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Modesta Pozzo de' Zorzi (alias Moderata Fonte) Tredici canti del Floridoro IntraText CT - Lettura del testo |
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CANTO UNDICESIMO
Argomento
Floridoro a spiar la regal cena Va di nascosto e 'l fato il piè gli invia Nella camera amata. Ei la sua pena Scrive e per lo balcon scende e va via. Celsidea trova il foglio e duolse e pena. L'un perse uccide l'altro. Ha lite ria Floridor con Marcan. Del perse morto Danno a Cleardo i re barbari il torto.
Qual vigor e possanza alberghi e regni Nella virtù, ch'in gentil petto siede, A mille prove, a mille chiari segni, In mille occasion s'è visto e vede. La forza di costei gli odi e gli sdegni Spegne e in suo loco accende amore e fede, La virtù non pur placa e spegne l'ira, Ma l'uom da molte iniquità retira.
Sforzisi ogn'uom de aver qualche virtute, Che a loco e tempo, in qualche modo e via Esser non può, che questa non l'aiute, Che qualche ben, qualch'util non gli dia. Sua forza spesso trae di servitute L'uomo e pregion gli schiva e morte ria, E degli antichi e dei moderni tempi Addur potrei mille di questo essempi.
La virtù ben disposta in un soggetto Rende il suo possessor chiaro e gentile, E l'uom che l'ama e se n'adorna il petto Non si può dir (sia chi si voglia) vile, Nè può da povertade essere stretto Chi di virtù segue il lodato stile, Che sia d'arme, o scienzia, premiato Da più d'un spirto vien cortese e grato.
Ma non è da pigliarsi maraviglia, Ch'all'uom tal dia costei grazia e favore, Che di man cava altrui la robba e piglia Gran premi o per dottrina o per valore; Se del re greco alla superba figlia Può la virtù cavar del petto il core, Di quel possente giovene in persona, Che vinta avea la giostra e la corona.
Lasciaive il giovinetto valoroso Poco di tanta sua vittoria altero, Che dopo un breve spazio di riposo Lasciato avea Filardo e lo scudiero. E spinto dallo stimolo amoroso Ch'entrar fa l'uomo in ogni caso fiero, Verso il real palagio i passi volse, Né fuor che 'l brando altra armatura tolse.
Tra la turba de' servi entra infinita Che dal felice albergo or scende or sale, E senza alcun pensier della sua vita Ardisce di montar le regie scale. Fortuna, che gli audaci spesso aita Gli fu così propizia e liberale Ch'alcun non gli diè mente, alcun non disse, Chi sei? né pur cercò donde venisse.
Solicito ciascun studia e attende Quell'offizio a fornir che gli fu imposto, Né cura di cercar l'altrui facende Per essequir le sue quanto più tosto. Nella regia cucina il foco splende Col diverso animale allesso e arrosto, E le grate vivande in copia fanno Di quante sorti imaginar si sanno.
Nella splendida sala aurea, lucente Dell'allumata cera in ogni canto, La festa si facea solennemente Fra le donne e i guerrier ch'onoro e canto. Il cauto Floridor celatamente Si pone al buio, el popol tutto quanto Potea veder né esser d'alcun veduto, Non che raffigurato e conosciuto.
A prima giunta il re di Persia vede Che la regia fanciulla al ballo invita, E lei cortese alzarsi dalla sede, Alla sua man la man barbara unita. Mover la scorge or l'uno or l'altro piede Con grazia e leggiadria tanto spedita, Ch'in un medesmo tempo amor l'assale, El punge gelosia cruda e mortale.
La danza a coppia a coppia era guidata Con lungo filo a passo grave e lento, Felice occasion, comoda e grata Di scoprir agli amanti il lor tormento. Chi la sua dea pietosamente guata, Chi le chiede mercé con muto accento; Tutto quel regio albergo è festa e gioco, Ogni gaudio, ogni ben regna in quel loco.
Era nella stagion, che si rinova Di Bacco il soavissimo liquore, E che 'l pesco maturo il gusto approva Col pomo più durabile e migliore. E 'l sol lontan dalla vindemia nova Cresce alle notti e ai giorni abbrevia l'ore, Tempo che di cenar s'ha per costume Di notte allo splendor del cereo lume.
