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Modesta Pozzo de' Zorzi (alias Moderata Fonte) Tredici canti del Floridoro IntraText CT - Lettura del testo |
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CANTO QUINTO
Argomento
In Itaca trasporta la procella Silano, là ove in arbore trasforma Il cavallier la magica donzella E salva lui dalla ferina torma, Giungono i Greci al re. Fanno una bella Mostra i giostranti. Il nobil oste informa Risamante del modo onde l'anello Ottenne e come uccise il Drago fello.
Ahi, che non può quel rio tiranno Amore, Se da buon senno un cor percote e fere? A chi leva la vita, a chi l'onore, A chi la roba e l'amicizie vere. Altri per sua cagione entra in furore E è sforzato oprar contra il dovere; E per un sol, che le costui faville Faccian saggio parer, ne impazzan mille.
Per un ch'accostumato e riverente, E che cortese Amor renda e gentile, Infiniti son quei c'hanno la mente Perfida, traditrice, infame e vile. E se la donna al lor desire ardente Non si dimostra al primo tratto umile, Se non si rende a prieghi empi e molesti Eccoli agli odi, alle vendette presti.
Fuggan le donne pur più che 'l peccato, Più che 'l morir l'officio dell'amare, C'han la più parte il cor gli uomini ingrato Per quel ch'io leggo e spesso odo contare; Benché dall'empio, iniquo e scelerato Non ben si possa in modo alcun guardare, Che mal a qualunque ama, e peggio ancora Per non amar successe a Raggidora.
La qual non consentendo al gran desire Del cavallier per troppo amore insano, Fu cagion ch'egli vinto dal martire Si mostrasse ver lei crudo e villano. Benché dapoi, come farovi udire, La cercasse placar, ma sempre invano. Or restisi costei, che del marino Furor trar voglio il principe latino.
Non cessò Borea impetuoso e fermo, Nel suo rigor fin alla terza sera, Sempre agitando il picciol palischermo Per la marina ingiuriosa e fera; Nel terzo dì, che non n'avean più schermo Parve alquanto cessar la furia altera, E l'aer un poco aperto in orizonte Scoprì del sol nel tramontar la fronte.
Accolse il vento a poco a poco ogni ala E placato si rese al suo gran duce, E 'l mar anch'ei la rabbia e 'l furor cala E nell'esser primier si riconduce; Un dolce fiato allor contrario esala, Ch'i nembi scaccia e dà loco alla luce, E Cinzia mostrò fuor le chiome belle E 'l ciel s'ornò di scintillanti stelle.
L'alba comparve poi nell'oriente Che di perle quel dì fregiar si volse, E l'aurora seguì d'oro lucente Che di fresca ghirlanda il crin s'avvolse, E i cavallier, ch'assai più dolcemente Quella notte passar, dal sonno sciolse, Che furon (non sapendo in che paesi) Sopra una vaga e bella isola scesi.
Lieti quant'uomo imaginar si pote Salutan ambi il desiato lido, E piglian terra in quelle parti ignote E danno il tergo al mar noioso e infido; E con parole pie, sante e devote, Poi che fur tratti in più sicuro nido, Ne ringraziar l'eterne alme divine Con le luci e le mani al ciel supine.
Erano a piedi e di tutt'arme ornati (Che seco le salvò ciascun guerriero) Onde per lieti e verdeggianti prati, Per quel bel piano a camminar si diero. Veggon de' fiori i bei campi stellati Dove più d'un capriol scorrea leggiero, E poco lungi poi le spiche bionde Tremolando imitar le marine onde.
Bel boschetto di lauri e di ginepri Veggion tra due fontane intatte e dolci Caro e secreto albergo a damme e a lepri, Che da le fere gli asconde e da bifolci. Soave Amor, che di pungenti vepri I cori impiaghi e le ferite addolci, Quando in Cittera avesti, in Papho, o in Gnido, Così giocondo e grazioso nido?
Quanto il passo i guerrier movean più avanti Scorgean nova beltà, vaghezza nova, Udivano armonie, sentiano canti Di vaghi uccel che fan concenti a prova; Che lieti i due guerrier fra piacer tanti Giurar che questo sol diletta e giova, Né v'è più gioia a lor giudizio intera Che le delizie e 'l bel di primavera.
