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Modesta Pozzo de' Zorzi (alias Moderata Fonte) Tredici canti del Floridoro IntraText CT - Lettura del testo |
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CANTO DECIMO
Argomento
Nel loco sacro e pio dei chiari ingegni Non nati ancor, vede Risardo il fiore. Apollo dà risposta ai voti degni; Floridor della giostra è vincitore. Finge venir da più lontani regni Con Floridor Filardo. Arde d'amore Celsidea per lo figlio di Silvarte, Gli dà la gemma e quei vanno in disparte.
Deh, perch'a nostra età non si ritrova Un oracolo pio, santo e verace, Che di quel che ci nuoce e che ci giova Far potesse il pensier nostro capace? So ben che si vedria spesso a tal prova Più d'una guerra convertire in pace, E mille danni l'uom, mille ruine Schivar potria, s'indovinasse il fine.
O quanti matrimoni son seguiti E seguon tuttavia per non sapere, Che non sariano in fatto riusciti Quando il fin si potesse antivedere. Quanti da propri suoi sono traditi Nell'onor, nella vita e nell'avere, Che potrebbon guardandosi da loro L'onor salvarsi e la persona e l'oro.
Più d'un sta nei peccati e non s'emenda Con speranza di viver lungamente, Che forse ne faria debita emenda Se si vedesse il fin quasi presente; Ma non avendo onde l'aviso prenda Alla cieca nel mal vive la gente, E s'uom pur trova uom che 'l suo mal prevede Per esser uom com'egli a lui non crede.
Benché in quel tempo fede al falso desse Il mondo e a un'idol van rendesse onore, Pur si crede ch'ei spesso il ver dicesse Per mantener ogn'alma in quello errore. A cui la gente poi quel tempio eresse Di cui sentiste il magisterio fuore; E vi lasciai, che l'una faccia avea Descritta dentro e all'altra io mi volgea.
Prima il celeste artefice vi spiana Nude le gambe un uom rozzo e villano, A piè de cui risorge una fontana Di chiaro vin, che gìa rigando il piano. La chioma sulle spalle ha stesa e piana E una vite ha nella manca mano, Con l'altra i graspi in gran copia cogliea Dell'vua e con la bocca gli premea.
Come il vendemiator co' piedi suole L'uva calcar per farne uscir il mosto, Con la bocca costui, con le man sole Era a diversi offici atto e disposto. Dunque con tal effetto inferir vuole Il mese successor del caldo agosto; Ed è ben con ragion ch'ei si rassembre Al fruttifero mese di Settembre.
L'imagine seconda è un giovenetto Ch'ancor non mostra il primo fior nel volto, Velato ha 'l capo e candido il farsetto, Polito indosso e accommodato molto. E' ver ch'egli era infin a' fianchi stretto E 'l resto largo al vento aperto e sciolto, Le gambe e i piedi sol gli avea lasciati A studio lo scultor nudi e spogliati.
Costui con molte gabbie d'uccellini Parea che mille frasche in mezzo un prato Piantate avesse, e d'aggroppati lini Tutto quel campo fosse circondato, E che gli uccelli aerei e pellegrini Non potesser veder l'inganno usato, E parean quei di gabbia ascosi e lieti Invitar gli altri a dar giù nelle reti.
L'ascoso uccellator lungo il pratello Alla sua preda intento si vedea, E nel pigliar che fea più d'un augello Di lor semplicità rider parea. Questo ch'insidia il passero e 'l fanello, L'Ottobre sol significar volea, Quando gli uccelli insieme a schiera vanno Verso il paese, ov'è più caldo l'anno.
Un rustico arator si vedea poi Oprarsi anch'ei nel nobile teatro, E stimolar gli travagliati buoi Che dietro si traevano l'aratro. Eran tutti stracciati i panni suoi, Il color del suo viso è bruno e datro, Sulla chioma ch'avea distesa e corta Per lo vento un cappel di lana porta.
Con la man destra l'arator tenia L'aratro, che tiravano quei due Lassi animali, e nel terren scolpia Con la sinistra le fatiche sue. Il sangue che dalle punture uscia Dell'uno e l'altro affaticato bue, Così leggiadramente era scolpito Che da vivi animai pareva uscito.