Poi che in tanta allegrezza e in piacer tanti Si consumò gran parte della sera, Le tavole fur poste, ove di quanti Cibi si pon bramar gran copia v'era. Le cetere e le lire consonanti Da umiliar ogni anima più fiera Col canto dolce più che di sirena Accompagnar la sontuosa cena.
Né vi mancaro illustri, alti poeti, Che di felice e ben purgato ingegno, Versi accordando al suon leggiadri e lieti, Laudaro ogni guerrier famoso e degno. Né celebraro men come discreti Gli esterni eroi che quei del greco regno, Né men lor piacque alzar sopra le stelle La virtù de le donne ornate e belle.
Concesso avea per somma grazia immensa Ai cavallier de le diverse arene Che sedessero insieme ad una mensa Con le vergini greche il re di Atene. Qui (come il fato a suo piacer dispensa Grazie) tal loco il re di Persia tiene, Che sedea incontra al suo lascivo sguardo La bellissima figlia di Cleardo.
Era dell'amor suo quel re sì acceso, Ch'ad or ad or traea caldi sospiri, E, fatto impaziente, il petto offeso Scopre col guardo i suoi novi martiri. La mira, la vagheggia, e sta sospeso Acciò ch'ella comprenda i suoi desiri; Si rende or tutto ghiaccio or tutto foco, Né può cibo gustar molto, né poco.
Floridor, che nascosto il tutto mira, Amor lo strugge e invidia lo divora, Lo afflige amor, l'infiamma e lo martira Per la beltà che tutto il mondo adora, Gli accende il petto alla vendetta e all'ira La gelosia, che l'ange e che l'accora, Nè può patir di veder posto a fronte Alla sua cara donna il re Acreonte.
Numerava i sospir, contava i sguardi Che troppo spessi a lei quel re porgea, E come avesse al cor pungenti dardi Geloso e impaziente si rodea. Talor (se ben non è) gli par che 'l guardi, Che l'ami e 'l favorischi Celsidea, Né può la bella donna alzar i lumi Ch'ei non ne prenda affanno e si consumi.
E vinto dalla rabbia finalmente, Ond'il misero cor languendo serve, Si vol partire acceleratamente Ma la memoria oppressa non gli serve; Che al buio entra in un adito ove sente Gran mormorio di paggi e di conserve, E per fuggirlo a man sinistra cala E s'allontana in tutto dalla scala.
Confuso se ne va di quella in questa Camera tardi il giovane pentito, E ben si duol che mai venne alla festa Senza, ch'alcun gli avesse fatto invito. Se sia scoperto perderà la testa, Fia come ladro e malfattor punito, Che v'è la legge e vien di vita sciolto Chi nelle stanze altrui di notte è colto.
Come 'l cupido amante al piè permette, Che troppo audace ingombri il terzo loco, Gli fere gli occhi un lume che reflette Dal quarto al terzo, el fa temer non poco; Teme che vi sia gente, onde non mette Più inanzi il passo ove risplende il foco, Ma la fedel orecchia all'uscio tende Per ascoltar s'alcun parlare intende.
Come l'attenta orecchia al senso apporta Ch'a suo giuditio ivi non è persona, E che fa l'alma senza dubbio accorta Che dentro alcun non parla e non ragiona, Fatta la man più ardita apre la porta (Benché pian piano), e 'l guardo intorno dona, E vede una real camera ornata Da una splendida gemma illuminata.
La stanza d'una egregia architettura Ben compartita è ugual per ogni faccia, D'ostro vestite ha le superbe mura Che la cornice d'or cinge e abbraccia. Nel mezzo una bellissima figura Giace sul fregio alla gran porta in faccia, E sta con sì mirabil prospettiva Ch'a tutti par natural forma e viva.
L'imagine di donna illustre e rara, Anzi di vaga e ben ornata dea, La bionda testa ha di più gemme chiara Ove un carbonchio a par d'un torcio ardea. Tosto il giudizio a Floridor dichiara Che vergine sì degna è Celsidea, Onde comincia a prendere speranza Che questa sia di Celsidea la stanza.
Di ciò ringratia in parte i dèi celesti, In parte teme alta vergogna e scorno, Ch'in quella stanza non è ben che resti E non sa come indietro far ritorno. Vari pensieri or consolati or mesti Fan nel cor giovenil duro soggiorno, Di lei non s'assicura e d'ognun teme, E pon sol nel morir l'ultima speme.