Incognita de fonti è lor l'uscita Che comprender non san donde l'acqua esca, Che da due lati di lontano uscita Più ch'ambra discendea limpida e fresca; La terra da duo rivi tripartita Fa che natura i suoi tesori accresca, Dai lati son mille feconde piante, Nel mezzo è il bosco, ch'io v'ho detto inante.
Le fonti discorrean lucide e terse Dentro un ameno e florido pratello, Che di mirti e viole azzurre e perse Intorno un muro avea leggiadro e bello; Quinci dalla natura in un converse Formavano passando un fiumicello, Ch'ombrose avea le colorite sponde D'ogni più ricca e fruttuosa fronde.
Scorgon di qua e di là mille arbor tutti, Carchi di pomi d'or vaghi e ridenti, Ch'i tronchi sostenea, le fronde e i frutti, Ch'ornano a Bacco i crin biondi e lucenti. E v'ha con sì bell'ordine produtti Natura i rami e 'n lor l'uve pendenti, Quai d'oro e quai di color d'ostro pinte, Che dall'arte parean ritratte e finte.
Silano, che dal tempo aspro e malvagio, La persona tenea debile e trista, E patìa dal digiun lungo disagio, S'allegra i spirti a sì leggiadra vista, E per scacciar la fame a suo bell'agio Si ferma accanto alla pendente lista; E Clarido di pomi i rami spoglia E sazia questo e quell'avida voglia.
Fu la ventura lor che non toccaro Degli arbori di dentro frutto alcuno, Né colser fior, né di quel fiume chiaro Gustar, c'avrebbon mal rotto il digiuno, E più ch'in quel boschetto non passaro, Di cui detto ho, che vi peria ciascuno. Silano ben dentro il pratel giacea Ma Clarido di fuor pomi cogliea.
O fosse caso, o lor prudenza ingombra Di quelli il seno, indi l'afflitto spirto Ristorano ambi, e all'odorifer'ombra S'assidon poi d'un amoroso mirto. Quel dolce tempo ogni mestizia sgombra, Spiran l'aurette un delicato spirto, Ma poco stan, ch'a un gran romor d'intorno Si sviar da sì lieto, almo soggiorno.
E si levaro e per l'erbosa valle De lo scudo provvisti e della spada, Dove udir quel romor presero il calle Che li condusse alla più trita strada; Scopron d'un monte allor le late spalle Ch'ascende alla divina alma contrada, E cinto ha il piè d'un ben composto muro Che chiude il passo al peregrin sicuro.
Affermar non si può che la muraglia Di pario marmo, o d'alabastro sia, Perch'è di splendor tal ch'ogn'occhio abbaglia, Quantunque saldo e che lontan ne stia A sì mirabil passo non s'agguaglia Diamante alcun, che simil luce dia; Di carbonchio non è, né di cristallo D'argento no, né del più fin metallo.
Egli è di tal materia illustre e chiara Che eccede e vince ogni pensiero umano, Però mirando un'opera sì rara Stupido resta il principe Silano; Clarido con le man gli occhi ripara Dal gran fulgor del magisterio strano, E finalmente fero ambi giudizio Che questo fosse un magico artifizio.
Domandar mi potreste la cagione Perch'essi non l'avean veduto innanzi, E io dirò che 'l magico sermone L'ascose lor benché lor fosse innanzi. Ma poi ch'uscir del prato ove Plutone Avea sue forze e camminar innanzi, Per la sicura via svelati furo E scoprir di lontano il monte e 'l muro.
Vanno più innanzi e 'l gran romor ch'udiro Via più gli orrecchi lor fere e penetra, E poi che presso a quel superbo giro Furo quanto sarebbe un trar di pietra, Veggono un'uscio aprir, non di zaffiro, Ma di più ricca e preziosa pietra, E una donzella uscir del gran girone Che mena un cavallier come prigione.
Costei il suo biondo inanellato crine Parte tenea sopra 'l bel collo sparso, Parte raccolto in terra era al confine De' vaghi orecchi e in fronte era più scarso. Le belle luci angeliche e divine Avriano ogni cor d'aspe e di tigre arso, Lo sguardo era vivace, accorto, e ladro, E 'l viso in ogni parte almo e leggiadro.
Gentile Amor da suoi cortesi sguardi Movea lo stral soavemente altero, E già sentia degli amorosi dardi L'assalto il suo pregion dolce e severo; Stanno a mirar nel fin li duo gagliardi Ove meni la donna il cavalliero, Che di catena d'or legato serba, E in contro a lor ne vien grata e superba.
