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Modesta Pozzo de' Zorzi (alias Moderata Fonte) Tredici canti del Floridoro IntraText CT - Lettura del testo |
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CANTO NONO.
Argomento
Tanto pregò Filardo il gentil figlio Di Silvarte, ch'ei gli apre il suo secreto. Lo conforta e gli dà speme e consiglio Ei sì, che torna anco alla giostra lieto. Scioglie Gracisa; e in sempiterno esiglio Manda il trace un guerrier poco discreto, Vanno insieme all'oracolo e del divo Mirano il tempio sontuoso e divo.
Quai animi più lieti e più felici Di duo ch'uniti sian, vissero in terra? Quai contenti maggior, quai benefici Ad uomo nato il ciel largo disserra? Sol la cara union de i veri amici, Né vince tempo, né fortuna atterra. Robba quei ponno e libertà levare, Ma 'l tesoro del cor non pon toccare.
O beati color, cui diero in sorte Tanta felicità le stelle al mondo, Che se ben corre in due varia la sorte L'amor fa d'ambi il cor mesto o giocondo; Né cosa è che tormento all'uno apporte Che non faccia doler di cor profondo L'amico, e se nell'un piacer si trova, L'altro il medesmo ben fruisce e prova.
Trovasi quel da grave affanno oppresso Aver il cor, come talora accade, E 'l caro amico suo per amor d'esso La vita espon non pur la facultade, E la metà del mal gl'invola spesso Con l'aiuto che può, con la pietade. O che dolce sfogar l'alma dolente Con chi del suo dolor cordoglio sente!
Quell'altro di tal gaudio ha colmo il petto Che ne morria se nol dicesse altrui, E ritrovando un suo compagno stretto Gli lo discopre e ne fa parte a lui; E con questo raddoppia il suo diletto, Che 'l ben ch'in un sentia si gode in dui, E fa d'alto piacer novo guadagno Provando il ben nel cor del suo compagno.
Ma che dich'io, sì l'amicizia stende Il suo valor ch'in morte anco il mantiene, Poi che l'uom tutto in sé non si comprende Che la metà di lui l'amico tiene, E in cambio a lui mezzo se stesso rende; Onde se l'un di loro a morte viene, Mezzo nel vivo il morto vive ancora E mezzo il vivo in lui convien che mora.
D'un amor sì possente e sì gagliardo, L'un verso l'altro d'animo sì pio, Ben in quel tempo esser dovea Filardo E Floridor di cui seguir desio. Il damigel, ch'avea levato il guardo Troppo altamente e 'l giovenil desio, Tanta vergogna avea che 'l suo martire Non pur ad'altri, a sé brama coprire.
Con tutto questo al fin chiuso nol tenne (Com'udirete) al suo compagno caro, Qual vi narrai, ch'a consolar lo venne Con gran pietà del suo cordoglio amaro, E la metà del suo dolor sostenne (Benché di fuor nol dimostrasse chiaro). Dissi di lui che stava addolorato Per la fera risposta che gli ha dato.
Tutto dolente alla risposta dura Che dica per gran doglia di morire, Lo supplica Filardo e lo scongiura Ch'ormai questo suo mal voglia scoprire. – Dunque, li dice, il nostro amor non dura Almeno insino all'ultimo martire? Tu dici che finir tua morte il deve, E parmi ch'ancor vivo il vuoi far breve.
Perché non scopri a me qual caso strano Novellamente al tuo pensiero occorre? Perché il giudizio tuo già saggio e sano Stolto ora e infermo in tal sciocchezza incorre Che lasciar brami il viver lieto e umano, E te medesmo a una vil morte esporre? Uccider dei chi te d'uccider brama, Non a te stesso tor l'alma e la fama.