Del mese delle Pliade indizio dava La figura ch'io dico, e a suoi confini Era un che miglior abito portava, Più bianco in faccia e con più lunghi crini. La sua polita barba non mostrava Un pel che più degli altri s'alzi o chini, Nella man manca un cesto avea di grano Di cui spargendo gìa l'arato piano.
Era il Decembre quel, la cui stagione, Che si semini il gran nel campo chiede. Appresso un robustissimo garzone D'aspetto fiero e d'animo si vede; Che va alla caccia il suo ritratto espone, Che i fieri veltri inanima alle prede, Ch'alle timide lepri il laccio tende E qual coi cani e qual con reti prende.
Il giovane mostrava atto e robusto La ben composta barba, el crin ornato, Ma le gambe cingea, le braccia e 'l busto D'un vestir molto stretto e rassettato; I cani, c'han di lepri avido il gusto, Seco scherzando andavangli da lato, Ei gli lusinga e liscia a lor la testa, Essi a lui con la coda fanno festa.
Con Gennaio tenea molta sembianza Questo ardito garzon, quando uscir fuore Con reti e cani suol, com'ha in usanza Per le nevose strade il cacciatore. Per ultimo ingombrar quivi la stanza Si vede un vecchiarel carco di orrore, Che presso ad un gran foco siede involto Di folte pelli e tutto in se raccolto.
I giorni di Febbraio aspri e gelati Mostra il canuto vecchiarel tremante, Che sta coi membri involti e arricciati, Con le man stese a quel gran foco inante. Vedevansi i disegni variati Variar le figure tutte quante, E come allo scultor fu ben aviso Un color ha la chioma, un altro il viso.
Con sì bell'arte era ciascun espresso Che sembra vivo e che si mova e spiri, In modo fra le gemme era ben messo L'oro cinto da perle e da zafiri. Non avean le figure un atto stesso, Ma con diversi accomodati giri Facean l'officio a lor tempi opportuno, Con un gesto che proprio era a ciascuno.
Non mancan sopra questi i propri segni, Ariete, Toro, Gemini e i seguenti. Par poi ch'ogni pianeta alberghi e regni Sopra le case lor convenienti; E tutti quei ritratti e quei disegni Che sono al chiaro nume appartenenti, I rilievi, gl'impressi, i pieni e i fori Cinti e divisi son da verdi allori.
Il pavimento è tutto lastricato Di quadri d'alabastro e di coralli, Sorge l'altar nel mezzo almo e sacrato Di marmo lustro assai più che cristallo, Sopra cui Febo in piede figurato Tutto d'un pezzo è del più bel metallo; D'oro massiccio in mezzo all'altar sacro Splende il suo divo egregio simulacro.
Son l'auree chiome sue splendide e chiare Di verdeggiante alloro incoronate. Nella destra la cetra e 'l plettro appare, Nell'altra l'arco e le saette aurate. Chiuso in una cappella è il sacro altare Con colonne di porfido intagliate, Fra colonna e colonna in piedi stanno L'ore pronte a servir l'autor dell'anno.
I sacerdoti con dorata stola Van per lo tempio taciturni e cheti; Il tempio alato or quinci, or quindi vola Che scopre a lungo andar tutti i secreti. Ma che dirò della superba scola De' gloriosi e nobili poeti, Ch'intorno al divo altar furo intagliati, Ben ch'in quel tempo ancor non fosser nati?
Nella facciata anterior fra loro Un uom d'ogn'onor degno e riverenza Stava nel mezzo, il cui lume e decoro Parea fra gli altri aver la preminenza. Più che di lauro aver corona d'oro Meritava egli alla regal presenza, E non parea fra quei c'aveva a canto, Ch'altro uom vi fusse venerabil tanto.
Sedea con grave e con serena faccia Di gloriosa porpora togato, Di girli appresso ogniun ben si procaccia, Ma pochi son quei che vi vanno a lato; E ei par che pur chiami che si faccia Innanzi ogn'alma e se le mostri grato. Era il suo nome in or puro e giocondo; DOMENICO VENIER luce del mondo.