Come fu presso lor con atto umile Fer riverenza alla beltà divina, Ed ella con sembiante almo e gentile Gli risaluta e tutta via camina; Sente clarido già l'esca e 'l focile D'Amor che ne begli occhi i strali affina; Sente il petto infiammarsi a poco a poco E già sospira il suo novello foco.
Per quella via ch'essi arrivaro al monte La bella donna al cavalliero è duce; Posto era un ponticel sopra una fonte, Per cui nel bosco ella il meschin conduce, Ch'a pena tocca il pian che cangia fronte Perde l'aura vital, perde la luce; E Silano e Clarido il mira e 'l vede, E a pena ancor ch'a se medesmo il crede.
Come insensate statue immoti stanno Di lontan a mirar quel caso duro, Lo spavento e 'l tremor che nel cor hanno È tal, che per uscir del senno furo. Il cavallier lasciando il carnal panno Divenne tronco a un semplice scongiuro, Le braccia si fer rami e 'l novo stelo Spiegò la vaga e verde chioma al Cielo.
Come accresciuto in numero e in bellezza Della novella pianta ha 'l bosco infido, Torna la bella donna alla fortezza E passa innanzi al principe e a Clarido. Clarido più quella beltà non prezza Che gli fece nel cor sì presto nido, E in un punto piagato e fatto sano, Sbigottito la mira egli e Silano.
Ella, ch'i cavallier contempla in atto Che paura dimostrano e stupore, Disse: – Non sia di voi chi stupefatto Prenda di ciò ch'ha visto alcun terrore Per ché gli mostrerò di quel c'ho fatto Per mia virtù miracolo maggiore; E chi vol possar meco oltra quel muro A vederne l'effetto io l'assicuro.
Venite cavallieri avventurosi, E non temete alcun periglio strano. – Ah, misera, tu cerchi i tuoi riposi Abbreviar, e 'l cor ferir c'hai sano. Quanto meglio saria se con ritrosi Accenti e con parlar fiero e villano Da te scacciasti i cavallieri arditi, Che con sì care parolette inviti.
Segue ella: – io vi farò quella avventura Udir che 'l mondo ancor saper non puote, E insieme narrerò la mia sciagura Che mi tien chiusa in queste valli ignote; Ch'anch'io son sottoposta a sorte dura E ne spargo di lagrime le gote, Sperando invan d'un cavallier l'ingresso, E chi sa ch'un di voi non sia quel d'esso?
Il qual per sua virtù rara e profonda A liberar di questo loco m'abbia, E sarà sua quest'isola feconda Poi che de mostri avrà vinta la rabbia. – E così ben la voce alma e gioconda Mosse costei da quelle dolci labbia, Ch'i cavallier rassicurati alquanto Prestaron fede al parlar dolce e santo.
Né fu di loro alcun tanto scortese Che non tenesse il suo benigno invito, E la donzella il suo viaggio prese Al muro, onde 'l gran monte è circuito Silano allor le luci al sommo intese E un tempio vi mirò d'oro brunito, E a Clarido il mostrò nell'alta cima, Che non l'aveva alcun veduto prima.
Quando fur giunti alla superba porta, La donzella passò co 'l piè non lento, E i cavallier stimola e conforta A seguitarla e non aver spavento. Silano fatto cor segue sua scorta E Clarido con lui mostra ardimento, Poi che la giovinetta afferma e giura Che d'ogni tradimento gli assicura.
Ma dentro a pena alle gran soglie altere Pongon il piè tra la muraglia e 'l monte, Ch'un milion di dispietate fiere Lor salta in contra a far lor danno pronte. Silano che non vuol di lor temere Cava la spada, e con ardita fronte Tra lor si scaglia e con percosse orrende Dall'importuna rabbia si diffende.
Orsi, tigri, leon, lupi e serpenti, Dell'aspetto viril crudi nemici, Con acute unghie e con voraci denti Fan duro assalto a due fideli amici. Ma la donzella pia, ch'agli elementi Può commandar con suoi rari artefici, Con la virtù d'una parola sola Tutta placò quella ferina scola.
