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Modesta Pozzo de' Zorzi (alias Moderata Fonte) Tredici canti del Floridoro IntraText CT - Lettura del testo |
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CANTO TREDICESIMO
Argomento
Seguono i due guerrier l'istoria incisa Di contemplar nei quadri di diamante. In Armenia altri due van con Gracisa Ove Artemita assedia Risamante. Della battaglia ria l'alfier divisa Lor la cagion. Prende il guerriero amante L'alta sorella di Biondaura; ei crede, Ch'ella Biondaura sia quando la vede.
Cinge con ricco e prezioso fregio Giudizioso artefice talora Vil pietra sì che piace e monta in pregio Mercé dei smalti, ond'ei l'orna e colora. Così risplende d'un valor egregio Veste se dotta man l'inostra e indora, La qual è per se stessa e rozza e vile Ma i ricami la fan bella e gentile.
E io di sì bei fili adorno e tesso La tela mia c'ha in sé rozzo ordimento, Che ben può parer bella e star appresso Qualunque altra si sia d'oro e d'argento. Mentre raccolgo in lei chiaro e espresso Della mia bella patria ogni ornamento, E tutte le sue glorie altere e belle, Di cui la fama ascende oltra le stelle.
Dell'alte imprese sue, del suo splendore Rendo quest'opra mia vaga e pomposa; Ma qual tra belle gemme ha 'l primo onore La margarita e qual tra fior la rosa; Come l'or tra metalli ha più valore, Tal sopra ogni altra eccelsa e gloriosa È la vittoria e fortunata a pieno, Che conseguì nel falso Ambraccio seno.
Della qual ragionar volea Circetta, Quando per pigliar fiato i passi volse, E i cavallieri alla fenestra detta Seco ridusse e ristorar gli volse. Ma poi che fer ritorno, ove gli aletta La tralasciata istoria, i labri sciolse, E stendendo la man candida e bella Mostra gli esempi e poi così favella:
– Mirate quante genti ivi raccolte, Che gran cose trattar mostrano insieme; Il senato è de' Veneti, che molte Minaccie intende e di nissuna teme. Questo che parlar sembra e che l'ascolte Ciascun (ch'a tutti il caso importa e preme) Il Mocenico sia principe degno D'alta eloquenza e di profondo ingegno.
Appar dapoi, che la romana sede, E Filippo di Spagna in favor piega Le forze sue della cristiana fede, E con quei padri al fin s'accorda e lega; E contra il forte re ch'in lei non crede, Conchiudon qui la fortunata lega. Or mirate di qua de i porti uscite L'armate de' cristiani insieme unite.
Guerra crudel per certa occasione Tra 'l signor turco e i Veneziani nata, Di por col tempo in mar sarà cagione Così superba e valorosa armata. Or quivi ecco apparir contra il leone, Contra la croce e l'aquila ben nata Pertaù general, che inanzi fasse Con la potente sua turchesca classe.
Di quà, di là preparasi la gente Scorte l'arme contrarie esser vicine, E pregano il lor dio devotamente, Che la vittoria dal suo canto inchine. Quei per un regno aver ricco e potente Preso e condotto all'ultime ruine Somma speranza alla battaglia alletta, Patria e religion questi altri affretta.
Al felice mattin ridente e vago Il sol con novi rai la testa bionda Sporgerà fuor del mar forse presago Che la sorte i Cristiani avrà seconda. Già quei dell'Adria e quei vicini al Tago Solcano inanzi e quei del Lazio l'onda. Stanno i dèi, stanno i pesci e i lidi intenti, Il ciel, la terra e tutti gli elementi.
In questo terzo spazio è poi distinto Lo avvicinar delle contrarie schiere, Epiro è da quel canto, ivi è Corinto, Qui la Morea, ma non si pon vedere. Questo è l'Ambraccio sen di sangue tinto, Che renderà vermiglie le Riviere, E questo è proprio il mar (se 'l ver mi mostra La profezia) che cinge Itaca nostra.
Quinci e quindi ondeggiando all'aria vanno Le varie insegne con varia fortuna, Queste de turchi son che dentro il panno Portan depinta una scemata luna; Le chiavi con la mitra arrecheranno Questi che 'l papa all'alta impresa aduna, Venezia ha 'l suo leon nella bandiera, Ha il principe spagnol l'aquila altera.
Poco più in là mirate il fiero assalto, Vedete l'affrontar, che fanno insieme; Mandan l'arteglierie la nebbia in alto Di nero fumo, e il ciel rimbomba e geme, Cadon gli uccei sul liquefatto smalto, Al fiero suono ogni caverna freme, Apron le palle il mar di rombo tale Che sbalza sino al ciel l'ondoso sale.
