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Modesta Pozzo de' Zorzi (alias Moderata Fonte) Tredici canti del Floridoro IntraText CT - Lettura del testo |
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CANTO SECONDO
Argomento
Uccide il rio gigante il guerrier strano, E dà di sé notizia al re Cleardo. Bandisce il re una giostra. Il buon Silano Dal mar patisce assalto aspro e gagliardo. D'Egitto in Tracia si conduce il nano. A lui promette il Principe Risardo La donna liberar dolente e bella; E ei dà lor de casi suoi novella
Non deve alcun di sé presumer tanto, Che fuor di sé ciascuno abbia in dispregio, Benché sia ricco, e onorato, quanto Possa esser uom di sangue illustre e regio. Se ben avesse in dosso il regio manto, E risplendesse di un valor egregio. E fusse ogni saper di Febo in lui Non dee per lodar sé dar biasmo altrui.
Ogni persona deve esser umile, E benigna mostrarsi e d'amor piena, Che l'umiltà lega ogni con gentile Con dolce e soavissima catena. La superbia all'incontro è rozza e vile, E in danno proprio i suoi seguaci sfrena, E Niobe e Penteo, e altri fé perire Sul colmo dell'orgoglio e dell'ardire.
Quando più credono esser sulla ruota, E goder di fortuna i beni incerti Questi, ch'ella a sua posta aggira e ruota, Lor fa provar mille travagli certi, E gli getta nel fondo; e lor fa nota Qual pena era spettante ai lor demerti, Come del re Macandro udir potrete Voi che per legger queste carte sete.
Lasciai, che 'l terzo dì, quando inchinava Il sol lo sparso crin tepido e giallo; E che doglioso il re con gli altri stava Per non veder ch'altri venisser in ballo. Un Cavallier, ch'alla ventura andava Ornato riccamente egli e 'l cavallo, nella città fu per ventura entrato, Dove il successo udì, ch'io ho narrato.
Il cavallier parea gagliardo e franco Alla presenza e sopra ogn'altro ardito. Era sua insegna in verde scudo un bianco Giglio, era verde e candido il vestito. A pena entrò, che gli fur cento al fianco, Che gli fero accoglienza e grato invito; Altri porta al gran re di lui le nove, Altri a lui narra il caso e 'l cor gli move.
Onde subitamente al re venuto, Com'uom cortese e d'animoso core, S'offerse inanzi al termine statuto Mostrar contra il gigante il suo valore. Il re, che non sperava altronde aiuto, Creder si può, che l'accettò di core. Tutto il popolo allora a i merli corse, E maraviglia al fier Macandro porse.
Il cavallier, per ch'era tarda l'ora Del dì prefisso al termine narrato, Con licenza del re ritornò fuora Ben a destrier, di nobili arme ornato. Gran cosa da notar fu vista all'ora, Che tosto ch'egli uscì cascò sul prato L'effigie che dai rami alta pendea, Che tanto il gran Macandro in pregio avea.
Quanto al gigante il caso increbbe e spiacque Di veder la sua dea premer la terra, Tanta a Greci nel cor letizia nacque, Che 'l tennero a buon fin di quella guerra. Il cavalliero a cui l'augurio piacque, Sfida Macandro e al corso si disserra, Macandro pien di rabbia anch'ei si stese, E così l'un ver l'altro il corso prese.
Lo strano cavallier, ch'era del gioco Mastro, a incontrar l'empio Macandro venne Sotto lo scudo e dar si fece loco, Che l'usbergo il gran colpo non sostenne. L'asta in più schegge al ciel volò del foco, Ma la piaga nel fianco il ferro tenne, Donde in gran copia il sangue fuor si spinse, E 'l puro acciar di rosso fregio tinse.
Come d'alta montagna interna fonte Esce con furia e ruinosa scende Con torta via per la sassosa fronte, E largo il fiume al pian conduce e rende; Così dal vivo e animato monte, Come Macandro par, si sparge e stende Con larga il sangue e furiosa vena, E fa un lago apparir sopra l'arena.
Dall'empio fu nell'elmo il guerrier colto, Ma nol passò, ch'era di tempra eletta; Sì spezzò l'asta e 'l cavallier fu molto A trovarsi vicin soprall'erbetta; Pur si ritenne, e 'l fren presto raccolto, (Ch'era caduto) il destrier punse in fretta, Ch'al gravissimo incontro in terra posto Le groppe avea, ma rilevossi tosto.