Se forse alcun timor t'ingombra il petto Che sta scoperto al re l'inganno usato, Che t'abbia scorto, o gli sia stato detto Che contra il suo voler tu ti sia armato, Spoglia pur il cor tuo d'ogni sospetto E versa sopra me tutto il peccato, Ch'io l'error fei, la colpa in te s'annulla, E puoi giurar, che ne sapevi nulla.
S'anco d'entrar nel marzial invito Non ti dà il cor fra tanti cavallieri, Che ti spaventi il numero infinito Sì che della vittoria ti disperi, Di partir quinci è facile il partito; Sian del finto pensier gli effetti veri, Ma non credo, che 'l cor t'affligga questo Che non l'avresti pria tanto richiesto.
Deh, se per altra causa è sì possente, L'affanno in cui di fresco entrato sei, Che sì t'ingombra l'animo e la mente Che t'occupa l'onor ch'acquistar dei, Perché non apri e sfoghi il cor dolente A me? che tu sai ben ch'io nol direi, E se potrò e saprò donarti aita Ecco pronta la mia per la tua vita.
Perché non scopri il tuo novo desio Alla nostra sincera antica fede? Già che t'avrei spiegato il pensier mio Se me premesse il duol che 'l tuo cor fiede; Non si conserva in guisa tal (cred'io) La vera legge d'amicizia in piede, Deve un amico all'altro aprir il petto, E mostrargli il suo cor senza sospetto.
Sai pur Floridor mio ch'apprezzo e amo Tutto ciò ch'egualmente ami e apprezzi, E quel solo accarezzo, adoro e bramo, Ch'io so che brami, adori e accarezzi; E per contrario a morte odio e difamo Ciò, che difami a morte, odii e disprezzi; Del tuo ben rido e del tuo mal mi doglio, E in ogni caso accompagnar ti voglio. –
Così disse egli, e al giovenetto amante Con sì belle ragion combatte il petto, Ch'ormai non è più di negar bastante E forza è che gli esprima il suo concetto. Il modesto fanciul, come importante Delitto fosse il suo amoroso affetto, Tingendo di rossor l'umide gote, Queste aperse al cor suo dolenti note:
– Piacesse a Dio che mai fussi in Atene, Venendo il padre mio, venuto seco, O se pur io dovea lasciar Micene Fuss'io restato pria per mio ben cieco, Che non avrei veduto (ond'ho tal pene) L'alto splendor del regio sangue greco, Né per trovarmi in sì misera sorte Cercherei darmi or di mia man la morte.
La singolar beltà divina in terra Dell'eccelsa figliuola di Cleardo Così possente ha mosso al mio cor guerra, Ch'esprimer non potrei com'arsi e ardo Da che per pormi il mio destin sotterra Mi fé drizzar nel suo gran lume il guardo. – Né più seguì, che 'l duol l'occupò tanto Che mancar le parole e crebbe il pianto.
Resta Filardo attonito e scontento Di lui non meno al fero annunzio ch'ode, Quanto sa che né ingegno né ardimento Può al gran desio giovar che 'l cor gli rode. Né dee nel suo saper far fondamento Che ivi non val né finzion né frode, E quanto spera men donarli aita Tanto dubita più della sua vita.
Pensa e discorre or questa cosa or quella E non sì tosto a Floridor risponde, E mentre sta sospeso e non favella Floridor versa in maggior copia l'onde; Che vede ben che quest'empia novella Il fido amico suo turba e confonde. Ma l'accorto ditteo con pronto avviso Tosto cangiar gli fé quel pianto in riso.
Come ch'avesse più di pianger voglia, Sforzò 'l suo cor per non gli dar più pena, E del novo desir, ch'in lui germoglia Con fronte se ne rise alma e serena. Poi disse: – Dunque Amor regge tua voglia? Novello amor tua libertà raffrena? Che solevi di me prenderti gioco, Quando narrava il mio amoroso foco.