Mentre sospeso sta gli vien veduto Un calamar col foglio e con la penna, Lo scriver loda, indi ne fa rifiuto, Ch'alto timor questo pensier dipenna; Si risolve nel fin di non star muto, Amore al cor nova speranza impenna, Prende la dura piuma, indi la tinge Nell'atro inchiostro è cosi il foglio pinge.
– Io vinsi il mondo e da una sola fui Legato e preso, e non men d'esser godo Vinto di lei che vincitor d'altrui, Né d'impresa miglior mi vanto e lodo. Beato e felicissimo colui Che degno sia del marital suo nodo, Non pur s'uom sia quantunque illustre e degno, Ma nume e dio del sempiterno regno. –
Per questa via pensò l'occulta fiamma Il timido garzon render palese, E pregò Amor ch'in lei destasse dramma Del foco ond'el suo petto arse e accese. Conchiuso in breve spacio l'epigramma, Sopra quel che più importa a pensar prese, Comincia a imaginar qual via s'eleggia, Come fuggir, come salvar si deggia.
Dopo vario discorso gli sovenne, Che 'l meglio sia giù del balcon calarsi, Che più sicura e miglior strada tenne Che 'l tornar per tanti usci a invilupparsi. Dunque non si trovando al volar penne, A un canape pensò d'accomodarsi; Fortuna, ch'aiutarlo si propose, Un canape in quel punto in man gli pose.
Prende la fune, e ben legata stretta La raccomanda all'asse del balcone, E di calar ben più che può s'affretta, Che già gli par che vengano persone. Ambe le pugna a quella attacca, e in fretta Giù per la corda il suo mortal depone, Né prima la lasciò l'accorta mano Che la punta del piè toccasse il piano.
Com'egli è in terra, in un giardino adorno Di frutti e fior si trova esser disceso. Lucea la luna che parea di giorno Sì ch'ancor teme esser veduto e preso, Onde cheto si posa a far soggiorno Tra spesse piante in grembo ai fior disteso, Aspettando, che lasci il cielo oscuro Cinzia per uscir poi quindi sicuro.
La prima cosa che li vien in mente (Perché maggior pensier non lo premea) È colei di cui tanto ha il cor ardente, La bella principessa Celsidea, A cui sempre vorrebbe star presente; Poi del re ricordandosi, ch'avea Del suo medesmo ardor sì acceso il petto, Tutto arrabbia di sdegno e di dispetto.
Intanto Celsidea, c'ha in mente fiso Di Biancador l'aspetto e i bei sembianti, Sì ch'a sanarli il cor punto e conquiso Poco valean le feste e i piacer tanti, Poi che fu spesa in danze, in gioco e in riso Più di mezza la notte, e in soni e in canti, Ver la camera sua drizzò le piante, Ove pur dianzi stato era il suo amante.
Afflitta e mal contenta si raccolse Quivi la figlia innamorata e bella, E dentro sol per suo servizio tolse Carinta una fedel sua damigella, E mentre i vestimenti si disciolse Di varie cose ragionò con ella, Forse per iscemar del mesto core L'ardor che sempre in lei crescea maggiore.
Mentre i passati giuochi replicando Si scioglie ella le perle e le corone, E 'l bel collo e 'l bel crin va disornando, E tutti gli ornamenti suoi ripone, A caso quella carta vien mirando Onde il suo foco Floridor li espone, L'oscuro enigma che 'l garzon già scrisse In cui l'occulta sua fiamma descrisse.
La piglia in man, la legge e tutta resta Confusa e 'l cor gli trema e la persona; Sente che quella carta manifesta Un grande amor senza nomar persona. Legge e rilegge, alfin trova che questa Vien da colui che vinse la corona, Da quel che vinse il dì la giostra altera E n'ebbe il pregio poi da lei la sera,
Quel gentil cavallier la cui virtute Ricevé con tal forza essa nel core, Che per caso non fia che 'l pensier mute C'ha di servirlo e di portargli amore. Lette c'ha ben le note aperte e mute, Interpretato ben tutto il tenore, Un piacer pien di tema e maraviglia Il suo dubbio pensier circonda e piglia.