Del colpo felicissimo che dato Al fier gigante il cavalliero avea, Si rallegrò ciascun del greco stato, E se ne rise il re con Celsidea. Il fier Macandro intanto era tornato, Che della piaga molto si dolea, Pur, credendo esser stato vincitore, Temprava al quanto il grave suo dolore.
Ma quando incontra il cavallier si vede Col ferro in mano e che la sella preme, Così gran rabbia il cor gl'ingombra e fiede, Che 'l tempestoso mar tanto non freme. Tosto del brando anch'ei la man provede, E va sopra il guerrier, che nulla teme, E lo gravò di sì pesanti some, Ch'a tutti i Greci fé arricciar le chiome.
Sì forte lo percosse a mezza fronte, Che gli tolse ogni senso, e avrebbe reso L'alma smarrita al regno di Acheronte, Se l'elmo fin non lo tenea difeso. Smarrite quelle forze invitte e pronte, Per lo prato il destrier correa disteso; Macandro irato il tempo allor non perde, E sel pone a seguir per l'erba verde.
Ma come altera e ben fondata pianta, In cui gran vento ogni sua forza impiega, Che non però dal piè la svelle o schianta, Ma gli alti rami al quanto inchina e piega, Cessato quel furor con altrettanta Forza la chioma al ciel dirizza e spiega; Così il guerrier, dal colpo che gli porse Macandro e 'l fé piegar, tosto risorse.
Con quell'estrema furia, che si puote Pensar ch'ira e dolor nel cor gli ha posta, Il caval gira poi che si riscuote, E al nemico suo la spada accosta, E sulla spalla destra ove 'l percuote, Gli rende con gran forza la risposta; Ciò che tocca apre, e sulla coscia scende, E arme, e carne e ogni riparo fende.
Macandro ancora il colpo all'elmo segna Del cavallier con tutto il suo potere, Alza ei lo scudo e sulla vaga insegna Del giglio il brando impetuoso fere. Ben crede il cavallier, ch'in Parthia regna Farlo in due pezzi al pian morto cadere; Taglia lo scudo e taglia anco il cimiero, Ma resse l'elmo al colpo orrendo e fiero.
Stordito dal gran colpo il campion greco Tutto alla groppa del destrier si stende, E sì l'aspra percossa il rende cieco, Ch's'è ben notte o giorno ei non comprende; Il feroce Macandro, ch'usar seco Alcuna cortesia già non intende, Gli afferra il manco braccio, e ha certa fede Di trarlo in terra e averne il pregio crede.
Ma nel tirar, che fece in sé rivenne Il cavallier più che mai fosse ardito, È rilevato in sella si mantenne, Onde Macandro prese altro partito, E tentò di venir (ma non l'ottenne) Seco alle braccia e gli ne fece invito; Ma l'esperto guerrier col brando in mano Quanto era lungo il tiene a se lontano.
Macandro disdegnoso che conosce, Ch'alcun de suoi pensier non avea effetto, Poi che 'l guerrier tien strette ambe le cosce, E non lascia accostar petto con petto; Per dargli (se esser può) l'estreme angosce, E mandargli lo spirito al stigio tetto, Ripiglia il brando e drizza il colpo crudo In loco tal che nol difende scudo.
Sulla sinistra spalla un gran fendente, Che sparato l'avria fin sulla sella, Gli segna, ma 'l guerrier subitamente Schiva d'un salto la percossa fella, E poi caccia la spada aspra e pungente Sopra la coscia all'alma empia e ribella; Passa la punta ria tra 'l ventre, el fianco Due palmi, e 'l fa venir di vita manco.
Di quattro piaghe sanguinoso cade Il parthio re, ma pria che giunga a morte; Sì come ancora amore lo persuade, Dice che non gli duol della sua sorte, Ma che per esaltar quella beltade, Ch'egli amò sì non fusse ancor più forte, E sol gli incresce e dà pena infinita, Poi che per lei servir non ha più vita.
Già tutto il fatto avea dalla muraglia Scorto Cleardo e tutta insieme Atene; Però che da vicin fu la battaglia Fatta e ciascun potea mirarla bene. Onde, come a quel re la Parca taglia Lo stame e 'l mira spento in sull'arene, Scende dal muro e corre ogni persona, E 'l vincitor di lode orna e corona.