Quel ch'alla destra più propinquo gli era Di fresca età, di generoso aspetto, Ben discerneasi al viso e alla maniera, Ch'era un leggiadro e nobil intelletto. Leggevasi dell'alma illustre e altera In lettere d'argento il nome eletto, E si potea da quel comprender chiaro Ch'era MAFFEO VENIER celebre e raro.
Un altro dal suo lato era scolpito, Di lui seguace e del suo onor compagno, Turavasi la bocca con un dito, Quasi gli sia il tacer lode e guadagno. Dicea l'argento in note compartito Sopra il suo capo, il nobil CELIO MAGNO Parea di chiaro e di eccellente ingegno, alla presenza l'uom famoso e degno.
Prossimo gli era un uom d'alta e profonda Dottrina in vista e d'ottimi costumi. Costui par che virtù col guardo infonda, E che del suo splendor la terra allumi. Ha lungo manto e d'anni in faccia abonda, E sopra un libro aperto afisa i lumi. Di sopra BERNARDIN PARTENIO appare, nell'una e l'altra lingua uom singolare.
Quel che mirava alla sinistra mano Del chiarissimo padre il vivo raggio, Avea nera la barba, el viso umano, Pareva uom di giudizio accorto e saggio. Era la nota ORSATO GIUSTINIANO, Felice spirto, onor del suo lignaggio. Sì come i primi un lungo abito porta, Che gravità con riverenza apporta.
D'età matura un uom gli succedea Che par ch'alle sue spalle il passo appreste, E per quel ch'alla vista si scorgea Era non men d'ingegno almo e celeste. La lunga spoglia indosso non avea Ma corto è il manto che l'adorna e veste, Nel breve suo che la scrittura espone ERASMO si leggea di VALVASONE.
Finia questa facciata una persona, Che dimostrava al grave aspetto e degno Dover l'acqua gustar in Helicona, E nel metro passar degli altri il segno. VICENZO GILIANI il breve suona, D'elevato saper colmo e d'ingegno. In questa effigie è tal virtute espressa Che non giunge il mio verso ai merti d'essa.
In testa dell'altar dal lato manco D'età più fresca un nobil uom seguia, Che nell'aspetto esser parea non manco Dotto, onorato e pien di cortesia; ALBERTO LAVEZUOLA, che mai stanco Di seguitar il biondo Apollo sia Espresso aver, per cui sarà gioconda La gran città che 'l bello Adige inonda.
Poi si vedeva un uom che similmente Parea nato agli studi, e nel cor molto Era benigno e di elevata mente, Se l'animo si può scerner dal volto. Quegli anni che più rendon l'uom prudente Lo spirto possedea leggiadro e colto. Biondo era, e 'l manto infino al piè l'ingombra E scritto avea BARTOLOMEO MALOMBRA.
Veniva a empir il quadro da quel canto Una persona affabile e discreta, Di saggio e di bel animo per quanto Mostra la faccia degna e mansueta. Parea fermar le dolci acque col canto, Né men de gli altri esser degno poeta, Avea l'abito breve e la sua nota CESARE SIMONETTI il mostra e nota.
Ne l'opposta faccia, pur in testa Del sacrosanto altar, ma da man dritta, Un'altra effigie in piè si manifesta, D'alta presenza e signoril descritta. Splendida e vaga indosso avea la vesta, E la lettera che sopra era descritta GIULIAN dimostrava GOSELIMO, D'ingegno felicissimo e divino.
Un altro presso lui di fresca etade Vedeasi, il qual parea venir con fretta, Quasi che gli rincresca e non gli aggrade Ch'altra persona innanzi il piè gli metta. Il luoco ove è scolpito persuade Ch'ei sia d'una virtù rara e perfetta, E la nota, ch'avea rendea palese Ch'egli era il dotto CESARE PAVESE.
Appresso avea ritratto lo scalpello Un uom d'età più giovane e più fresca, Che di gir presso il nobil drappello Par che le forze e l'animo gli cresca. Lungo avea il manto e in testa avea un cappello, E benché tra questi ultimo riesca, È però primo fra mill'altri dotti, Di sopra era GIANMARIO VERDIZOTTI.