Maraviglia e timor le ingombra il petto, Che non sa come ei qui l'abbia arrecata, Il tempo breve non le dà sospetto, Ch'ad alcun servo in man l'abbia fidata; Perch'insieme con lei stette a diletto Quel dì e la sera tutta la brigata, Donne e donzelle e paggi tutto il giorno Presso o lontan le fur sempre d'intorno.
Ma sia come si voglia ella è sì vinta E ha di tant'ardor l'anima accesa, Che nel viso guardandola Carinta Tutta s'ammira e trema e sta suspesa Benché sia Celsidea tutta discinta Di gir al letto le rincresce e pesa, Ma pur per forza a riposar si getta Per non farsi alla serva più sospetta.
Carinta nel serrar (com'ogni sera Solea) i balcon, trovò la fune avvolta Onde già Floridor calato s'era, E senza motto far l'ebbe disciolta; E fu la diligente cameriera Di schivarle cagion vergogna molta, Che ne venia (s'altri vedea 'l legame) A torto Celsidea tenuta infame.
La misera licenza la servente Ch'in una sua anticamera dormia, E poi ch'è sola e alcun non vede o sente Apre a sospiri e al lagrimar la via. Colei che sì felice e sì ridente Fu dianzi or mesta e piena è d'agonia, Colei che non sapea ciò che dolore Fusse, or tutta è dolor; colpa d'Amore.
Come vago augellin ch'in aria sciolto Con libere ale un tempo volato abbia, Che quando men credea si trova involto Nei tesi inganni e nell'angusta gabbia, Invan s'aggira e duolsi d'esser colto, Invan di sù di giù salta e arrabbia, Col dolce canto in van lamentar s'ode E il cauto uccellator ne ride e gode.
Così l'innamorata verginella Che già le voglie avea libere e liete, E vissa era molti anni altera e bella Fin che non arse d'amorosa sete, Ora s'affligge indarno, si martella Che non si può discioglier dalla rete; Indarno si lamenta, indarno stride, E Amor che l'ha in pregion di lei si ride.
Sopra tutte le cose la tormenta Che 'l cavallier ne sia sì tosto gito, Che se è ver che per lei tal pena senta Come del re non accettò l'invito? Come esser può ch'uom di lasciar consenta L'amato ben quando può starvi unito? Doveva ei procurar di starle a lato E non partirsi essendone pregato.
– Sapess'io almen (dicea) dove ito sei Di me teco ben mio portando il core, Ch'in qualche modo intender ti farei Com'è tra noi reciproco l'ardore. Forse che timor hai ch'i pensier miei Non faccin conto alcun del tuo valore, E non pensando ch'io t'apprezzi e ammiri Da me lontano lagrimi e sospiri.
Ah, Biancador gagliardo e valoroso, Che non pur vinti hai tanti incliti eroi Ma 'l mio cor, che non sente unqua riposo Da che ascondesti i bei sembianti tuoi! Deh, perché mi ti sei sì presto ascoso? Che fretta era la tua di lasciar noi? È segno che l'amante è poco ardente Quando può star dalla sua donna assente.
O dèi per qual mio error nefando e tristo Questa punizion da voi mi viene Ch'io m'affliga per un che non ho visto? E ch'io provi nel cor sì dure pene? Lassa costui, per cui tanto m'attristo, Forse mai più non tornerà in Atene, E lagrimo e sospiro in pene e in guai Né forse son per rivederlo mai.
Ma non promette questo il caldo affetto E l'accorta maniera ond'ei mi scrive, In guisa ei mostra d'essermi soggetto, Ch'è mio dovunque sta, dovunque vive. Forse per qualche suo degno rispetto Della sua vista ha le mie luci prive, Forse da noi partì contra sua voglia E tornerà anco un dì quando il ciel voglia. –
Queste e altre ragion la bella figlia Tra sé discorre e si conforta un poco, Poi si fa di se stessa maraviglia Com'abbia dato a pensier vani loco, E fa la guancia or pallida or vermiglia, Secondo che l'assale o ghiaccio o foco. Il ghiaccio del timor la rende esangue, Ma vergogna e amor le accende il sangue.
Mentre così tra sé pensa e ragiona E vegliando sospira e piange in vano, E al lume del carbonchio amor la sprona A tuor quel scritto mille volte in mano, Improviso romor la stanza introna Che le par nel giardin poco lontano, Sente ferri sonar, gridar persone, Onde timida s'alza e va al balcone.