Quell'orrendo fracasso e quel profondo Romor, che non si può discerner quivi, Quel portar via mezze le navi al fondo, E in bocca all'orche dar gli uomeni vivi. Quella ruina non più vista al mondo, Quella confusion de morti e vivi, Qual penna, o stil sarà tanto eccellente Che descriva e disegni pienamente?
Or cessata la furia e 'l grido infesto E dell'arme fulminee il grave danno, Vedete che si abborda insieme il resto E 'l più delle galee ch'intere vanno. Ecco menar l'un più che l'altro presto I fieri brandi e i colpi, che si dànno; Tanto presso si son che l'opre vane Son d'archibugi e d'altre arme lontane.
Ciascun con la galea seco abbordata S'azzuffa e quinci e quindi e taglia e fora. Ecco il Venier dell'adriana armata Capo, col brando in man sopra la prora. Ha la galea contraria fracassata Con quel valor, c'havrò in memoria ognora, E puossi dir con verità che tale Virtù sia in lui via più che d'uom mortale.
Vedete ch'un ginocchio sanguinoso Gli fa nemico stral d'empia ferita, Né vol con tutto ciò prender riposo Né ritirar la sua persona ardita; Ma più che mai gagliardo e animoso Espone per altrui la propria vita, Rivolge francamente il petto e 'l ciglio, Né lo spaventa alcun mortal periglio.
Ecco che giunto qui dove quel franco Giovanni d'Austria a far gran prove attende, La galea del nemico urta per fianco, Spezza e fracassa e 'l capitano prende; E di gloria immortal s'adorna e anco Dal proprio lato la vittoria rende, Mentre cento altri legni oppressi e vinti Son da cristiani e i lor contrari estinti.
Innalzano i fideli unitamente L'amato nome di vittoria al cielo, E a quel grido orribil, che si sente, Scorre per l'ossa agli Ottomani il gelo. Eccoli tutti rotti finalmente In preda ai defensori del vangelo. Fuggir non ponno i miseri, che l'onda, E la fiamma i lor legni arde e circonda.
Più d'un che dall'ardor salvar si crede Mezz'arso in mar si getta e un poco appare, Ma in breve spazio il mar tanto l'eccede, Ch'in foco annega, e arde ancor nel mare. Quel capitan, che de' suoi turchi vede Parte vivi abbruggiar parte affogare, Con sessanta galee si salva quivi, Restan gli altri sommersi, arsi e cattivi.
Più d'una nave in pezzi si profonda Con la misera turba ivi adunata, Chi s'appiglia ad un legno, acciò dall'onda La cara vita sua resti salvata, Ma poco sta che sull'istessa sponda Da crudel colpo gli è la man troncata; Altri le freccie o qualche trave uccide, Caccia altri il ferro ove la fiamma stride.
Alfin vedete dopo molti e molti Incendi, uccision, strazi e rapine, I soldati di Cristo ivi raccolti Con gli occhi al cielo e le ginocchia chine. Alcun bagnando l'allegrezza i volti Di lagrime con mani al ciel supine, Rendono insieme a Dio tai grazie quali Render si pon per gli uomini mortali.
In questo ultimo spazio si comprende L'estrema gioia, ond'è Venezia oppressa, Quando le nove già sperate intende Da un Giustinian della vittoria espressa. Per l'immenso piacer ch'ogni cor prende Par che la gente sia fuor di sé stessa, E sì gran calca intorno il nunzio serra Che no 'l lascia coi piè toccar la terra.
Vedete l'abbracciar che fanno insieme Lagrimando di gaudio per la via Or che la cara patria più non teme Del più forte signor di pagania. Delle concesse grazie alme e supreme Lodan nei tempi il figlio di Maria, E in tutta la città lieti e devoti, Chi rende grazie a Dio, chi scioglie i voti.
S'apron le porte ai pregioneri in tanta Letizia che non pon caperla i cori, Ciascun della vittoria altera e santa Mostra il piacer con chiaro indizio fuori; Il poeta divin celebra e canta Con dolce stil gli illustri vincitori, E poi ch'è in man de' barbari Helicona Qui cantano le muse e Apollo suona.
Le ricche gemme e 'l preziosissimo oro Con leggiadro spettacolo appar fuora, Altri scopre la seta e i panni d'oro Con apparenza non più vista ancora. Ne' giorni ch'un tal ben succede loro Se ben festa non è, non si lavora. Ciascun gli spende in giuochi, in suoni, in canti, Come sian baccanali o giorni santi.
Ma che dich'io? Non pur l'umane genti S'empion di gaudio alla novella udita, Ma 'l ciel, la terra e tutti gli elementi Senton di tanto ben gioia infinita. I freddi mesi della bruma algenti Tornan la terra verde e colorita, Che 'l sol con chiaro e temperato raggio Fa nel verno apparir l'aprile e 'l maggio.
