bella figlia sua turba e contrista, Le dice, figlia mia sia il pensier vostro Di trovar chi difenda il pregio nostro.
Al cavalier che non gli sia mancato, E poi che 'l vostro almo e leggiadro aspetto Sparge un grido sì chiaro e sì lodato, Non troverete un cavallier perfetto, Che vi difenda il pregio che vi è dato? Vada pur il guerrier, ch'avrà ben cura Di difendervi alcun, state sicura. –
Non pose in lui terror molto né poco, E si partì con un crollar di testa, Quasi sprezzando ognun, ch'era in quel loco. Partito l'empio in corte altro non resta Da ragionar, che del futuro gioco, Che tanto aggrada lor, quanto dispiace La gran superbia del gigante audace.
Ch'era in Atene Apollideo venuto, Cui lo scettro devea di quelle mura, Che fondò de la cetra il suono arguto; E 'l re de Sparta e quel di età matura Griante così forte e così astuto. Eravi anco Aliforte di Tessaglia, Che brama esser il primo alla battaglia.
Che 'l fier Macandro alla battaglia sfide, E gode di trovarsi ivi a quell'ora, Il medesmo pensier fa Polinide. Costui venne del Regno, ove Etna ogn'ora, Sospirando Tipheo, s'accende e stride; Nipote era del re per la consorte, E venne dianzi a visitar la corte.
De la regina moglie di Cleardo, Che fur del re Alismondo e questo e quello Figli, qual fu a dì suoi tanto gagliardo. Poi morto lui fu fatto re novello Il suo figliuol che si nomò Brancardo, Padre di Polinide, c'ho narrato, E di tutta Sicilia incoronato.
Ch'uscir devean contra il gigante strano, Spesero in governar l'arme e i destrieri Per non cader sì facilmente al piano; E ben ch'ognun d'esser vincente speri, (Se la ragion dà la vittoria in mano) Non però vol mancar di porsi a mente Ogni aviso più pronto e diligente.
Per far l'antiqua scorta al novo giorno, Che d'alto suon tutta la terra sparse Del gran Macandro il formidabil corno. Subito in piazza Apollideo comparse. E rispose al gigante ingiuria e scorno. In tanto il popol vano di natura Corse in gran fretta ad occupar le mura.
Prima dal re, poi dalla regia figlia, Nè senza il suo consentimento volse Torcer un dito al suo destrier la briglia, Indi uer le gran porte il freno volse Con pochi che 'l seguir di sua famiglia, E il re con la figliuola e la mogliere, Anch'ei venne sul muro per vedere.
Fanno alla casta e bellicosa dea, Perché 'l lor cavallier l'arcion non voti, E mantenga l'honor di Celsidea, E ei; pregando che d'effetto voti Non vadino i pensier, ch'in mente avea; Lei mira nel passar, ch'in mezzo splende Di cento belle e 'l cor gli instiga e accende.
Da che mirò le belle luci sole, E dentro si struggea, qual cera inante Rapido foco, o neve esposta al sole. Ma nol rendeva Amor così arrogante, Che osasse a isguardi aggiunger le parole; Tacito egli adorava il divo aspetto, Ch'era sol refrigerio all'arso petto.
Con molto ardir che fé, l'altiero Ismeno, Brillò nel volto e giubilò nel core Il gigante di gaudio e d'amor pieno. E certo di restarne vincitore, E d'antepor al greco il pregio armeno, Si move anch'ei, ma pria che gli risponda Rivolge il guardo alla palladia fronda.
Un'effigie di donna alma e gentile, D'un aspetto sì nobile e sì divo, Che raro alcun se gli trovò simile, A questo che parea, non finto, vivo, Sì lo ritrasse un diligente stile, Inchinossi l'altier divoto e fido, E roppe insieme il ciel con questo grido.
O de l'Armenia e del mio cor Regina, Ch'essendo un cavallier vile e mortale Esaltar cerchi una beltà divina; Pur accetta il voler pronto e leale, Che sol la tua grandezza adora; e inchina, E degna, ch'io per te vinca or gli Achei, Che poi voglio anco in ciel vincer gli dèi.