Non ti turbar, ch'inusitata e nova Ti è questa piaga a me solita e antica, Che mille volte io n'ho fatto la prova E so quanto mal fa chi se n'intrica; Né però in tanti affanni il mio cor trova Così la sorte al suo desir nimica, Che, vinto dalla pena e dal martire, Per disperazion cerchi morire.
Io so ben Floridor quanto ti preme Su due cose impossibili il discorso, Che dell'una e dell'altra hai poca speme E però finir brami il vital corso. La prima è di scacciar l'alte e supreme Voglie e di porre al novo amor il morso, L'altra è (se pur ti resti in tal tormento) Di conseguirne il desiato intento.
Se ben amor non vol udir ragione Vuo' che le ragion mie con pace ascolti, Scaccia un poco dal cor la passione E comincia a pensar dove ti volti. Vedrai c'hai sciocca e vana opinione, C'hai fallaci pensier nel petto accolti, L'amar senza speranza è cosa vana, E ben sai quanto ell'è da te lontana.
Tenta un poco il tuo cor poi ch'anco il piede Non v'ha fermato ben l'empia radice, Che quando nel principio si provede Ogni stato schivar puossi infelice; E poi se amore imperioso siede, Né discacciarlo alla tua mente lice, Tenta ogni via per arrivarne al segno Prima che di morir facci disegno.
Tu se' il più bello, il più leggiadro amante Che si possa trovar dall'Indo al Moro, Più valoroso spirto e più prestante Non si può immaginar di Floridoro. Oltra le grazie in te celesti e sante Tu sei ricco di gemme e di tesoro, E se ben non possedi imperio o regno Almen ne sei quanto alcun altro degno.
La tua florida età, la tua bellezza, La grazia, la virtù, l'ardir, e l'arte, La cortesia, il valor, la gentilezza, E ogni altra degna tua lodata parte, Potrà forse in colei che 'l tuo cor prezza, Sì ch'otterrai della sua grazia parte; Non parlar di morir, Floridor, senza Far della tua fortuna esperienza.
Servirla ti convien celatamente Che troppo un alto amor pericol porta, Ma scopri il tuo valor sì chiaramente Che resti ogni altra gloria occulta e morta, E fa che 'l grido tuo l'orecchie tente Dell'inclita e real fanciulla accorta, Fa che le sia palese il tuo valore Ma non il nome tuo degno d'onore.
Forse che la tua fama eccelsa e diva, Pervenendo all'orecchie illustri e altere, Desterà in lei qualche scintilla viva Di desio di conoscerti e vedere. Credimi, Floridor, che l'uomo arriva Sol per tai strade al fin del suo volere, Sol per le vie della virtù s'ottiene La felicità somma, il sommo bene.
Dunque per non mancar dal proprio canto Di far quanto sei debito a te stesso, Asciuga da quest'occhi il tristo pianto E comincia a sperar lieto successo. E ritorniam nel campo a mostrar quanto Può nel tuo cor l'alto pensiero impresso, Escano oggi da te prodezze tante Che ti possa sperar felice amante. –
Queste, e altre ragion di più valore Disse Filardo al giovane dolente, Che gli van consolando il mesto core E racquetando la turbata mente. Mancando a poco a poco il suo dolore, È il sospirar più raro e meno ardente, Sì che preso vigor leva la faccia, Rasciuga gli occhi e 'l caro amico abbraccia.
Qual gli fesse risposta e di che sorte Per l'obligazion che gli ha infinita Ben si può giudicar, quando da morte Per lui conosce aver salva la vita. Chiuse ai sospiri e al lagrimar le porte, La guancia torna bella e colorita, Gli cresce il cor, gli torna il primo affetto, Che di gloria acquistar gli accendea il petto.
Come fior languidetto, ch'abbia il crine Tenuto chin sotto una lunga pioggia All'apparir del sol le pellegrine Foglie rasciuga e 'l ciel mirando poggia, Così fer le bellezze alme e divine Di Floridoro o in simigliante foggia, Poi che 'l piover cessò de gli occhi e insieme Godete i rai della novella speme.