Avea nel fodro il brando egli tornato, E ne veniva a passo tardo e lento; E giunto alle gran porte ove il re grato Stava, lasciò la sella in un momento. Il re lieto l'abbraccia, e 'l vole a lato Di sé, l'esalta e loda il suo ardimento, Ma la sua cortesia più loda molto, Che dalle spalle gli ha quel tedio tolto.
Il guerrier che gentile era e cortese, Grazie rendendo al re la lingua sciolse, E l'onor tutto alla sua figlia rese, Tutta la lode a lei conceder volse. Lo prega il re, c'ormai voglia palese Scoprir la faccia, ond'ei l'elmo si tolse, E mostrò, che 'l guerrier sì forte in sella Era una gentilissima donzella.
Si tolse l'elmo e discoprì le bionde Chiome dell'or più terse e luminose, E due stelle apparir tanto gioconde, Che per invidia il sol nel mar s'ascose; Movean le guancie fresche e rubiconde Invidia ai gigli e alle purpuree rose, La man, che disarmata anco tenea, La neve di candor vincer parea.
Com'ella a tutti il bel viso scoperse, Che tutti in lei tenean fiso lo sguardo, Parve a ciascun colei, per cui converse Macandro il piè nel regno di Cleardo. Quella a cui il miser già li scudi offerse Prima che morte in lui scoccasse il dardo, E si maravigliar non men di questo, Che del valor che vider manifesto.
Come chi fosse alla presenza quando Tiensi donna talor lo specchio inante, E ora il viso natural mirando Venisse, ora in quel vetro il suo sembiante, Non saprebbe ogni parte esaminando, Qual cosa fusse in lor dissimigliante; Così parve costei del re de' Parthi L'amata in tutte assimigliar le parti.
Volse, che si portasse ivi il ritratto Il re, ch'ancor giacea sopra il terreno; E il pinto e il ver parve ad un modo fatto, Quando propinqui fur né più né meno. Il re la prega a dir, perch'avea tratto Di vita un che 'l suo onor chiaro e sereno, Rendea, ch'altra non fu che sì splendesse; E la cortese figlia il tutto espresse.
Perché sappiate il ver, questa donzella, Per cui morto Macandro in terra giacque, Che Risamante per nome s'appella, Con la bella Biondaura a un parto nacque, Figlie del re d'Armenia e questa e quella, Pari in tutto fra lor, come al ciel piacque, Eccetto ch'una è molle e delicata, E l'altra va come guerriero armata.
Al nascer di costei, perché le stelle La inclinavano ad opre alte e leggiadre, Celidante gran mago, allor ch'imbelle, E fanciulla era ancor, rubolla al padre; Tal che dolente il re di tai novelle, Poi che la moglie sua non fu più madre, Lasciò morendo a quella che rimase, L'eredità de le sue regie case.
Per questo non rimase Celidante Con diligenza e con paterno amore D'allevar la fanciulla Risamante, Di cui previsto avea l'arte e 'l valore, Tal ch'ella poscia a tutti gli altri inante Andò nell'arme e n'ebbe eterno onore. Stette gran tempo seco ella celata Dentro una rocca in mezzo il mar fondata.
Ma poi ch'errò diece sette anni il sole Per lo cerchio, ond'apporta il caldo e 'l gelo, Il buon mago avvertì la regia prole Dell'onorato suo paterno stelo. Ond'ella fé con umili parole Alla sorella dir che poi che 'l cielo Le fé nascer d'un padre e tanto eguali, Nel dominar doveano anco esser tali.
Volea inferir che l'accettasse in parte, Come volea ragion, del patrio impero, Ma la sorella simulò con arte, Benché da molti avesse inteso il vero; E così fé risponderli da parte Di lei che non avria sì di leggiero Pensato, non che mai creduto, ch'ella Esser potesse a lei carnal sorella.
Ch'una, che n'ebbe il fato in man condusse D'un ladro che la uccise di sua mano; Ma quando ben colei, che 'l ciel produsse Seco fosse ella e ciò le fosse piano, Non pretendea, che sua di ragion fusse La metà di quel regno, ch'avea in mano Poi che morendo il re la regia soma Lascia a lei sola e l'altra pur non noma.