Al suo destrier, che per lo prato corse; L'Agenoreo guerrier non fece manco, Che dritto verso lui la briglia torse, E andollo a colpir sì ardito e franco, Che maraviglia ai circonstanti porse; Nell'incontrar per colpa del cavallo Pose la lancia il fier gigante in fallo.
Il fier Macandro a mezzo de lo scudo, Ma doppio e ben ferrato indarno il punse, Quantunque fosse il colpo acerbo e crudo. E perché troppa forza al braccio aggiunse Fracassò l'asta insino al ferro nudo, Né si piegò il gigante, né si mosse Come una torre innanzi al vento fosse.
Con poco lor disconcio oltra passaro, E poi ch'un pezzo andar, furon voltati Da i cavallier, ch'incontra si tornaro. Macandro bestemmiò le stelle e i fati, Quando conobbe il suo difetto chiaro, E l'assaltò una furia di maniera Ch'Aletto è più placabile e Megera.
Il buon tebano innanzi si facea, Quando il gigante addosso se gli spinse, E con quella gran colera ch'avea, Prese col braccio orrendo e in guisa strinse L'elmetto del campion di Celsidea, E se 'l tirò con tanta forza al petto, Che fu a cadere il cavallier costretto.
Avea il gigante e non minor destrezza, E 'l re (non che perciò s'affligga o tema) Ben si maravigliò di sua fierezza. Le donne argive, a cui speranza e tema Combattea 'l cor, c'han fama di bellezza Molto si contristar, che 'l guerrier greco Fusse caduto e la lor gloria seco.
Ch'Apollideo di questo caso prese, Onde col brando la battaglia dira Volea seguir per vendicar l'offese; Se non che'l re, ch'a questo avea la mira, Tosto un messo mandò, che gliel contese, E insieme gli ordinò secondo il patto, Che 'l vincitor lasciasse satisfatto.
Si vedea ornar d'un novo arbor la terra, Lascia dunque al gigante Apollideo, E torna vergognoso nella terra; E nell'entrar del giovene cadmeo Uscì Aliforte alla seconda guerra, Che di tanti color vestir gli piace, C'aver suol l'arco annunciator di pace.
Ma di natura vano e arrogante, Onde vantossi innanzi al re Cleardo Di riportar lo scudo del gigante. Venne sì com'io dissi né più tardo Di lui fu l'avversario a farsi inante, Corsero il campo e presero la volta Con l'aste basse e con la briglia sciolta.
Pur allo scudo e fé sì picciol botta, Che senza aprirli pur piastra né maglia, Volò al ciel l'asta in mille tronchi rotta; Né più felice uscir della battaglia Lo vide il re della palladia frotta Del buon teban, quando nell'elmo urtollo Macandro sì che dell'arcion gettollo.
Il cavalliero e rimontò in arcione, E 'l proprio scudo all'avversario porse Con la gemmata insegna del pavone, Indi ver la cittade il freno torse, E mal contento uscì della tenzone. Intanto di giostrar tolse l'assunto Un altro cavallier, ch'era già in punto.
Dell'Amphionio re figliol minore, Sì liberal, sì di virtute amico, Che Sparta se lo elesse per signore. Venne egli incontra al vincitor nemico Per emendar del suo fratel l'errore; Porta ben nello scudo anch'ei l'alloro, Ma sopra l'elmo ha una corona d'oro.
Del frate Apollideo più destra sorte, Ch'all'incontro il terren verde percosse Restando in sella il suo avversario forte. Griante dopo lui ratto si mosse, Il più prudente cavallier di corte, E Macandro sfidò sdegnoso e fiero, Ch'era del quarto onor lieto e altero.
Col fier Macandro anco a Griante avvenne, Ch'all'incontro il terren col tergo presse, E 'l re de Parthi in sella si sostenne. Risorto il cavallier lo scudo cesse, E ripreso il cavallo indietro venne. Intanto il re d'Arcadia, Elion detto Contra Macandro espose il franco petto.