Quella dolce speranza ebbe tal forza Nel giovenil pensier d'amor acceso Che nel petto il vigor cresce e rinforza E 'l dolce viso ai primi onori è reso. Già non vol più tardar, ma altier si sforza Di racquistar l'indarno tempo speso, Altier lo rende amor, bello e gagliardo Più che veduto ancor l'abbia Filardo.
Rimontaro a caval contenti e lieti Ma più Filardo in faccia che nel core (Ch'era un de più prudenti e più discreti Giovani e temea il fin di questo amore). E ritornaro taciti e secreti Alla gran moltitudine, al romore, Dove trovar che del collegio strano Tre cavallier caduti erano al piano.
Il prancipe Aliforte era il guerriero Che vinti i cavallier barbari avea. L'un possedea di Persia il grande impero, L'altro di Siria il popolo reggea; Cadde per terzo l'african Riviero. Il primo nello scudo un sol tenea, Un falcon il secondo, e per impresa Rivier portava una facella accesa.
Giunto frattanto alla superba lista Col suo Filardo il giovene possente, Vario pensier questo e quel petto acquista, E comincia a mirar diversamente Che Floridoro alla gioconda vista Di Celsidea tutto mancar si sente, E mentre il buon ditteo la giostra mira, Egli sul palco in lei le luci gira.
Ma 'l compagno al suo onor ministro fido Dal dolce oggetto suo l'invola e svia, Tal che pur viene ad occupar quel nido Che 'l re di Creta accomodar devria. L'ultimo dedicato al re del lido Venereo serve alla sua compagnia, Perché 'l re non avea posto in lor vece Altri per farne il numero di diece.
Se 'l suo nipote si trovasse in corte, Parlo di Polinide il gran Sicano, E 'l buon Griante anco in vecchiezza forte Gli faria in vece lor calar al piano. Ma 'l ritornar all'un vieta la sorte, L'altro gli bisognò mandar lontano Con molta gente alcuni giorni inante In aiuto e in favor di Risamante.
Loda il gran re, lodan l'altere squadre De greci eroi la bella coppia ardita, E Celsidea con la regina madre Le dà loda non men rara e infinita. Le belle spoglie candide e leggiadre Ogni occhio guarda e ogni mano addita, E di saper chi siano i cavallieri Braman non men de' Greci i forestieri.
La bella giostra e chi n'ottenne il vanto Altrove io dirò poi, ch'or me ne svia Risardo che va al tempio illustre e santo Con la sua bella Odoria in compagnia E con quei due che le van sempre a canto, Colmi nel cor d'invidia e gelosia Poi che fur vinti da Risardo egregio, Onde troppo la donna il tolse in pregio.
Giunsero una mattina ad una croce Che 'l sentiero in due strade dipartiva. E ecco un grido, una dolente voce Dal destro lato al loro udito arriva. Punse Filardo il suo destrier veloce Ver quella parte onde il romor veniva, E la donzella e i due guerrier non manco Spronaro inanzi a lor destrieri il fianco.
Né molto andar, che scorser di lontano Una donzella a un grosso pin legata, La qual piangendo si lamenta invano Tutta rossa nel viso e scapigliata. Risardo che gentile era e umano Corse ver la donzella addolorata, E smontato la mano al tronco stese, Ma in questo un cavallier lo sopraprese.
Un cavallier che stava ivi nascoso Tra verdi piante all'arbore vicino, E scoprendosi altero e disdegnoso, – Non scioglier (gli gridò) costei dal pino, Non esser, cavallier, ver lei pietoso, Lasciala stare e torna al tuo camino, Perché potresti a lei sciogliendo il laccio, Te poner meco in più gravoso impaccio. –
E tuttavia dicendo e minacciando Perché Risardo al suo gridar non resta, Cava del fodro il suo tagliente brando E gli segna un gran colpo in sulla testa. Risardo, che lo vede fulminando Calar, lascia la donna afflitta e mesta, E spicca un salto al fin ch'egli nol giugna, Lo scudo imbraccia e anch'ei la spada impugna.