Per questa aspra risposta Risamante Sdegnossi contra lei di giusto sdegno, E valorosa e d'animo prestante Armata ogni città cerca, ogni regno, E giova a questo e a quel, perché le tante Sue cortesie dian opra al suo disegno, Fa beneficio a questo e a quel signore, Perché al bisogno suo le dia favore.
Il caso raccontò l'alta guerriera Al re Cleandro, e del gigante aggiunse Che per la sua sorella venuto era, La cui bellezza il cor gli accese e punse. Il re, ch'udì tutta l'istoria vera, Poi che la donna in suo favor consunse L'empio gigante, a lei grato s'offerse, E d'aiutarla in tutto si profferse.
Risamante al buon re grazie ne rese, E perch'ormai vincea la notte il giorno, Il re con gli altri nell'arcion ascese, E al palagio suo fece ritorno. Ma la regina e Celsidea cortese A Risamante fur subito intorno, E in una stanza l'arme li spogliaro, E di femminile l'abito l'ornaro.
Lascio di dir la festa e l'allegrezza, Con l'onor che fu fatto alla donzella, Che come donna avea tanta bellezza, Quanto valor come guerrier in sella. Già Celsidea così l'ama e apprezza Che quella notte vol passar con ella, E così giro insieme a riposarse, Sin che la fresca aurora in cielo apparse.
Come l'altro matin le sveglia e desta Le belle donne si levar di letto, L'una si cinse la feminea vesta L'altra il solito acciar fuor che l'elmetto. Ma Celsidea n'uscì dogliosa e mesta, Che la guerriera ha del partir già detto. E il re supplicò, che lei pregasse, Che per tre giorni ancor seco restasse.
E così a preghi lor sì fu restata Altri trè dì, poi quindi accomiatosse Con general dolor, tanto era grata, Così ad amarla ogni persona mosse. Costei passò d'Europa in Asia armata, E tanto andò, ch'a un bel giardin trouosse, Ma vuò lasciarla quì, Perché in Atene Rimaner con Cleardo Or mi conviene.
Il qual per allegrezza dell'avuta Vittoria contra il barbaresco ardire, La più solenne giostra, che veduta Sì fusse ancor fé in publico bandire, Di cui la fama con la tromba arguta Fa in ogni parte la novella udire, E presta occasion felice al mondo Di veder la nipote d'Alismondo.
Vi fece il re della Soria passaggio, E 'l re di Persia e un suo fratello forte, Si pose anco il re d'Africa in viaggio, E mille altri lasciar la propria corte, Sol per veder l'Achivo almo legnaggio Si move ognun ver le Palladie porte. Venir ciascuno al lito Acheo disegna Sol per veder quella fanciulla degna.
Ode anco Italia il fortunato grido, Onde Cecropia al ciel suoi pregi estolle, Tal che Silano col fedel Clarido Lascia del Lazio anch'ei l'altero colle; Silano unico principe del lido Saturnio anch'ei si crede all'onda molle, E per due dì propizio ebbe al suo intento L'aria chiara, il mar queto e in poppa il vento.
Per due giorni e due notti al legno arrise Fortuna sì che più nocchier non chiede, Ma 'l seguente matin sua speme uccise Che 'l cielo, il vento e 'l mar si rupper fede. Levossi un vento allor ch'in aria mise L'oscure nebbie, el sol più non si vede, Di spessi lampi il ciel rifulge intorno, El vento e l'aria, el mar minaccia scorno.
L'onda tumida cresce a poco, a poco, E ad Aquilon contrasta e al ciel ribelle, E l'acqua sbalza alla sfera del foco, Che par che voglia in sen chiuder le stelle. Giove al fulmineo stral fa cangiar loco E le torri percuote, e i tronchi svelle, E 'l cielo e 'l vento, e 'l mar fanno tal guerra, Ch'abissa il vento, il mar, l'aria e la terra.
Il misero nocchier pallido e smorto, Ancor che sia di gran terror confuso, Di far non resta industrioso e accorto Ciò che conviensi al navigabil uso, Comanda a questo e a quel, ma 'l vento a torto Ne porta il grido e ne riman deluso, Ch'alcun de naviganti non l'intende, Ma pur ciascuno al proprio officio attende.
Grida il mesto nocchier che sia disciolta Quella fune che tien la maggior vela, Che spera pur che 'l tempo abbi a dar volta, Ma non può far sentir la sua querela. Il mar superbo intanto aggira e volta La nave, che si strazia e si querela; Né pur del morto gli ha parte levato, Ma nel vivo anco l'acqua ha penetrato.