Nell'ultima facciata, che scolpita Di dietro fu dove era poca luce, Una giovane stavasi romita E non ardia con gli altri uscir in luce, Vergognandosi assai che troppo ardita Aspirasse alla via ch'al ciel conduce, Avendo tanto basso e fosco ingegno Quanto sublime e chiaro era il disegno.
Bianca avea indosso e lunga la gonnella Come allo stato virginal conviensi, E pareva in età verde e novella Aver nel petto alti pensieri accensi. Non avea breve alcun questa donzella Che la fesse palese agli altri sensi, Ch'allo scultor che la sua effigie espresse Grato non fu che 'l nome si sapesse.
Dell'eccelsa cappella è il cielo adorno D'azzurro e d'or pur con figure elette, V'erano le sette arti impresse attorno Che liberali son chiamate e dette; Nel mezzo un nobil uom vi fea soggiorno, Cui ciascuna parea di queste sette Voler cinger la testa illustre e rara Di corona immortal di lauro a gara.
Benché fusse d'età cinto e ripieno Com'alla vista scorger si potea, Di vera gloria aver più colmo il seno Il ritratto mirabile parea. Un aere in fronte avea grato e sereno Che più felice e amabile il rendea, Di GIOSEPPE ZARLINO il nome scopre, L'argento e lungo manto il veste e copre.
Poscia ch'alquanto il giovane Risardo Con tutti i suoi religioso e pio Andò pascendo il suo cupido sguardo Per lo tempio fatal del biondo dio, Devoto inginocchiossi e non fu tardo A spiegar a quel nume il suo desio; Così ciascun di lor fu ingenocchiato Con le man giunte, el volto disarmato.
Il principal ministro, che consacra Le vittime ad Apollo e quello adora, Per li gradi salì dell'ara sacra E com'è suo costume il prega e ora. Per aver la risposta o dolce, od acra Il sacerdote il vaticinio implora; Pendon l'accese lampadi d'intorno, Dando lume a colui ch'alluma il giorno.
A pena di pregar l'acceso nume Finì il ministro avvolto in aurea gonna, Che raddoppiar le faci il sacro lume E tremò del gran tempio ogni colonna. Indi s'udì fuor d'ogni uman costume: – Avrà la donna, e l'uom l'uomo e la donna, E s'unirà la coppia con la coppia, Che contra il sangue suo tant'arme accoppia. –
Dell'oscura risposta assai confuse Restaro l'alme supplici e devote, Col cor doglioso e con le labbra chiuse Non potendo caper l'oscure note. Allor pien di furor la bocca schiuse Il profetico sommo sacerdote E gridò forte: – O donne, o cavallieri, Udite del gran dio gli annunzi veri.
Quello di voi ch'in abito d'uom forte Nasconde il femminil suo vero sesso, Di questo cavallier sarà consorte, C'ha nello scudo una donzella impresso. Agli altri due riserbasi altra sorte, Come il felice oracolo ci ha espresso. Sono in Armenia, ove fan guerra e liti, Le sorelle cui denno esser mariti. –
Colmo d'inestimabile contento Della risposta il giovanetto trace, Ringrazia il dio propizio al suo talento Poi che pur vuole il ciel quel ch'a lui piace. Levossi in piede e d'abbracciar non lento Fu la sua dea che n'arrossisce e tace; E da quel giorno in poi volse Risardo Ch'ella lasciasse l'abito bugiardo.
Gli altri duo cavallier dogliosi e mesti Di ciò furon assai ne lor secreti, Ma non osar dolersi dei celesti Avvisi, onde restar taciti e cheti; E ver l'Armenia a cavalcar fur presti Onde speranza avean pur d'esser lieti, E con Gracisa presero il camino Che detto avea l'interprete divino.
Risardo, che benigno era e cortese, Di questi cavallier mosso a pietade, Di voler seco gir partito prese, E cavalcò per le medesme strade; Gli è ver, che non sì tosto in quel paese Si ritrovò, ch'amor lo persuase A passar qualche dì solo in riposo, Poi che dir si potea novello sposo.