Senza dir altro la battaglia cruda Cominciano e ai gran colpi che si danno Or quinci or quindi in fin sopra la nuda Carne più volte a ritrovar si vanno. Già per timore Odoria or trema or suda Che ne riceva il suo Risardo danno. Intanto un di quei due discioglie e sgroppa La damigella e se la pone in groppa.
Tremava ancor la donna come foglia Per la paura del guerrier villano, Ch'un'altra volta ancor se la ritoglia, Per tormentarla, ai cavallier di mano. Ma il possente Risardo, c'ha gran voglia Di castigar quell'uom crudo e insano, A tal partito già l'avea condotto Che cominciava a rimanergli sotto.
Gli avea tolto lo scudo e l'elmo aperto In quattro parti e rotto piastra e maglia; Tutto del proprio sangue era coperto, Così il guerrier lo fere e lo travaglia; Tal che 'l meschin di sua arroganza in merto Perdé la vita insieme e la battaglia. Miser, che non sapendo si condusse Contra un de' buon guerrier ch'al mondo fusse.
Risardo quando scorse il cavalliero Della sua età condotto al fin amaro, Rimise il brando e rimontò il destriero, E così al lor viaggio ritornaro. Odoria, poi ch'a cavalcar si diero, Pregò la donna a farle espresso e chiaro Qual sdegno seco il guerrier morto avea, Perché a quel pin legata la tenea.
Disse la donna: – Io mi venia mandata Dalla regina delle genti armene, Che dalla sua sorella è assediata E sola una città per lei si tiene, Dove con pochi misera è salvata, Benché di ripararsi ha poca spene Dalla sorella, che con genti tante L'assale ogni or, che detta è Risamante.
La mia regina oppressa da ogni lato Secretamente mi fece uscir fuore, Perch'io trovi alcun re benigno e grato O cavallier che venga in suo favore E la riponga nel primier suo stato, Né vaglia a Risamante il suo valore; Così per lei servir la strada presi E vidi e camminai molti paesi.
Ma non ho ancora un cavallier potuto Trovar, né re ch'a lei ne voglia gire. Quei che le han dato in sul principio aiuto, Di perder sazi, or niegan di venire; Altri d'aiutar lei fanno rifiuto Perché di Risamante aman l'ardire, Amano il suo valor, l'audacia e l'arte, E son con l'arme lor dalla sua parte.
Ond'io, poi che più giorni indarno errai, Questa mattina a lei facea ritorno Quando per mia disgrazia m'incontrai Nel cavallier, ch'oggi fu tolto al giorno. E che venisse meco lo pregai Per caminar secura d'ogni scorno; Il cavallier fingendo cortesia Accettò il prego; e cavalcammo via.
Quando giungemmo ove la via si parte In due sentier, ch'a dietro abbiam lasciato, Rivolge il freno ei dalla destra parte E non segue il camin ch'avea pigliato; Io lassa, che lo veggio ir in disparte Per altra via di quel che l'ho avvisato (Del viaggio d'Armenia a pieno instrutta), Smarrita resto e mi conturbo tutta.
Tosto m'afferra il cor con gran ragione Timor ch'ei mover pensi al mio onor guerra, Pur, fingendo pensarne altra cagione, Gli dico che la strada ei falla e erra, E che se non vol esser mio campione, Se non vuol venir meco alla mia terra, In libertade almen mi lasci gire (Come era) sola, e 'l mio camin seguire.
Ma quando veggio che 'l pregar non vale, Che mi tien per le redini e va inanti, Per lo sdegno e la doglia che m'assale Levo dolente al ciel le stride e i pianti; Lo bestemmio e gli dico tanto male, Son tante ingiurie e vilipendi tanti, Ch'ei vinto da gran sdegno che lo prende Con furia del destrier mi getta e stende.