Con arme bigie e sopraveste tale, Così il destriero avea la spoglia tinta Però di color vero e naturale. Macandro intento ad acquistar la quinta Gloria, com'abbia messo al destrier ale Venne a colpirlo con tal furia in fronte, Che 'l pose a terra e v'avria posto un monte.
Era del greco re per la mogliera, Mont'a cavallo e 'l fren gli allenta e scuote, E Macandro incontrò, che già mosso era. Ma dell'arcion piegar pur non lo puote; Anzi cadde egli ancor con gli altri in schiera, E diè a Macandro il verde scudo in mano, Ove pinto una spica era di grano.
Và per pigliarlo e rimontarvi sopra, Ma 'l caval corre via tanto leggiero, Che d'acquistarlo era difficil l'opra; Non cessa di seguirlo il cavalliero, Alfin che non si celi e non si copra, Corre il cavallo e tal vantaggio acquista, Ch'esce in breve ora al suo signor di vista.
Finché cacciossi in mezzo un bosco folto, E or per quella strada, ora per questa Cercollo assai, per che l'amava molto. Una vaga donzella alfin l'arresta, La qual gli viene incontra a freno sciolto, E tenendo il destrier che più non gisse Sciolse la lingua, e tai parole disse.
Visto un guerrier d'aspetto ardito e franco Quindi passar con belle e ricche vesti, Di cui l'insegna in verde è un giglio bianco? Rispose il buon Tinacrio: – Non han questi Occhi miei tal guerrier mai veduto anco. Che nome è 'l suo? – – Nol so, – disse la dama – Sol lo conosco all'abito e per fama.
D'un gran martir che nel mio petto ha stanza, Poi ch'egli vince tutti i casi gravi, Tanto è maggior la sua d'ogni possanza. Ben narrereiti i miei tormenti pravi, E quel dolor, ch'ogni dolor avanza, Se non c'ho troppo fretta di trovare Quel gentil cavallier, che non ha pare.
Ma sempre al desir mio contrario il fato In loco a lui lontan mi gira e manda: Pur ho per spia che qui d'intorno è stato. Forse al Castel sarà della Ghirlanda, Dove concorre ogni guerrier pregiato A la ventura apparsa di novello Nel paese di Dacia in quel castello. –
Narrami questa impresa in cortesia, Dimmi come sia strana e come bella, Di che periglio e di che gloria sia. Perch'io disegno di venir a quella, E sarà forse la vittoria mia. – Quando la donna la preghiera intese Subitamente del destrier discese.
Monta in arcion, che verrò dietro in groppa, E come udii, ti narrerò per fama L'alta avventura, ove più d'un s'intoppa. – Il cavallier, che di trovarsi brama A quella impresa avventurosa troppa, Accetta il proferir della donzella, Prende la briglia e salta nella sella.
Poi verso Dacia presero il sentiero, E cavalcando, come ella promise, Così narrar comincia al cavalliero. – La Regina di Dacia, a cui conquise Lo sposo già destin crudel e fiero, Come a lui piacque, erede si rimase Nelle regali sue splendide case.
La casta Dido inverso il suo consorte (Come aver ogni vedova dovrebbe,) Che non aperse a van desir le porte, La sede marital, ch'al suo re debbe, Pensò di mantener fino alla morte, E poi ch'avea perduto il suo Signore Di viver senza sposo e senza amore.
In quella corte venne a dar di petto, E di costei mirando il viso adorno (Ch'era ancor fresca e di leggiadro aspetto) In guisa n'arse, che la notte e 'l giorno Traea caldi sospir dall'arso petto. Duca di Transilvania il giovene era, Bello di viso e di real maniera.
Altro non cerca il giovene infelice Che d'ottener la desiata dama, Che sola far lo può lieto e felice. D'arrischiar vita, facultade e fama, Per ogni via che lice, o che non lice, Non si cura egli, pur c'abbia il suo intento, C'avutol sia poi di morir contento.
Sin da fanciul d'ignobil schiatta avea, E era alla regina il più fidato, Il più caro di molti, che tenea. Pensa poter costui rendere ingrato Con danari e proporli ogni opra rea Il duca e 'l trova e come meglio puote, Prova la mente sua con queste note.