Ma perch'io temo che 'l mio dir vi annoi Se di lor seguo e delle due sorelle, Fia ben che, differendo a dirne poi, Del re di Grecia ormai vi dia novelle. Dissi che dieci cavallier de i suoi, Con arme e sopravesti ricche e belle, Erano usciti ad acquistar l'alloro Contandovi Filardo e Floridoro.
E lasciai che dal principe Aliforte Tre cavallier furono posti al piano, Brandilatte, ch'in Siria avea la corte, Ateronte di Persia e l'Africano. Or dico, ch'esaltando il guerrier forte La nobiltà dei Greci e il popol vano, Un cavallier uscì dall'altra parte Che parea nell'aspetto un novo Marte.
Miricelso d'Egitto, che d'un padre Nacque con l'innocente Raggidora, Venuto anch'ei contra le greche squadre fu quel ch'uscì contra Aliforte allora. Tosto all'armi vermiglie, aure e leggiadre, Scorto fu da ciascun quando uscì fuora, Ciascun conobbe il principe del Nilo All'insegna ch'avea del cocodrilo.
Preser del campo e fu l'incontro tale Che piegò molto il cavallier d'Egitto, E mostrò di cader più d'un segnale, Perdé le staffe e pur rimase dritto. Ma non ebber però la sorte uguale, Così fu del gran colpo il greco afflitto, Che perdute le forze e insieme il freno, Fu sforzato a cader sopra il terreno.
Dopo lui Miricelso abbatte e getta Il re d'Arcadia netto dell'arcione, Indi al re Clizio fa premer l'erbetta Che presso il duca avea Satirione. Volea Satirion far la vendetta D'Aliforte, di Clizio e d'Elione, Quando alla giostra uscì fiero e sdegnoso Della gran Tebe il principe famoso.
Venirsi incontra e poser l'aste in resta I cavallier gagliardi oltre misura, L'Egizio vol ch 'l ferro il ventre innesta, Egli roppe la lancia alla cintura, Ma 'l teban lui percosse nella testa E dimostrò la spalla aver più dura, Né si poté l'Egizio schermir tanto Ch'Apollideo n'ottenne il pregio 'l vanto.
Caduto Miracelso, Apollideo Del feroce Marcan, ch'era fratello Dell'alto re di Persia, ebbe trofeo, Ch'avea lo scudo candido e morello, Quando un guerriero uscì di cui non feo Natura il più superbo e a' dei ribello, Ha l'arme azzurre e nello scudo segna In campo azzurro un monte per insegna.
Ventiquattro anni il giovane feroce Ha già finiti e è di forza estrema, Tal che in ogni periglio e caso atroce Par che infino di lui la morte tema. Amor ch'è sì arrogante a lui non noce, E da quel cor crudel s'asconde e trema. Era costui del buon destrier signore, Del quale or Floridoro è possessore.
Suo nome era il superbo Sfidamarte, Cui l'imperio devea di Trabisonda, Delle cui chiare imprese in ogni parte Tutta la terra il grido altier circonda. Non valse al buon teban l'ardir e l'arte Contra costui che di tal forza abonda, Che ben che si tenesse assai difeso, Lo gittò lungi dal destrier disteso.
Con Stellidon roppe all'incontro l'asta, Né l'un cadde né l'altro del destriero, E poi che 'l primo incontro lor non basta Con nove lancie un'altra prova fero; Il greco cade, e l'altro ancor contrasta Contra Satirion, Sirio, e Algiero, E ciaschedun di lor con poca guerra Per lo suo gran valor vince e atterra.
Or in Filardo solo e in Floridoro De' greci eroi fondata era la speme, Che restano a provar la virtù loro Contra il guerrier che nullo incontro teme. Per coronarsi il crin di palma e alloro Pon Sfidamarte le sue forze estreme Contra Filardo, il qual si mosse in fretta, E quanto è lungo dell'arcion lo getta.
Gli è ver che nel colpir che fé Filardo Il suo destrier non ben si tenne in piede E parve pigro a rilevarsi e tardo, Così grand'urto il buon ditteo gli diede. Ma se di lui più Floridor gagliardo Non si dimostra, il barbaro l'eccede; Perdono i Greci il trionfal onore, Se non è Floridor di lui migliore.