Poi smonta anch'egli e per lo crin mi piglia E tutto il viso mi percuote e straccia; E mentre egli mi batte e mi scapiglia, Non può ottener che la mia lingua taccia. Alfin tra se medesmo si consiglia Di legarmi a quel tronco ambe le braccia, E non so donde tolta una catena, Tutta a quel pin mi lega e m'incatena.
Di flagellarmi credo avea pensiero Ancora un pezzo, e poi così lasciarmi, Quando sentì spronar più d'un destriero Da voi ch'a tempo fuste a liberarmi. Ond'ei tosto levossi del sentiero Per ispiar s'alcun venisse a trarmi Dalle sue man (mi penso), e manifesto Esser vi può da che giungeste il resto.
Così disse la donna, e poi richiese I cavallier con supplice preghiera Che volessero andar seco in difese Della regina sua perché non pera; Che per l'alto valor ch'in un comprese, Di tutti insieme poi tanto ne spera Che se vanno a colei ch'ella lor dice, Rimanerà la vinta vincitrice.
I cavallier risposero a Gracisa (Così la Damigella era nomata) Ch'essi anderian sì come ella divisa Ad aiutar la terra assediata, Ma che volean gir prima ad ogni guisa In Delfo, ove la strada avean pigliata, E come stati al sacro tempio sieno, Anderan poi con lei nel regno armeno.
La donna gli ringrazia sommamente, E d'ir anch'ella al tempio si destina Per intender dal dio biondo e lucente Ciò ch'esser dee dell'alma sua regina. Così d'accordo spronano egualmente I lor destrieri e tanto ognun camina, Ch'in breve furo in Delfo e al tempio santo Giunser, da lor desiderato tanto.
Era l'egregia incomparabil mole Composta di celeste architettura, Ben degno albergo al gran nume del sole Di ricchezza, d'intaglio e di struttura. Tutto d'oro e di pietre elette e sole Il tetto splende e le superbe mura, Il pavimento, le colonne e il fregio Son tutte gemme d'incredibil pregio.
Appaion le fenestre altere e sante Fra le colonne lor d'inclita stima, Che sembran di finissimo diamante Tutte d'un pezzo esser dal piè alla cima. Le basi ove si posan tutte quante Della seconda serie e della prima Sono intagliate con sottil lavoro Di figure e fogliami espressi in oro.
Sporgonsi in fuora i ricchi capitelli, Sopra cui di rilievo assisi starsi Veggonsi più fanciulli ignudi e belli, Che paion vivamente ivi posarsi. Questi un feston di smalti e di gioielli Da gran giudizio accomodati e sparsi, Con mani sostenean per ogni lato Che cingea l'arco del balcon formato.
Sopra l'ordine primo era il secondo Delle colonne di artifizio eguali, E 'l terzo sopra quel non men giocondo, Non men ricco di gemme orientali. Gli è ver ch'un fregio bianco e rubicondo Di perle, di rubin, di gioie tali, Tra l'un ordine e l'altro era distinto, Tutto di lauree fronde agli orli cinto.
La splendida muraglia intorno intorno Di vivaci carbonchi fiammeggiava, Che la notte non men che 'l chiaro giorno L'aria tutta e la terra illuminava. Di sopra esser coperta d'ogni intorno La macchina d'argento si mostrava; Le porte eran d'avorio e d'or conteste, Con figure d'intaglio almo e celeste.
Scolpito appar con somma industria quivi Il biondo dio ch'al fier Piton s'oppone, E leva al mondo i morsi empi e nocivi Del venenoso, orribile dragone. Sembrano il cauto arciero e 'l serpe vivi; E in sì bell'atto sta contra Pitone Apollo, e opra l'arco tanto bene, Ch'altro alla verità non si appartiene.