Che mentre stato in questa corte io sono, Io servitù da te, tù cortesia Da me n'avesti e più d'un ricco dono; E parmi che tra noi contratta sia Già sì grande amicizia che non sono Così grandi servigi, ov'io vedessi D'apportarti piacer, ch'io non facessi.
S'io ti scoprissi un certo mio bisogno, Tu saresti prontissimo altrettanto Ad essequir quel ch'io bramo e agogno, E porresti ad effetto il desir tanto, Che senza il tuo favor reputo un sogno; E se in questo mio affar sarai discreto, Tu ricco e io sarò contento e lieto».
Ch'egli era un ricco e liberal signore, Gli disse: «Ormai devresti conoscenza Aver del mio ver te concetto amore; Narrami questa tua nova occorrenza; Fa ch'io sappia quel c'hai chiuso nel core, Che non son cose al mondo così grandi, Ch'io non facessi a un sol de tuoi comandi.»
Che sei sì pronto e di servirmi hai brama, Sappi che molti dì son, ch'io vaneggio Per la beltà d'una leggiadra dama, E ogni giorno andrò di mal in peggio S'io non ottengo lei che 'l mio cor brama; Se non mi dai, Parmin, presto soccorso Io son al fin già di mia vita corso».
Né dubitar, ch'io non la vinci e dome». «È la Regina che 'l mio cor trafisse, Rispose Amandrian (così avea nome) «In lei le voglie mie son ferme e fisse, Ne' suoi begli occhi e nell'aurate chiome. Io te l'ho detto, ora che l'odi e sai, Non mi mancar, poi che promesso m'hai».
De la promessa sua molto pentito, Ma il cavallier, ch'era in tal pratiche uso, Tosto un ricco rubin gli pose in dito. Disse tra sé Parmin, s'io me ne scuso, S'io lascio di accettar questo partito, Quando mai più di farmi ricco il tempo Verrà, s'io non mi faccio or, che n'ho tempo?»
Grande è la tua richiesta e assai mi doglio, Che vogli, ch'io ti tenga in cosa mano Troppo nefanda, il che mai far non soglio; Pur perché 'l detto mio non resti vano, E per tua gentilezza oprar mi voglio; Dimmi pur tu ciò, che ti par che faccia, Che 'l tutto son per far, pur ch'io ti piaccia».
Come ingannar potesse la regina, Rese Parmin benissimo informato Del modo onde gabbarla ei si destina. Lascia Parmino il duca innamorato, E verso la real stanza cammina, E trova con bel modo occasione, Che la Regina il manda a Belgirone.
Da diporto un castel vago, e adorno, Qui (secondo insegnolli Amandriano) Fa quella notte il rio Parmin soggiorno; Poi, quando spunta il sol dall'oceano, Fa in molta fretta alla città ritorno, Va alla regina, e voler farla accorta Mostra d'un caso, a suo parer, ch'importa.
(Ch'ogn'un d'udir da novo ha gran diletto) E fa le damigelle e i camerieri A un cenno sol partir dal suo cospetto. Narra Parmin: «Signora, io fui pur ieri A Belgiron, come m'avete detto, Dove essequito il vostro alto comando Per lo cortil men vo iersera errando.
E miro il prato verde e 'l ciel sereno, Moversi il suolo a me propinquo veggio, Come una talpe sia sotto il terreno. Mi fermo e guardo e nel guardar m'aveggio, Che s'alza il prato e fa gravido il seno, Né molto sta, che dal terren produtto Vien un felice e mostruoso frutto.
Posso anco prestar fede e pur fu vero, Con bianco pelo e picciol corno d'oro Uscirmi incontro un bel giuvenco altiero. Fioria sotto il suo piè sì bel tesoro Di chiare gemme, che abbagliar mi fero. Dico ogni fior ch'egli calcando venne, Di perla o di rubin la forma ottenne.
Io non so allor quel che mi debba fare; Sul principio un desir m'afferra e piglia D'empir le man di quelle pietre rare; Ma novello pensier poi mi consiglia, Ch'io provi il bel giovenco di acquistare, Che non invidio all'eritree maremme S'acquisto il tor che fa fiorir le gemme.