Ben si tenner perduti i naviganti, Scorto l'onda nemica entrar nel legno, E con gridi amarissimi e con pianti Chieser mercede al sommo eterno regno. Solo non perde il cor fra tanti e tanti Né sa un minimo usar di viltà segno, Silano invitto e 'l suo fedel consorte, C'hanno il cor saldo, el volto ardito e forte.
De naviganti alcun corre a gran fretta Le fissure a turar, dov'entra il mare, Altri co 'l cavo legno in mar rigetta L'onde, che prima entrar salse e amare. Ecco intanto repente una saetta Dalla celeste man sul pin scoccare, Che l'arbor spezza e 'l timon arde, e seco Manda il miser nocchier nel mondo cieco.
Questo fu ben lo stral crudo e funesto, Ch'uccise un solo e passò a tutti il core; Ch'a tutti è ormai ben chiaro e manifesto Non esser scampo a quel mortal furore. Fu dunque con Silan Clarido presto Quel partito a pigliar, che fu il migliore, Ricorsero al battel, ch'era vicino Per iscampar l'orgoglio empio marino.
Volean molti seguir l'esempio loro, Ma questi lo vietar co 'l brando nudo, E dal legno si sciolsero e da loro, Che restar preda al Mar vorace e crudo. Non san se son vicini all'Indo o al Moro, Che fan le nubi al dì riparo e scudo, Gli è 'l ver, che 'l lampo apria sovente il velo, Né li mostrava altro che 'l mar e 'l cielo.
Come poi si trovasse in miglior stato Col buon Clarido il giovane Silano, E come al lido poi fusse salvato Dalla furia del mar crudo e insano, In altra parte vi sarà contato, Ch'ora un poco lo stil volgo lontano, E lascio questi in sì dubbiosa sorte, Per gir in Tracia alla superba corte.
È una Città posta all'estremo lido, Che da Bitinia il Bosforo disgiunge, Quinci il mar d'Helle appar fra Sesto e Abido, Quindi le rive Eusin percote e punge; Bizanzio è detta; il cui superbo grido Dal basso centro al ciel superno giunge, E l'occaso non v'ha né l'oriente La più feroce e bellicosa gente.
Era gran tempo in lei stato Agricorno Imperador del gran popolo di Marte, Del cui valor giva la fama intorno, Dando soggetto alle più dotte carte. Avea un figliuol d'ogni virtute adorno, D'ogn'alma dote e d'ogni nobil arte, Ch'in tutte l'opre eccelse, alme e leggiadre Fu raro al mondo e fu maggior del padre.
Oltra questo garzon, che fu Risardo Nomato, egli ebbe ancora una donzella, Che come quel cortese era e gagliardo Così fu questa al par d'ogn'altra bella. Fu detta Ersina e l'amoroso dardo Non facea ancor per lei piaga novella; Non era stata ancor nell'altrui petto Cagion di gaudio o di contrario effetto.
Questo perché sì saggia era e modesta, E di sì ornati e nobili costumi, Che la sua gran beltà non manifesta, E tiene ascosi i due leggiadri lumi, Perché, essendo non men che bella onesta, Non vol ch'alcun si strazi e si consumi, Non vol ch'alcun per lei senta cordoglio Che s'ha ben molle il viso, ha 'l cor di scoglio.
Or mentre sta l'imperator felice Di questa altera vergine e del figlio, E seco in sala è un dì l'imperatrice Con grave aspetto e con sereno ciglio, E la Tracia d'eroi schiera vittrice Con tutto il regio suo maggior consiglio, Appar tra que signori un picciol nano, Con un ricco vestir leggiadro e strano.
Di sì rara bellezza è 'l nano adorno, Che me' Cupido alcun pittor non finge, Di tutti il guardo a sé tira d'intorno Quel bel color che 'l viso orna e dipinge, Mesto e umil s'inchina ad Agricorno Il nano, e a gli altri e ogn'un di pietà cinge; Si sforza di parlar, ma nella gola Il suo dolor gli chiude la parola.