Per diverso sentier lo stuolo orrendo Tutto di qua di là si fu diviso, E i cavallier d'un atto sì stupendo Lasciò con basso e vergognoso viso, La dolcissima vergine ridendo Con un discreto e grazioso avviso E quello e questo allor prese per mano E s'escusò del caso iniquo e strano.
Dicendo: – Io vi prestai salvo condotto Quanto al valor dell'incantato carme, Non degli altri accidenti a quali è sotto, Posto l'uom e adoprar puo 'l senno e l'arme. – Silano a lei con grazioso motto: – Né senno, né valor potrebbe aitarme Già contra voi se sol coi dolci accenti Vincete orsi, leon, tigri e serpenti.
Né credo ch'altra cosa un cor più incanti D'un vago viso e d'un parlar soave, E ben vegg'io ne'bei vostri sembianti Che d'altra forza il mio pensier non pave. – Chinò la donna i lumi onesti e santi A quel parlar che non le fu già grave, E 'l viso ornò del bel color, che suole Scoprir la rosa al matutino sole.
Una stradetta assai larga e capace Gira tra 'l monte e 'l cerchio luminoso, E a piè del monte un'ampio uscetto giace Per cui si va nell'antro cavernoso; Quivi la donna a cui in secreto piace Il ragionar del giovane amoroso, Giunta, l'uscio percuote e quel le cede E vi pon entro ella e i guerrieri il piede.
Ciò che facesser poi dentro quel monte I cavallieri e ciò che ne seguio, E di costei che poi d'amor tante onte Per un garzon sofferse ingrato e rio, Convien ch'in'altra parte io vi racconte, Ch'or volgo al re Cleardo il parlar mio, E a suoi guerrier, che con superba mostra Vogliono uscire all'onorata giostra.
Già, perché del giostrar che publicato S'avea più dì non fusse il pensier vano, E per effettuar l'ordine dato; Cleardo, che di Grecia ha il freno in mano, Raccolti avea del suo felice stato Ogni guerriero, il prossimo e 'l lontano, Ch'udito avendo il general concorso Al regio editto era in gran fretta corso.
Già tutti i re, duchi, marchesi e conti Che son vassali al re Cleardo altero Erano stati in corte a venir pronti Per onorar il suo superbo impero. E passar fiumi e boschi e valli e monti Sì come era diverso il lor sentiero, Eccetto quei che non lasciar la corte Da che 'l fiero Macandro ebbe la morte.
Lasciò Megara alle novelle sparte Alarco, e Macedonia il re Amarinto; Vennero in fretta al publicato Marte Gli duchi di Corcira e di Zacinto. Fra gli altri il saggio e nobile Silvarte Avea passato l'istmo di Corinto Che per la sua bontà di fede piena Gli avea 'l re dato a governar Micena.
Era venuto e seco avea menato Il bellissimo figlio Floridoro, Che da che nacque al giorno almo e beato Sedici volte il sol rivide il toro. L'aer del suo bel viso era sì grato, Sì vago lo splendor de' bei crin d'oro, E la sembianza avea tanto divina Ch'ad amarlo ogni cor ben ch'aspro inchina.
Venne col padre accorto il gentil figlio Con un vestir delizioso e vago, Amor ridea nel suo tranquillo ciglio, Anzi parea d'Amor la propria imago. Lo splendido color bianco e vermiglio Ogni occhio fea di contemplarlo vago; Ogni sua parte, fuor che la favella, Par d'una giovenetta illustre e bella.
Il damigello ancor non s'era mai Nell'imprese di Marte esercitato, Ma per natura era gagliardo assai, Di gran destrezza e d'animo dorato; E d'arme e de cavalli sempre mai S'era e di veder giostre dilettato; Però lasciando il padre suo Micene, Anch'ei volse venir seco in Atene.
Appresentarsi inanzi al re Cleardo Che con benigna fronte li raccolse, E rivolgendo al dolce viso il guardo Così gli piacque e in tanta grazia il tolse, Che fin' ch'Amor col suo pungente dardo A farli ingiuria il bel garzon non volse Con disonor del regio sangue greco, Sempre l'amò da figlio e 'l tenne seco.
Per obedir al suo regal pensiero Venne anco Stellidon da Negroponte, E fu pria che l'egizio messaggiero Per trovarlo in Eubea gettasse il ponte. Però giunse in Atene il cavalliero Con mesto core e con turbata fronte Per due fratei, ch'avea gagliardi e forti, Ma non sa se son vivi o se son morti.