Risardo e i suoi compagni stupefatti Restano un pezzo a contemplar di fuore Quella fabrica illustre e quei ritratti E lodan l'architetto e lo scultore, Quell'opre e quei lavori sì ben fatti Con tante gemme di vario colore. E poi che 'l tutto assai di fuor miraro, Già scesi dei destrier nel tempio entraro.
Dentro il sacro, famoso, ampio edificio Era non men che fuor lucido e bello, E non men di ricchezza e d'artificio, D'egregie pietre e d'opre di scarpello; E di figure c'han diverso officio Nel muro espresse in questo lato e in quello; Per tutto ove fenestra non appare Splendono statue sontuose e rare.
Vedeansi intorno il transparente muro I mesi tutti figurati in oro, Sei di qua, sei di là scolpiti furo, Di color vari e vari di lavoro. Dal destro lato un uom forte e sicuro Espresso appar, che primo era di loro, D'elmo, di scudo e d'ogni spoglia ornato, Come guerriero all'arme apparecchiato.
Perché nel fin del verno alla battaglia Esce il soldato pratico e esperto, Disegna il Marzo l'uom di forte maglia E di piastra finissima coperto. Propinquo a questo ingombra la muraglia Un contadin che 'l capo avea scoperto, Con rabbuffata barba e crin negletto Parea un pastor all'abito e all'aspetto.
A piedi suoi, ch'ignudi egli mostrava Sino al ginocchio, una capra giacea, Che con grave dolor languendo stava E due capretti partorir parea. Una sampogna il pastorel sonava, E per questa figura s'intendea L'April, quando il pastor lieto e giocondo Conduce al pasco il suo gregge fecondo.
Seguiva appresso un giovane d'acerba Età nel viso fresco e colorito; Tutta è di fiori e d'or vaga e superba La spoglia, ond'era infino al piè vestito. Parea che fosse in mezzo un prato d'erba Di mille fior da zefiro arricchito; Spira dal suo bel crin soavi odori Fresca ghirlanda di leggiadri fiori.
D'erbe odorate, di rose e di gigli, Di viole e d'acanti ha le man piene; Gli aurati panni suoi bianchi e vermigli Lieve aura intorno sollevando viene. Che 'l leggiadro garzon si rassomigli Al maggio par con cui ben si conviene; Tant'erbe, tanti fior, tanti ornamenti Mostran del maggio i dì vaghi; e ridenti.
Un campo di bellissima verdura Era a costui per ordine vicino, In mezzo a cui si scopre la figura D'un faticoso e rozzo contadino; Gli finge intorno il capo la scoltura Ghirlanda, non di rose, ma di lino. Ha un dardo al fianco e tien la falce adonca Con ambe mani e l'erba mira e tronca.
Dir volea il Giugno allor che nelle apriche Campagne il fien maturo il villan siega. Un'altro dietro lui le bionde spiche Taglia del grano e 'l dosso incurva e piega, E con queste importanti sue fatiche Con tali effetti essere il Luglio spiega. Dal sol li fa un cappello in testa scudo, E fuor che 'l fianco in ogni parte è nudo.
L'ultima effigie ch'a man dritta appare Era un'altro uom pur nudo come nacque. Il fianco sol se gli vedea celare D'un pannolin, come al maestro piacque. Dinanzi un bagno di fresche onde chiare Parea lavarsi in quelle limpide acque; Con la destra una tazza al labbro tiene, Con la sinistra il pannolin sostiene.
Costui, che sitibondo il fresco sorso Ingozzar sembra e bagnar piedi e braccia, L'Agosto par, quando con tal soccorso L'ardor canicolar l'uom tempra e scaccia. L'altra metà dell'anno, ove il suo corso Séguita il sol, stava dall'altra faccia. Ma saria troppo se passar lasciassi Altri sei mesi pria che mi posassi.
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