Alfin tanto il desio gli infiamma il petto, Che rompe del dolor l'aspra catena, E apre il varco al suo dolente affetto, Malgrado del suo mal, della sua pena; E spiega il suo mestissimo concetto Che di sospiri e lagrime incatena, E fa ch'ogn'alma di pietà sfavilla, Mentre le belle lagrime distilla.
– Sperando in voi trovar giusta pietade, Alto e supremo imperador de traci, Ho cercato (dicea) queste contrade, Lasciando i campi egizi empi e fallaci, Per salvar una angelica beltade Dalle tirane man crude e rapaci, Ch'avendo ucciso il re Galbo d'Egitto, Dan colpa alla nipote del delitto.
Sono ormai venti giorni, che fu morto, E non si sa da chi per certa prova, E accusan la giovane del torto Dove ogni fede, ogni bontà si trova; E perché Miricelso il figlio accorto Altrove il suo valor dimostra e prova, Ha preso ardir la setta empia e pergiura. D'impregionar la dolce, alma figura.
Per usurpar quel regno all'innocente L'hanno posta in pregion crudel e fera, Che più stretto e più prossimo parente Al defunto signor di lei non era. Tutta Alessandria è per suo amor dolente, E per quel che si dice, invan si spera Sua libertà; per che sententiat'hanno. Che stia così rinchiusa in fin dell'anno.
Nel qual tempo la giovane infelice Ha da trovar campion che la difenda Da un cavallier che la calunnia e dice, Che contra ognun che sua difesa prenda Vol provar ch'ella iniqua e traditrice Fu cagione a quel re di morte orrenda, E sosterrà per tutto l'anno intero, Ch'ella diede opra a sì crudel pensiero.
Ahi, che se cavallier non viene intanto A provar, ch'innocente è Raggidora (Così ha nome la donna, ch'amo tanto) Giungerà senza colpa all'ultim'ora. – Mancò la voce a questo e crebbe il pianto, Al bel nano, che s'ange, e lagna, e plora. Quando pervenne a quel pietoso punto Per forza pose alle parole punto.
L'eccelso imperator ch'in alto siede, E de principi intorno ha una corona, Veggendo, che 'l dolor sì 'l nano fiede, Che 'l fià, che brama al suo parlar non dona, Se ben soccorso e aiuto non li chiede, Sa ben ch'ad altro fin ei non ragiona. Però dà gli occhi a suoi presso e lontano, E quai debba mandar pensa col nano.
Tutti i traci guerrier giovani e forti Erano accinti a così santa impresa, E bramavan veder degli altrui torti La bella Raggidora esser difesa, Ma perché tutti allor s'erano accorti, Che più l'alma n'avea Risardo intesa, Alcun non fu che 'l suo pensier mostrasse, Né che prima di lui parlar osasse.
Risardo in piè levato, con licenza Del padre, disse al nano; – or datti pace, Che ti prometto e giuro alla presenza Del mio signor, de tutto il popol trace, Di liberar costei da tal sentenza, S'è (come dici) ingiusta, empia e mendace E di farle acquistar quel regno ancora. – E s'andò a por in punto allora allora.
Di tal promessa il nano consolato Asciuga da begli occhi il tristo umore. E 'l re, mentre si rende il figlio ornato Di terso acciar ministro al suo valore, E ch'al grande armiraglio ordine è dato Che 'l legno apparecchiar faccia megliore, Vol, ch'all'imperatrice esprima il nano Più particolarmente il caso strano.
E dica la cagion, perch'ei sol viene A procurar per lei sì caldo aiuto, Che di tanti che 'l muro egizio tiene Alcun (fuor che lui sol) non è venuto, Potrebbe essere spia forse d'Atene, (Disse fra sé l'imperator astuto) E vien con questa fraude e questo inganno Per saper qui come le cose vanno.
Era gran lite allor fra 'l tracio regno Per cagion de confini e 'l greco nata, E di questo romor, di questo sdegno N'era forse cagion la Tracia ingrata. Or questo re, c'ha in mente empio disegno Di destrugger (se può) la greca armata, Pensa, che 'l re Cleardo dal suo canto Brami di far a lui danno altrettanto.
Tratto in disparte accanto alla regina Per volontà del re fu il nano assiso, Che con la voce angelica e divina, Con via più lieto e grazioso viso Incominciò: – La vaga e pellegrina Fama avea dato all'oriente aviso, Tal ch'era in ogni lingua, in ogni stilo La bellissima vergine del Nilo.