L'uno è Lideo, quel ch'accusò in Egitto La bella donna ond'arse di desire; L'altro è il guerrier che nel loco descritto Vide Silano in pianta convertire. Per questi il buon fratel si rende afflitto E sente nel suo petto aspro martire, Pur si consola un poco or con la speme C'ha di vedergli a quella giostra insieme.
Non solo ogni signor del greco regno Si fu ridotto alla palladia terra, Ma ciascun guerrier barbaro più degno Sen venne ancor dall'universa terra. Ingombra il porto acheo questo e quel legno, Già questo e quel destrier preme la terra, Ciascun nella città s'è già ridotto Che presta a tutti il re salvo condotto.
Il giorno della giostra più a buon'ora Mangiò ciascun che gli altri dì non feo, E poi non stette molto a venir fuora Il principe di Tebe Apollideo. Quella pianta il suo scudo orna e colora Ch'ascose al sol la figlia di Peneo, L'istesso ramo anco 'l cimier corona Ch'è de'più illustri eroi pregio e corona.
Prossimo a lui si pose il re spartano Nomato Algier magnanimo e cortese, E perché l'un dell'altro era germano Comuni coi parenti ebbon l'imprese. A passo il primo vien soave e piano Su un bianco turco e 'l primo loco prese; L'altro a un villan di Spagna il dosso preme E coi colori amor disegna e speme.
Sopra un barbaro appar veloce e snello Di Tessaglia il signor fra cento e cento, Che l'arme e 'l suo vestir pomposo e bello Orna ad usanza sua di color cento, Giovanetto era, e in così gran drappello Anch'ei mostrar quel dì volle ardimento, Anch'ei, che detto era Aliforte, volse Entrar fra gli altri e 'l terzo loco tolse.
Elion dopò lui, che signor era D'Arcadia, paradiso de'pastori S'offerse nella lizza onde aver spera Nelle fatiche parte e negli onori. Depinta ha nello scudo una pantera Che vago avea 'l mantel di più colori, E con sì bella e sì leggiadra vista Le più semplici fere inganna e attrista.
Sirio d'età più forte e più maturo, Che di Lacedemonia ha 'l freno in mano, Condotto vien da un caval baio oscuro Che un piè di dietro alquanto avea balzano. L'arme e lo scudo è di color azzuro Dove ritratto è un libro entro una mano, Per esser oltre il sangue e 'l nome regio Filosofo e poeta alto e egregio.
Satirion di comparir non manca, Ch'all'isola comanda di Corcira, La spoglia ha 'l suo caval morella e bianca, Sol una stella in fronte se gli mira. Fingea lo scudo una Nereide stanca Che su uno scoglio una gran concha tira, L'ostrica un gran tesor di perle asconde E mostra la ricchezza di quell'onde.
Settimo appar nel marzial collegio Clizio re di Epirotti al mar vicini, Montato sopra un gran destrier di pregio Con ricchi adornamenti aurati e fini. Gli cinge l'elmo un rubicondo fregio Di preziosi e splendidi rubini, L'impresa è il re del liquefatto gelo Che fere il mar col tridentato telo.
L'altro è quel Stellidon, che non con lieta Faccia varcato ha l'infidel marina, Di nera ornato e di pardiglia seta E conforme al suo duol move e cammina. Mancava il re di Cipro e 'l re di Creta Che dovean far perfetta la decina. E ben di lor tardar si maraviglia Il re con tutta l'Attica famiglia.
Questi diece dal re furono eletti Giovani illustri e di gran pregio altieri, Per li più valorosi e più perfetti Ch'avessero a star contra i forestieri, Ad un ad un provando con gli effetti Ch'erano arditi e franchi cavallieri, Con una lancia o più nella gran piazza. Ma non poteano oprar stocco né mazza.
Potea ciascun di lor sendo abbattuto A nova giostra rimontar in sella, Ma contra quel per le cui man caduto Fosse, non potea far prova novella. E ben di quanto fu dal re statuto Avean avuto i barbari novella, L'ordine noto era a ciascun per punto E già n'era più d'un comparso in punto.
Era a veder grandissimo diletto Or quinci or quindi uscir qualche guerriero, Ad uso suo con ricco abito eletto Variando destrier, scudo e cimiero. Ma per non cantar sempre d'un soggetto Or volgo a Risamante il mio pensiero, La qual lasciai col cavallier cortese Ch'era smontata e si traea l'arnese.