Restava a Floridor l'ultima prova Contra costui ch'ogn'altro in terra stese, E ben credean della vittoria nova I barbari portar nel lor paese. Già Floridoro, a cui nel petto giova Quella fiamma ond'amor tanto l'accese, La lancia tolta in sulla coscia avea E contra Sfidamarte il fren volgea.
Ben parve in atto, ai gesti, al movimento Superbo, al grave, eroico, e fier sembiante Esser il fior degli altri, e d'ardimento Gire e di forza a tutti gli altri inante, Come uso fosse delle volte cento Mila in tal gioco, altier si fece inante, E nel uscir tal mena il destrier vampo Che par che tenga ei sol tutto quel campo.
Grande è il vantaggio suo, ch'oltra il valore C'ha per natura, amor gli accresce lena, E di più sotto ha sì buon corridore Ch'un altro tal porria trovarsi a pena. Sfidamarte, ch'ancor non sente Amore E ch'a un debil destrier preme la schena, Altier vien a incontrarlo, e alla penna Dello scudo al garzon rompe l'antenna.
Da Floridor fu colto nell'elmetto Il barbaro, che lui non avea mosso, E s'urtaro i destrier petto con petto E in guisa ne restò ciascun percosso, Che quel di Sfidamarte fu costretto A rovinar col suo signor addosso, Il qual di tale incontro ebbe più sdegno Che s'avesse perduto il proprio regno.
Per la grave percossa anco il cavallo Di Floridor mise le groppe in terra, Ma pose al rilevar poco intervallo Tosto ch'ai fianchi ebbe l'usata guerra. Smarrì ciascun di Sfidamarte il fallo, Maraviglia e timor ciascuno afferra. Or alla giostra il re d'Arabia venne, C'ha la fenice, e anch'ei cader convenne.
Vinto costui, ch'era di bianco e d'oro Ornato e nome Lucidalbo avia, L'un dopo l'altro assalse Floridoro Il re di Media e quel di Tartaria. Norando il primo ha per impresa un toro, L'altro una lince e nomasi Anachia. La lancia Floridoro in resta pone E l'uno e l'altro abbatte dell'arcione.
Dopo questi il garzon getta sul prato Il re d'Ircania e quei di Sufiana, Il primo, ch'Androcaspe è nominato, Una tigre crudel disegna e spiana, Frangileo, che fu l'altro, avea arrecato Un uom selvaggio in mezzo una fontana. Già il candido guerrier tutta la gente Vincitor della giostra auguria e sente.
Ma il barbarico stuol che non intende Che Floridor rimanga vincitore, Tosto altre lancie una per uno prende E rimonta ciascun sul corridore. Floridor non si perde, anzi s'accende In maggior ardimento e in più vigore; Urta il cavallo e Miricelso coglie, Che primo venne, e del destrier lo toglie.
Rivier scavalca, il re di Persia abbatte, Che superbo l'incontra e se gli oppone, Urta Marcan, percote Brandilatte, E l'uno e l'altro fa restar pedone. Il cavallier più candido che latte Insomma vinse tutte le persone; Per l'allegrezza allor suona ogni tromba, E 'l grido de le genti al ciel rimbomba.
Gioisce il re, s'allegra Celsidea, Tutto il popolo ride, ognun ne gode Che dal suo canto la vittoria avea, E all'incontro il barbaro si rode. Ma perché 'l nome altier non si sapea Del vincitor non se gli può dar lode, Pur con quei nomi onorano il suo merto Che dar si ponno a un cavallier incerto.
Tosto invitar per publico trombetta Fa l'alto re l'illustre vincitore, Perché 'l ricco tesor, ch'a lui s'aspetta Vol presente ciascun dare al suo onore. Anzi vol che l'eccelsa giovenetta Lo dia per grazia al cavallier maggiore, E comanda a ciascun della gran corte Ch'accompagni il guerrier famoso e forte.
Dai più illustri signori accompagnato Fu l'alto cavallier non conosciuto, E si fu al re Cleardo appresentato, Dinanzi a cui venne tremante e muto. Quel magnanimo re sel pone a lato E vol che sia da ciaschedun veduto, L'onora, l'accarezza e gli dà loda, E cosi ognun lo riverisce e loda.