Pervenne il suon altier di lido in lido Là ove son re nel regno de' Pigmei, E sì m'accende il cor con questo grido, Ch'ogn'altro e me in oblio posi per lei: Tal che lasciando il regno amico e fido Soletto in Alessandria mi rendei, Quivi me le diè in dono Amor protervo E me le dedicò perpetuo servo.
Gionto trovai che troppo era lontana La fama al ver; che quanto n'avea inteso, Una relation fu scarsa e vana Rispetto a quel c'ho poi visto e compreso. Non narro la bellezza sopraumana, Ch'è de gli omeri miei troppo gran peso, Basta, che ovunque il sol dispiega i rai Maggior beltà non vide in terra mai.
Io che l'amava e pace non potea Con questo amor trovar longi, né presso, Se non quando il bel viso alla mia dea Veder m'era dal ciel talor concesso, Per mitigar la fiamma che m'ardea Non mi curo mandar lettera o messo, Ma cangio in rozze e vil le regie spoglie E fo sì che per servo ella m'accoglie.
Poi che non mi trovo atto a esercitarme Nell'opre illustri e a dimostrar valore, E col favor della virtù dell'arme Acquistarmi di lei l'altero amore, In altra guisa penso d'aiutarme, E d'un tal ben di farme possessore. Mi fingo umil di stato e faccio ch'ella Fra suoi mi accetta e per servo m'appella.
Uomo non era alcun di me più desto Nel servir lei di tanti che tenia, Era ne gli occhi e nel parlar modesto, Sempre con gran prontezza la servia. Tolse ella tanto in grazia ogni mio gesto, La servitù, la diligenza mia, Ch'a me sol comandava, e dir solea Ch'alcun meglio di me non l'intendea.
Ella nelle mie man tenea fidato Le sue più care cose, oro e argento, Ogni vestir più ricco e più pregiato, Le gemme, le ghirlande, ogni ornamento; Io cura avea del suo regale e ornato, Com'a lei conveniasi, appartamento. E sì crebbe il mio amor a poco a poco Che 'l cor era poca esca a tanto foco.
Con tutto ciò già mai non presi ardire D'appalesarmi a lei, che sempre alcuna Donzella meco la solea servire, Al mio ingordo pensier troppo importuna. Alfin un dì propizia al mio desire Tra le man mi si pose la fortuna; Un dì, ch'ella il bel crin tendeva al Sole Senza la compagnia, ch'esser vi suole.
Com'io mi trovo solo in sua presenza, E che d'appalesarmi fo pensiero, Il rispetto ch'avea, la riverenza, Il timor de turbarle il cor sincero, E ch'irata mi scacci e dia licenza, Trattandomi da sciocco e da leggiero M'avea di tanto affanno il cor ristretto Ch'io fui per uscir fuor dell'intelletto.
Mentre le belle chiome ella apre e stende Ad un balcon, per cui fa il sol passaggio, E in tal modo le scuote, acconcia e tende Che fa ch'ogni crin gode il solar raggio, E col dentato e schietto avorio attende Quanto son longhe, a far spesso viaggio, Getto un sospir sì caldo all'improvviso Che fa, ch'ella i begli occhi alza al mio viso.
Non però mi fa motto e indarno stimo, Che cerchi quel ch'a lei sì poco tocca, Onde mesto il secondo aggiungo al primo, E fo che 'l terzo ancor più caldo scocca. Veggendo ella che 'l mal mio non esprimo Pur alfin per saperlo apre la bocca, E la cagion mi chiede dolcemente, Che mi fa sospirar sì caldamente.
Io non rispondo a questa sua dimanda, Ma gli occhi abbasso e di sospir più abbondo, Onde ella ancor mi replica e dimanda E io sto pur tacendo e non rispondo. Alfin come patrona mi comanda, Che le palesi il mal che dentro ascondo, Di me si maraviglia e n'ha dispetto, Che scoprir non le voglia il mio concetto.
Come sì accesa, e avida la veggio D'intender quel, ch'a lei discoprir voglio, La fo giurar che quel che dir le deggio, Non le darà né sdegno né cordoglio. E se ben troppo ardito erro e vaneggio, Non perderò quel ben ch'ottener soglio, Anzi ch'avrà di me qualche pietade, Risguardo avendo alla mia verde etade.