Era all'occaso in quel gita la luna E tutto era il giardin tenebre e ombra, La fanciulla si pone all'aria bruna E paura infinita il cor le ingombra. Ma in breve più non sente cosa alcuna E lo strepito, e 'l grido intorno sgombra, Talché senza saper ciò che si fosse Tutta pensosa in letto ritornosse.
La cagion di quel strepito ch'udio La bella figlia nel giardin fu questa: Giaceva Floridor tra i fior, com'io Dissi, con quel pensier che 'l cor gl'infesta, E del novo amoroso suo desio Pensando or l'alma avea gioiosa or mesta, Intanto ode chi parla e chi risponde Con basso mormorio tra quelle fronde.
Uno dicea: – qual più felice stato Del nostro imaginarsi alcun potria? Qual uom sia più di me lieto e beato S'io posso far la bella donna mia? Il dolce viso suo benigno e grato Mi promette dolcezza e cortesia, L'aria soave, el bel sereno ciglio Mi dà speme, favor, grazia e consiglio. –
– Deh signor mio (quell'altro gli rispose), Guardi ben vostra altezza ove si pone. Le donne son gentili e amorose E si mostran ben grate alle persone, Ma quando lor si chieggion quelle cose Che 'l donarle d'infamia è lor cagione Ciascuna è sì contraria e sì nimica Che si perde in un punto ogni fatica.
Né credo mai che tanto alta donzella Di macchiar l'onor suo fusse contenta, Anzi temo io come saliate a quella, Sì che vi veggia o almen ch'ella vi senta, Alzerà sì la voce empia e ribella, Che la famiglia ancor non sonnolenta Trarrà a quel grido, e per menarla a noi Ne potreste restar per sempre voi.
Con quella riverenza e quel rispetto Che deve il servo al suo signor avere, Io v'avertisco il periglioso effetto, Che può seguirne e faccio il mio dovere. – – Ben conosco fratel, ch'onesto affetto (Quel primo replicò) ti fa temere, Ma fin ad or di te prendo stupore Ch'abbi sì poco ardir, sì basso core.
Non dubitar, non fia tal gita invano Ch'io son dell'amor suo più che sicuro, Pur se sarà il destin tanto villano Che mi serbi la morte entro a quel muro, Che contra il rio sicario armi la mano, Ti prego, ti comando, e ti scongiuro Fa del tuo gran fratel vendetta degna S'in te giusta pietà, se valor regna. –
Promette quei, così d'accordo vanno Per corre il fior delle fanciulle adorne, E una scala di lin ch'arrecat'hanno Attaccano a una pertica bicorne, E ben studia finir l'ordito inganno La coppia rea prima che Febo aggiorne, Che forse li sarebbe anco successo Se non che Floridor troppo ebbe appresso.
Accanto al muro, a quel balcon diritto Dov'il buon Floridor scese pur prima, In terra il legno avean piantato e fitto E l'un s'accosta ove montar fa stima, L'altro tenea la fune el fusto ritto Mentre salisse il suo compagno in cima, E se ne va con mente infame e rea Per involar la bella Celsidea.
Quando il buon Floridor l'oltraggio intende Che di far pensa il cavalliero audace, E che conosce il danno e che comprende Che seguir ne potria se soffre e tace, Subitamente in man la spada prende E grida: – Ahi, rio ladron, ladron rapace Ben sei, se credi in tutto e stolto e cieco Far questo scorno al regio sangue greco.
Gli due, che l'un di Persia il signor era E l'altro un suo fratel detto Marcane, Empir d'ira e stupor la mente altiera Alle parole ingiuriose e strane. E all'improvisa voce orrenda e fiera E questo e quel dall'opra si rimane, Che Floridoro ardito come suole Lor sopravien senza più dir parole.
E benché sia senz'arme al poco lume Che gli rendea dal sommo ciel le stelle, Di far battaglia e vincer gli presume E al re di Persia intacca della pelle, E già scorrer gli fa di sangue un fiume Per le ricche armi d'or lucenti e belle, E perché sopra il braccio il colpo è sceso Gli fé il brando cader, ch'avea in man preso.