Ma quel si scuote e al mio desir non cede, Et io lo vo pur circondando intorno, E affatico invan la mano e 'l piede. Alfin nel primo mio pensier ritorno Di farmi almen di quel tesoro erede, Mi chino e apro la man, ma quel non meno Sotto la palma mia sgombra il terreno.
Ritorno al toro e quel s'arretra e fugge, Or con quello, or con questo io mi travaglio E dolor e desir l'alma mi strugge. Il toro alfin veggendo il mio travaglio Si volge a me, né come toro mugge, Ma com'uom, ch'intelletto abbia e loquela Il fin di questo error m'apre e rivela.
La strana e felicissima avventura, Né 'l mio tesor toccare ad alcun lice, E d'acquistarmi indarno altri procura; Sol la regina tua può gir felice Del ben di cui il maggior non fé natura, La ricca preda a lei sola si deve, Per un disturbo rio ch'aver de' in breve.
Le ha da far gverra e porla in gran tristezza, Perché con l'or le mancherà la gente, E sarà in gran necessità e strettezza, E però un savio mago suo parente Pose nel piede mio questa richezza, Avendo l'empio suo caso preuisto, Perch'al bisogno ella ne fesse acquisto.
A te, che sei fra tutti i suoi più fido, Però diman la trova e falle aperto Il ben che dentro a me chiudo e annido. Dille che venga sola e sia coperto Il suo venir, nè alcun ne senta il grido; Giunga di notte e fuor che te non sia Altri che venga a farle compagnia.
Sol per virtù de i preziosi sassi». Così dicendo entro la tana ascosa Insieme ritirò le pietre e i passi. Allor s'aggiunse in un la terra erbosa, E io restai in pensier con gli occhi bassi, Né tutta notte mai potei dormire, Tanto avea di condurmi a voi desire».
Avea in Parmin per lunga esperienza, Tutto quel ch'ei le dice ascolta e crede, Quando men gli devea prestar credenza; E molto più da credere le diede, Perch'era il ver ch'un zio d'alta scienza Ella ebbe già nell'arte di Medea, Che l'avventura fatta aver potea.
Che le ha da mover guerra, e come e quando; E già più d'un discorso iniquo e fello La dubbia mente sua vien conturbando. Già, come a lei vicin fosse il drappello De nemici, si pensa ir preparando: È donna, il caso è grave che la preme E breve il tempo, ond'ha ragion se teme.
Quel che le ha detto il suo fedel Parmino, Chel felice giovenco da lui scorto Può trarla d'ogni crudo, empio destino. Onde non crede mai che resti morto Il giorno per poter porsi in camino. Non vede l'ora mai che giunga sera Per gir a Belgiron con l'aria nera.
Sì che spera di far presta tornata, Né farà l'alba al sol l'usata scorta Ch'ella nel letto suo sia ritornata. Come la notte in ciel le stelle apporta E ch'al suo loco è tutta la brigata, Parmin due corridori in punto pone, E aspetta, che dorman le persone.
Del suo liquor lo smemorato oblio, E Morfeo rappresenta in varia scena Più d'un caso a mortali o buono, o rio, Che la Regina fuor di casa mena D'acquistar l'avventura alto desio, E l'infido Parmin, di cui si fida Ella, va seco e le è compagno e guida.
Ch'in men d'un ora giunsero al castello. Dentro vegghiava Amandrian da un canto, Ch'à un certo segno aprir devea il portello. Stava ad udir; Parmin fa il segno in tanto, Né stette il duca a dimandar chi è quello; Ma chetamente aperse e senza luce E la regina dentro si conduce.
Dentro un ostel, dove non è persona; E ecco Amandrian, ch'arde e sospira Vien per sforzar la bella sua persona; Ma la cosa non va, com'ei desira, Che spesso avvien, quel ch'in proverbio suona; Che per pena riman del suo peccato L'ingannator a piè dell'ingannato.