Ella ch'avria pensato ogn'altra cosa, Mi giura e mi promette largamente, E io con faccia mesta e vergognosa Il mio stato real narro umilmente. Poi le discopro la fiamma amorosa, Che per la sua beltà m'arde la mente, Con la sommission ch'a me s'aspetta, E col modo miglior ch'amor mi detta.
Parve che nel principio si turbasse E la vergogna il volto le dipinse, Non però ch'a miei danni l'incitasse Quella gran novità, che 'l cor le strinse; Si tacque un poco pria come pensasse E per risponder poi la lingua scinse, Ma in quel punto s'udir le regie genti Empire il ciel di gridi e di lamenti.
Per intender la causa di quel pianto, Con la chioma sugli omeri negletta La donzella si move, e io ch'a canto Me gli spronava amor corro in gran fretta. Vol saper la cagion d'un romor tanto Per provederli in quanto a lei s'aspetta, E alla stanza del re prima s'invia, Ove il grido e 'l maggior tumulto udia.
Di questa in quella camera la porta Il dubbio piè dov'ode il mesto accento, Tanto ch'arriva alla funesta porta, E fra donne e donzelle entra ben cento; Come dà l'occhio dentro riman morta, Che vede il re suo zio di vita spento Giacer fra 'l popol mesto e lagrimoso, Di più di venti piaghe sanguinoso.
Ella riman sì sconsolata allora, Che si lascia cader co'crini inconti Sopra 'l freddo cadavero, e uscir fuora Fa da begl'occhi suoi due caldi fonti. Mentre costei si strugge, e piange, e plora, La stanza empir duchi, marchesi e conti, Ch'avendo inteso il doloroso avviso Cercavan di saper chi l'avea ucciso.
Tra questi cavallieri era un Lideo Che già d'Eubea in quelle parti venne; Era valente e spesso combatteo Coi più famosi e sempre il pregio ottenne; Costui gionto fra gli altri al caso reo, Visto il re morto, un mal giudizio fenne; La cagion non so dir, ch'a questo il mosse, Basta che giudicò, che così fosse.
Disse e creder fé a tutti che nissuno Pensato non avria non che operato Che restasse di vita il re digiuno, Che non sperasse ereditar lo stato; E non essendo in quel reame alcuno Che possi per tal causa aver peccato, (Che Miricelso estinto era per fama) La colpa attribuiva a quella dama.
Parla con lingua libera e superba E la sua autorità fede gli dona; Mostra che 'l gran dolor che nel cor serba Quel che dir non vorria fa che ragiona. Dice che giusta merita e acerba Morte, e tanto ogni petto instiga e sprona Che molti che maligno hanno il pensiero Dicon che parla mal, ma dice il vero.
Tutti hanno di regnar l'animo ingordo, E credon, o di creder mostra fanno; I baroni più nobili d'accordo Son con Lideo che mostra ansia e affanno; Secondo il suo consiglio e 'l suo ricordo, Senza aver chi lo vieti, ordine danno Che sia posta in pregion la donna mia, Come del fatto ella colpevol sia.
Fur seco presi ancor paggi e donzelle, Che vinti da minaccie e da promesse, Confessaro alle menti inique e felle Ch'un tanto error per sua cagion successe. Non essendo in contrario chi favelle, Dunque per tema il vero al falso cesse, E la innocente allor fu presa e vinta dalla malignità crudele e finta.
Vid'io la bella man candida e pura Ristretta (ahime) da crudo laccio indegno, E vidi in carcer posta infame e scura Colei, che poco il mondo è d'aver degno. Sepolta l'innocente creatura, S'hanno tra lor diviso il suo bel regno; E il popol solo è quel, la plebe è quella, Che piange l'infelice damigella.
Or poi che la natura ingiusta e avara Non mi diè forza all'animo conforme Per poter liberar donna sì rara, Che mi sforzò d'amor seguitar l'orme, Ricorro a questa patria illustre e chiara, Dove giustizia, ove virtù non dorme, E prego che vi piaccia aiuto darmi Contra li egizi rei con le vostre armi.
Così contò l'innamorato nano Della donzella misera il successo, E intanto per punir l'Egitto insano Il buon Risardo in ordine fu messo. Ma poi che egli ha finito il caso strano Di raccontar come li fu commesso, Vo' qui finir questo mio canto anch'io Poscia di lor dirò ciò che seguio.
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