Il feroce Marcan, ch'assalir vede Il suo fratel da chi non sa chi sia, Un colpo a Floridor sul capo diede Che furioso incontra gli venia, Ma Floridor che 'l suo pensier prevede Oppone il brando alla percossa ria, Sì che quando col suo l'altro percosse Lo spezzò in due come di legno fosse.
E la punta di balzo venne a corre Il re di Persia e 'l fé d'un occhio cieco. Floridor non s'indugia un colpo a sciorre Sopra il fiero Marcan che la vol seco. Intanto il re va la sua spada a torre E va di dietro al valoroso greco, E con tutta l'angoscia che ne sente Mena un colpo terribile e possente.
Pensò troncargli il collo, e ben seguito Saria senza alcun dubbio il rio pensiero, Se non che 'l suo fratel, ch'era stordito Dal colpo ch'avea avuto orrendo e fiero, Tra ch'era poco lume e avea smarrito La conoscenza, il buon giudizio intiero, Proprio in quel punto in fallo il fratel colse Per Floridor, ch'egli al garzon si volse.
Con quella spada rotta a mezza fronte Lo fere sì che 'l parte insino al mento, E così l'infelice re Acreonte Per man del suo fratel rimase spento. Credendo aver ben vendicato l'onte, Dice Marcano a Floridor contento: – Dissi ben io, signor, che 'l tempo e 'l loco Non fan per noi troppo sicuro il gioco.
Un picciol foco è morto e un via maggiore Suscitar ne potria da queste mura, Levianci via di qua, per Dio, signore, Ch'un'altra volta avrem miglior ventura. – Floridor, che comprende il grande errore Del cavallier, che cerca a far sicura Al fratel quella vita che gli ha tolta, Senza parlar con gran pietà l'ascolta.
Ben pensa che sia fuor dell'intelletto Non conoscendo il re di vita fuora, Che pur sapea, ch'avea lo scudo al petto E dell'altre arme era coperto ancora, E che egli in testa non vi tien elmetto Né altro schermo ha dalla spada in fuora. Ma poi ch'in tanto error sommerso il vede Dietro gli move taciturno il piede.
Giunsero in breve ad una porta angusta Che rispondea sulla strada maestra, La qual fu (perché frale era e vetusta) All'entrar e all'uscir facile e destra. Era già più che mai bella e venusta La candida alba apparsa alla fenestra, Quando Marcan nell'esser suo tornato Scorse che Floridor non era armato.
A prima giunta prese maraviglia Come non fosse d'arme il re guarnito, E poi meglio afisando in lui le ciglia Scorse un volto sì bello e sì polito Che mentre l'intelletto rassottiglia Comprende il caso e ne divien smarrito, E più che va volgendo per la mente, Sta per morir tanto dolor ne sente.
E perché gli parea che Floridoro Era stato cagion di sì mal opra, Che minacciando avea assaliti loro E con la spada era lor corso sopra, Qual cruda tigre o qual feroce toro La forte branca o 'l duro corno adopra, Tal sopra Floridor la spada mena Per isfogar la sua gravosa pena.
– Ah, disse Floridor, non ti ricorda Ciò che vivendo il tuo fratel ti disse, Quando a tuoi detti fé l'orecchia sorda Sperando ch'ad effetto il pensier gisse, Che s'avenia per colpa dell'ingorda Sua volontà ch'a morte ne venisse, Non cessaresti che pietoso e forte All'uccisor di lui daresti morte.
Dunque se stato sei tu quell'istesso Che la misera vita gli hai levata, Ben dritto sia se te gli uccidi appresso Acciò che l'ombra sua resti placata, Né dar la colpa a me del rio successo Che la vostra pazzia caggion n'è stata. Pur quando brami aver meco battaglia Eccomi, ancor che senza piastra e maglia.
Non sperar perch'io sia solo e senz'arme Che di sì vile impresa abbia spavento, Non potria tutto 'l mondo spaventarme Né tutto 'l mondo a te dare ardimento. Ma spero ben che potrò tosto armarme Di queste tue che son nere e d'argento, E se non ti fei pria noto il tuo errore Fu per pietà di te non per timore. –
Era tanto Marcan di rabbia acceso Che non gli par né vol che dica il vero, E aveva a due mani il brando preso Per menargli d'un colpo orrendo e fiero. Or mentre Floridor si tien difeso, Ecco lor sopragiunge un cavalliero Che disfidò Marcane e minacciollo, E a Floridor pose uno scudo al collo.