La bella donna aver ch'ama e desia, Ma in quella vece una persona abbraccia, Che non gli par, che la regina sia, La qual così lo stringe e sì lo impaccia, Che più tenaglia stringer non potria, Nè val che si dibatta e si dimene, Che preso alfin e via portato viene.
La regina rimase al buio sola; Più d'un ohimè sentì dirsi vicino Che tutta la spaventa e disconsola. Parmin non sente più; chiama Parmino, E non s'ode rispondere parola, Non vede tor, non vede cosa alcuna, E comincia a temer di sua fortuna.
Senza punto dormir, con molto affanno, Stette finché l'aurora in ciel venuta Scoprì l'aurato suo lucido panno. Come desto ogni uccello il dì saluta, E rende il bel matin più verde l'anno, La donna innanzi a sé stupenda e nova Una superba macchina ritrova.
E risplende e traspar come un cristallo. Nell'alta cima una ghirlanda è posta Di rossi fiori assai più che corallo. La donna sbigottita se le accosta E vede in penitenza del suo fallo Dentro Parmino e 'l transilvanio duce, Che 'l muro al guardo suo chiaro traluce.
Ma il fatto ancor discerner ben non puote; E ecco nella pietra in lettere d'oro Vede uniti i caratteri e le note Che le scoprir la finzion del toro E le fer tutte quelle fraudi note. Lesse poi che Parmino e 'l duca esterno, De la pregion non uscirà in eterno
Di tal valor, che quell'incanto opprima, E spogli la piramide fatale Della girlanda posta in su la cima. «Quando (era scritto) alcun pur metta l'ale, E voli ad acquistar la spoglia opima, Se re fia quel ch'avrà sì ricco pegno, Non sia cacciato mai del proprio regno.
Quel ch'avrà la ghirlanda in sua balia, Sarà col tempo assunto a qualche impero, Né sia cacciato mai di signoria. E se a donna o donzella il cerchio altero Venirà nelle man, sicura sia, Che la sua castità le sia guardata Contra ogni mente disleale e ingrata.
Di chi quest'opra fé tanto importante, Sappi che ti guardò da tradimento Nobil Regina, il vecchio Celidante». La Regina, compreso il fiero intento Del servo avaro e dell'audace amante, Scopertasi alla gente del castello Lor fé palese il caso iniquo e fello.
S'ha poi per acquistar tanta corona. Un gran martello d'or quivi è attaccato, Con cui si batte il marmo, che risuona. Allor s'apre una porta, ond'esce armato Un re che sembra al volto e alla persona Il re di Dacia, che fu già diletto Sposo della Regina ch'io t'ho detto.
Che vince ogni guerrier gagliardo e forte, E lo caccia per forza in quella stanza Donde egli è uscito e poi serra le porte, E se non è chiamato a nova danza Da novo suon non esce nella corte. – Così la donna cavalcando parla Al cavallier, che stava ad ascoltarla.
Ch'io non pensi tornar nel greco regno, Dove il gigante avea la palma e 'l vanto Tolto di man a ogni guerrier più degno. Dissi, ch'Algier, ch'in Sparta ha 'l regio manto Gli ha lo scudo e 'l Teban lasciato in pegno, Elion, Aliforte e quel prudente Griante, e Polinide finalmente.
Molti altri e acquistò palma novella, E gli scudi da lor ch'in premio prese Consacrò tutti a quella imagin bella; Quando il re, non scorgendo in sue difese Altri in quel punto apparrecchiarsi in sella, Verso il palagio suo fece ritorno, Ch'era già il sol propinquo al mezzogiorno.
A mirar la sua dea, felice amante, Il cui fervente amor lo persuase A mostrar qui le sue prodezze tante. Tornò tutta la gente alle sue case Con replicar le forze del gigante, E le donzelle avean tutte dolore D'aver perduto il lor sì grato onore.
Che sia la gloria sua sì presto spenta, Benché la sua modestia non comporta Che se ne mostri afflitta e malcontenta. Quel giorno e l'altro uscir fuor della porta Contra il gigante uom non ardisce e tenta. Nel terzo vi comparve un cavalliero Di cui narrar nell'altro canto spero.
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