O re, se conoscesti il cavalliero Che tanto esalti e sopra ogn'altro onori, Non so se così caro al tuo pensiero Saria comor che 'l suo bel nome ignori. Anzi saria, ma se sapesti il vero De suoi novelli a te non grati amori, Perché sei troppo altier, troppo superbo, Gli saresti nimico empio e acerbo.
Eran concorsi in numero infinito Duchi, principi, re, conti e marchesi Nella gran sala, ove al reale invito Sono coi Greci i barbari cortesi. Ivi Marcane, e 'l re di Persia ardito Son con Rivier, con tutto il resto ascesi, Eccetto Sfidamarte che per sdegno Allora allora uscì del greco regno.
Fatta la dolce e debita accoglienza Tra quella e questa egregia alta persona, Floridor trema alla real presenza E confuso non parla e non ragiona. Non vede l'ora mai di far partenza, E d'acquistar la trionfal corona, E tuttavia si sta raccolto e muto Per timor di non esser conosciuto.
Stupisce il re, ciascun si maraviglia Che non dia il cavallier la voce fuora, E se ne duol tra sé la regia figlia Che dentro più che fuor gia 'l pregia e onora. Il re lo prega a discoprir le ciglia E 'l nome a dir che sia celebre ogn'ora; Vol ch'all'altezza sua tal favor faccia Ch'esso lo veggia e tutti gli altri in faccia.
Gli altri signori instavano Filardo Che si cavasse ormai l'elmo di testa, E che fesse palese al re Cleardo La loro altera e gloriosa gesta. Il buon ditteo non fu a risponder tardo A più d'un che l'astringe e lo molesta, Sapea finger benissimo e mentire La voce e i gesti, onde comincia a dire:
– Serenissimo re, noi siam fratelli Di Tanafrè, gran principe de' Sciti, Né per esser maligni, empi e ribelli Dal nostro almo terren semo partiti, Ma 'l grido de tuoi fatti illustri e belli Ci ha tratti a tempo ai tuoi famosi liti, Dove, s'oggi mostrato abbiam valore Vogliam che 'l tutto ceda a tuo favore.
Piacque al nostro signor nel partir nostro Questo statuto e questa legge darci, Che mentre noi starem nel regno vostro Non dovessimo mai l'arme spogliarci. Dunque se 'l sangue ho con la patria mostro, Non ti doler se non vogliam mostrarci, Che giustizia e ragion non può patire Che dobbiam sì gran re disobedire.
Né t'adirar signor, se 'l fratel mio, Che detto è Biancador, non ti favella, Perché fiero accidente, iniquo e rio Gli ha tolto la pronunzia e la favella. E per gradir più avanti al tuo desio Me, Calindrano, al tuo servigio appella, Che sarò pronto agli mandati tuoi Non men che siam questi onorati eroi. –
Le oneste scuse il re, ch'era prudente, Finse accettar con volto accorto e lieto, E con l'esempio suo tutta la gente Rimase col pensier tranquillo e cheto. Sol la regia fanciulla arder si sente Di contrario voler nel suo secreto, Né il cor può far dal gran desir leggiero C'ha di veder quel muto cavalliero.
Di cento vaghi gioveni presenti Che stanno a contemplar la sua bellezza Ella non cura, e sol tiene gli occhi intenti Nel cavallier che tanto ammira e prezza. – Se non son l'altre parti differenti (Dicea tra sé), se 'l viso ha tal vaghezza Qual l'aspetto dimostra, non è al mondo Un cavallier più bello e più giocondo.
Felice chi veder l'alto valore Poté di lui, che dianzi ogni altro oppresse, Ma più felice poi chi lo splendore Del suo volto divin mirar potesse. – Cosi va rivolgendo per il core Un pensier e un altro che successe, Non sa qual che sia amor, né sa dar nome Al novo affetto, e arde e non sa come.
Rozza la verginella ai duri affanni D'amor dà loco e tra sé langue e pena, E non intende in così teneri anni Ch'amor sia quel che l'arde e l'incatena; Ma vede ben che de suoi dolci danni Saria rimedio e di sua dolce pena Se potesse mirar l'amato obbietto, Ma l'impedisce il verginal rispetto.