Quando conosce il timido Marcane Che contra due non potrà far contesa, Dalla battaglia subito rimane E crede nel fuggir la sua difesa. Il cavallier ch'era sì come il cane Dietro all'odor venuto a quella impresa, Poscia che fu l'empio Marcan discosto A Floridor si diè a conoscer tosto.
Il savio Celidante, che pensiero Avea di Floridor come di figlio, Avendo aviso che 'l garzon altiero Posto era in un grandissimo periglio, Guidò Filardo suo per quel sentiero A dargli aiuto e gliene diè consiglio, E lo scudo gli diè perché gliel desse, Acciò dal rio Marcan si difendesse.
Si trasse l'elmo e gli fé chiaro e piano Così, ch'egli era il suo fedele amico, Che tutta notte il va cercando invano, Sin che trovollo a fronte col nemico. Come un anno sian stati o più lontano Quella festa si fer ch'io non vi dico, E s'andaro a posar ch'era ormai giorno E la gente veggiava e andava attorno.
Venuto il dì fu ritrovato morto Il re di Persia perfido assassino, E tosto fu chi fé di questo accorto Cleardo ch'in persona andò al giardino. Spiacque il caso a ciascun quando fu scorto Ma via più ai re del barbaro domino, Duolsi ognun di Cleardo, e ei l'intende E di giusto furor l'animo accende.
E più li duol che sia trovato presso Al muro ove la figlia si raccolse, Che la cagion a lei di tal successo Forse qualche maligno imputar volse. Ella quando ch'intese il grave eccesso Le increbbe molto e molto le ne dolse, Non perché avesse al re di Persia amore Ma per gran gelosia, c'ha del suo onore.
Il giusto re che tutta Grecia onora Dell'innocenza sua fa chiara fede, Benché fuor d'ogni dubbio il loco e l'ore Fa ch'a suo modo ognun favella e crede. Intanto fu portato il morto fuora Sì come il re Cleardo ordine diede, Publicamente in piazza fu condutto E 'l popol corse allo spettacol tutto.
Cleardo assiso esamina ciascuno Della sua corte e chiama or questo or quello, Per poter se trovasse indizio alcuno Al malfattor donar pena e flagello. Ecco in questo apparir Marcan di bruno Armato sopra un gran caval morello, E poi ch'al fratel morto fu presente Così parlò ver la cecropia gente:
– Tu re, che miri il mio gran frate morto, E voi perfide achee genti villane, Poi che da voi m'è stato ucciso a torto, Poi che nel campo acheo spento rimane, Sappiate pur ch'un dì di sì gran torto Vendicar mi vorrò, ch'io son Marcane, E la Persia onde sian vostre arme spinte, Voi mirerà poi che sarete estinte. –
Al fin delle parole il destrier punse E saltò fuor del cerchio ch'avea intorno, Né di spronar cessò ch'al porto giunse Ed entrò in nave in quel medesmo giorno. Resta Cleardo, a cui l'alma compunse Ira e dolor di così fatto scorno, Pur però che prudente era e discreto Ritenne il volto saldo e 'l ciglio lieto.
E comandò ch'in ricca sepoltura Fusse deposto il re privo di vita A' servi suoi che preser tosto cura Che la sua volontà fosse adempita. E così lo portar fuor delle mura, E ordinò il re che seco seppellita Ne fosse ogni memoria, e chi di quello Parlasse più s'avesse per ribello.
Gli altri signori e cavallieri strani Che 'l giorno inanzi stati erano in festa E ch'oggi, amando il re di Persiani, L'accompagnar con pompa atra e funesta, Biasmando l'empie e scelerate mani Ch'offeso avean così onorata testa, E sazi de piacer del greco regno D'ire alle patrie lor feron disegno.
E furon questi il principe d'Egitto, Che Miricelso detto era per nome, E Brandilatte, il cui valor invitto Gli fé di Siria incoronar le chiome. Il superbo African giura ch'afflitto Farà Cleardo e le sue forze dome, E d'aiutar Marcan fa sagramento, A cui fu morto il frate a tradimento.
Il re di Tartaria fé similmente, Poco del re Cleardo satisfatto, E minacciollo che 'l faria dolente E che gli avrebbe il cor del petto tratto, Ch'era stato cagion secretamente Che fu sì nobil re morto e disfatto E tanto più gl'incresce la sua morte Quanto ch'era fratel della consorte.