Quando al trar dell'elmetto il cavalliero Conosce Risamante per donzella, Sì confuso riman dentro il pensiero Che gran pezzo la guarda e non favella. Intanto un avveduto suo scudiero Portò un bel manto alla guerriera bella, Che 'l gentiluomo a quei ch'egli tenea Più degni usar tal cortesia solea.
Data l'acqua alle man, si furo posti A mensa, e i camerieri al lor comando Si posero a servir pronti e disposti, Or novi piatti or vin fresco arrecando. Mentre di vari cibi allessi e arrosti Si va la donna e 'l cavallier cibando, Per caso il cavallier mirò l'anello Che la donna avea in dito illustre e bello.
Dico il diamante d'infinito prezzo Che la donna acquistato avea pur prima; Stette a mirarlo il cavallier gran pezzo Giudicandolo gioia di gran stima, E benché fosse a veder gemme avezzo, Questa pur sovra ogni altra apprezza e stima, Onde alla donna in cortesia dimanda Da chi l'abbia ella avuto ed in qual banda.
– Mentre io miro (dicea) l'illustre anello, Ch'a te nobil guerriera orna la mano. In dubbio sto se 'l più ricco gioiello Si potesse veder presso o lontano. Fra' diamanti mi par questo il più bello, Non so già s'egli è arabico o indiano, Ma s'io risguardo al suo chiaro colore D'India egli vien, ch'a noi manda il migliore.
Sempre m'ho dilettato ai giorni miei Di veder gioie e me n'intendo un poco, Ma fra tutti i bei sassi nabathei Questo è 'l più bel, ch'or veggio in questo loco. Deh, dimmi ond'arricchita te ne sei Che saper bramo la persona e 'l loco, Bramo, ch'in cortesia mi manifesti (Se non ti è grave) il modo onde l'avesti. –
Risamante al suo prego non si rese Contraria, ancor ch'assai mal volentieri Narrasse altrui le sue felici imprese E fesse noti i suoi trionfi altieri; E così al cavallier fece palese Come del drago estinse i morsi fieri, E poi ch'essendo nella grotta entrata In guiderdon la gemma avea acquistata.
Come ode il cavallier che Risamante La fiera bestia avea di vita sciolta, Le man leva alle parti eterne e sante Che quella peste sia spenta e sepolta. – Ormai pur sia sicuro il viandante (Dicea) che non gli sia la vita tolta, E potrà il paesano e 'l peregrino La bellezza goder di quel giardino.
Di ciò m'allegro sì ma via più gioia Ho perché spero che tu sil colei, Che m'ha da liberar da quella noia In che son visso il più dei giorni miei, E de cui spero aver prima ch'io muoia Quel ben che bramai tanto e poi perdei; E così prego il ciel che 'l mio pensiero S'abbia di questo indovinato il vero. –
Disse la Donna: – allor ch'io trovo il modo D'espormi a qualche impresa perigliosa, Non mi ritiro indietro, anzi più godo Quando si tien per impossibil cosa. Che di disciorre ogni intricato nodo Deve aver l'alma pronta e desiosa Ogni buon cavallier quando alla gente Giova come fu questo del Serpente. –
Soggiunse quel: – Da nobil zelo spinto Che spinger suole un generoso core, Anch'io sareimi a tal impresa accinto Per sicurezza d'altri e per mio onore, Se non che dubitai di restar vinto Perché vi fusse alcun magico orrore, Tem'io gli incanti assai più che la morte Ch'ivi non val l'esser ardito e forte. –
Così dicendo mise un gran sospiro Il cavalliero e venne in faccia mesto, Né potè sì celar l'aspro martiro Che nol fesse per gli occhi manifesto. La donna di pietade e di desiro Arse d'intender la cagion di questo, E 'l pregò a dir qual novità lo strinse, Qual fera sorte a lagrimar lo spinse.
Rispose il cavallier; Grande sciagura Turbar mi fé nel ricordar l'incanto, Per un che in un castel molti anni dura Che fu cagion di pormi in pena e in pianto. – Ma contarvi la sorte iniqua e dura Ch'ebbe costui spero nell'altro canto, Dove udirete che l'uom spesso viene Per ignoranza a piagnere il suo bene.
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