S'accorse Floridor ch'era mirato Con molta affezion dalla sua dea, E tra sé dice: – O Floridor beato, Se per tal ti tenesse Celsidea, E non per quel c'ha finto e imaginato Il cavallier dell'isola dittea! Beato tu, s'ella sapesse il vero, E non fusse il suo cor ver te più fiero. –
In questo il re con graziose ciglia Per non mancar d'alcun suo debito atto, Dolce ricorda alla diletta figlia Che 'l cavallier da lei sia satisfatto. Divenne più che rosa ella vermiglia, Abbassò gli occhi, e riverente in atto In premio dell'altissima vittoria Diede al guerrier la meritata gloria.
Diè, ma fu quel suo dar di tal valore Che più gli tolse assai che non gli diede; La corona gli diè, gli tolse il core, Strano cambio, e senza opra alta mercede. Ahi, che tra quelle gemme è ascoso amore Qual tra fior serpe, e 'l misero non vede, Per ricordarli poi col don felice La dolce avara sua condonatrice.
Di quella bella man d'ostro e di neve Troppo fu grato al cavalliero il dono, E mentre accorto il gran favor riceve, Le offre con cenni ogni or la vita in dono. Fatta la cerimonia che si deve, Il cavallier che può dar fuora il suono, Chiede licenza al re che di negarla Già non ardisce, ond'in tal modo parla:
– Famosi cavallier che nel mio lido Venuti siete, e col valor che mostro Avete al mondo, ove sia eterno il grido, Conservaste l'onor del regno nostro, Mi duol di non poter nel proprio nido Pagar in parte il gran merito vostro. Sol del vostro partir m'incresce e duole, Ch'effetti usar vorrei, non dir parole.
E se debito alcun di gentilezza In generoso cuor ritrova loco, Vi prego a restar qui dove s'apprezza Virtù e valor più ch'in ogn'altro loco, E con gaudio comune e contentezza Sarete i primi eroi di questo loco, Né manco avrete qui grazia e favore Ch'abbiate appresso il vostro imperatore. –
Delle cortesi offerte il buon ditteo Grazie infinite al re Cleardo rese, E di lasciar disposto il campo acheo Conferma il detto suo tutto cortese. Con Algier se ne duole Apollideo, Duolsene ognun che la partita intese, Ma Celsidea di cor tanto sospira Che la madre ver lei le luci gira.
Per vietar ogni scandalo occorrente Che del troppo tardar nascer potria, Filardo allor si parte incontinente E quasi Floridor per forza invia. O quanto è grave a un amator ardente Lasciar colei che tanto ama e desia! Credo che Floridor per quel partire Fusse vicino all'ultimo martire.
Scendon le scale e lascian mesti tutti Della partenza lor quei gran signori, E fingendo voler gli ondosi flutti Solcar, girano al porto i corridori; Di novo poi nella città ridutti Spogliarsi l'armi e i candidi colori, Né fu chi comprendesse il lor ritorno Ch'era già sera e alcun non gìa più attorno.
Nel lor comodo albergo si raccoglie L'illustre greco e 'l cretico garzone, E vi richiudon l'armi e quelle spoglie Che potean farli noti alle persone. Orfil di preparar cura si toglie La cena a Floridor e al suo patrone. Orfil che di Filardo era servente, Fido, secreto, accorto e diligente.
Ma sazio Floridor troppo e svogliato Dall'assiduo pensier che lo molesta, Non può cibo gustar che gli sia grato E con la faccia sta languida e mesta. Si finge tutto stanco e travagliato, Tutta la vita aver lacera e pesta, Né vol che 'l servo sappia il suo concetto Per più d'un ragionevole rispetto.
Tra lor conchiusa in breve spacio d'ora La poco grata e solitaria cena, L'acceso Floridor, ch'ad ora ad ora Nel cuor si sente aumentar la pena, Col raggio di Proserpina esce fuora Dove il desio troppo sfrenato il mena, E al palaggio tornò, ma già m'aveggio Che pieno è il foglio onde posar mi deggio.
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