L'alto Cleardo a cui né ciel né terra Potria metter terror molto né poco, Sprezza in secreto e in publico tal guerra Che minaccia alla Grecia e ferro e foco. Con tutto ciò d'assicurar la terra Non mancò al gran bisogno a tempo e a loco, Ma di lui più non dico or che m'aspetta nell'isola Silano di Circetta.
Dissi di lui ch'avendo un paradiso Trovato a sorte in quella opaca cella, S'era alla mensa con Clarido assiso In compagnia della giovane bella, Dove fra suono e canto, e giuoco, e riso L'udito appaga, il gusto e la favella, Ma pur con tutto ciò non vede l'ora Che possa uscir di quell'albergo fuora.
Non so, signor; se vi è di mente uscito Per che cagion Silano si partisse Dall'antic'Alba, ancor che trasferito Fusse dal tempo all'isola d'Ulisse. Amor fu che 'l levò del proprio sito Per la beltà che 'l petto gli trafisse. La fama della bella Celsidea Mosso a pigliar questo camin l'avea.
Ma Fortuna a desir nostri nemica Contra sua voglia in Itaca il condusse, Dove trovò la vergine pudica Che l'uno e l'altro al lieto prandio indusse. In tutto replicar faria fatica, Né ciò accadea che ricordato fusse, Basta ch'io son tornata al chiuso loco Dove 'l lasciai con la donzella in gioco.
Parea Circetta in quell'età novella Ch'è più disposta all'amoroso strale, E una faccia avea gioconda e bella, Un aspetto dignissimo e reale; Ma la facondia c'ha nella favella Ben si dimostra alla paterna eguale, Avea un parlar sì dolce e sì giocondo Ch'all'età sua poche ebbe pari al mondo.
Ma con tutta la grazia e la bellezza, Onde sì largo il ciel ver lei si rese, Il cavallier Silan poco l'apprezza Che d'altro foco avea le voglie accese. Pur non le vol negar quella dolcezza Che vien da un giovenil guardo cortese, La mira la vagheggia, e con ingegno Le mostra ognor qualch'amoroso segno.
La giovane s'allegra nel pensiero, Ma finge fuor di non s'accorger punto Che sì leggiadro e nobil cavalliero Fusse dell'amor suo trafitto e punto. Ahi, falso amor, come sovente il vero Nascondi e mostri un petto arso e consunto, Fai che tal ama e alcun mai non gli crede, Altri poi finge e se gli presta fede.
Finito il desinar splendido e magno Che lungo fu, non fer molta tardanza Il Principe d'Italia e 'l suo compagno, Ma ritornaro a rimirar la stanza, Dove senza d'artefice guadagno Fu già intagliata e fuor di nostra usanza In aspro e lucidissimo diamante La nobil gente ch'io vi dissi inante.
Non si può saziar di contemplarla Del re latin la stupefatta prole, E giureria che quel ragiona e parla E questo tace e ascolta le parole. Ma chi l'alto saper ch'ebbe a ritrarla La figlia incomparabile del sole Mi presterà, sì che narrarne parte Oggi a voi possa in così basse carte?
E le grandezze esprimere e gli onori Che seguir poi nel secolo futuro D'una illustre fanciulla i cui splendori Dalla gran maga antiveduti furo? E con che strazi uscir con che dolori Un parto sì perfetto e sì maturo Dovea nel colmo dell'orribil guerra Che fé di sangue uman correr la terra.
Tu sacro Cinzio, a cui la bionda chioma Corona il casto e sempre verde alloro, Tu che mirasti a quell'antica Roma Che già 'l tartaro vinse, il turco e 'l moro, E ch'ebbe di trofei sì ricca soma, D'onorati trionfi e di tesoro, Ben sai ch'a dir di lei fu vile impresa A paragon d'una miglior c'ho presa.
Però di sì leggiadro, alto concetto ove si perde ogni più ardito ingegno, Scopri l'alte eccellenze al mio intelletto E apri il varco a stil più raro e degno, Poi che nell'altro canto il più perfetto Miracolo del mondo a spiegar vegno; Pur che sia grato all'alma patria mia, Ch'a suoi gran pregi alto principio dia.
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