E ben più renderà maravigliosa Tal novità, che negli altrui confini Fia la stagion, com'esser suol, piovosa E di frutti e di fior privi i giardini; E fiorirà la delicata rosa, I gigli, le viole, e i gelsomini Sol in Venezia e ne sia sol adorno Il terren fortunato a lei d'intorno.
Ecco il Venier, che chiaro e trionfante, Con tal favor ch'esprimer non saprei, Torna alla cara patria altier di tante Degne del suo valor spoglie e trofei. E gli va incontra a queste rive sante La nobiltà di tanti semidèi; Alla sua giunta ognun grida e l'appella Conservator della sua patria bella.
Poco dapoi che 'l suo ritorno amato A doppio la città felice rende, Vedete questo giovene onorato Che di Polonia al lito d'Adria scende. È il successor di Francia, che chiamato Vien da quella corona che l'attende. Al giunger suo così Venezia è lieta, Che 'l gaudio e 'l bene in lei passa ogni meta.
Vedete alfin, sendo nel cielo assunto Il Mocenico, uom d'immortal memoria, Con quanti applausi il gran Veniero è giunto Al maggior grado, alla più alta gloria. Ma poco sta che (il suo mortal consunto) Lo spirto chiaro di sì gran vittoria D'angeli accompagnato a Dio ne riede, E NICOLÒ DA PONTE gli succede.
Di così degno principe discerno Ch'immenso sia l'onor che se gli debbe, Sarà del popol suo pregio e governo Con quel saper, che lungo a dir sarebbe. E se ei tal uom render potesse eterno, Beato lui, che gran ventura avrebbe Poi che sotto il favor di tanta insegna In lui la pace, e l'abbondanza regna.
Sotto sì chiaro e glorioso duce Ecco BIANCA illustrissima CAPPELLA, Ad instanza di cui diè Circe in luce I sommi onor di questa patria bella. Vedi che tanto splende e tanto luce D'ingegno e di beltà, ch'amica stella La dona (onde via più sua gloria accresco) In moglie al Serenissimo FRANCESCO.
E pregiata costei prima che vegna Sarà, e vivendo e dopo morte ancora, Né credo mai che la sua gloria spegna Il tempo ch'ogni cosa alfin divora. E poi che fia per tanta patria degna, Per stirpe e ancor per sé, com'ho detto ora, Qual è stupor se sia in moglier diletta Dal gran duca toscan fra mille eletta?
A la gradita avventurosa nova Delle cui nozze splendide e regali Tanta allegrezza e ben Venezia prova Che ne darà grandissimi segnali, E Fiorenza gentil tanto si trova Lieta chiudendo in sé due teste tali, Che non la eccede alcun'altra cittade O della nostra o della loro etade. –
Con questo e altro assai ch'in onor disse Di tanta donna e di sì magno duce, La giovinetta il suo parlar prescrisse Che già calava in mar Febo la luce; E pur Silan, c'ha nella mente fisse Sì belle imprese, ancora si conduce A mirar or da questo or da quel lato, Rammemorando il ragionar passato.
Poi ch'ivi stati fur più, ch'abbastanza I gioveni ai conforti di Circetta, Lasciaro alfin di contemplar la stanza Perché la cena è in ordine e gli aspetta. Silano con lietissima sembianza Segue dovunque vol la giovanetta, Né cessa di mirarla, e per più fido Parer finge guardarsi da Clarido.
La vergine tra sé loda e ringrazia Il cieco amor che lei fa cieca ancora, E con casta pietà mai non si sazia Di rimirar quel cavallier ch'adora. Le par che nel mirarla abbia tal grazia E sì le mostri il cor per gli occhi fuora, Che stima per l'amor che ne comprende Gran villania se 'l cambio non gli rende.
Con queste opinion varie e diverse Passò la donna e i cavallier la cena, E poi ciascun di loro il piè converse Dove la donna a riposar gli mena. Ma non dormiron mai, ch'in ciel disperse La notte l'alba candida e serena Poi che la figlia amor fere e travaglia E il dubbio i cavallier della battaglia.
Né manco questo alla donzella pesa, Che teme che Silan non sia di tanta Virtù ch'abbia l'onor di quella impresa, Onde convenga poi cangiarlo in pianta, Quando ciascun che di sì gran contesa Resta perdente ella per forza incanta, E se ben di tal opra assai si duole, È costretta voler quel che non vole.
Pensa e ripensa e mai non chiude il ciglio, Qual sia la miglior strada e 'l miglior modo Perché salvi Silan da quel periglio Senza cangiarlo in tronco verde e sodo. Alfin risolta per miglior consiglio Vol l'incanto ingannar con questo frodo: Pensa invisibil farlo e vol che vada Sin al tempio fatal senza oprar spada.
Sa come sia l'incanto e di che sorte, Che 'l cavallier, che di provarlo intende, Pur che tratto non sia fuor delle porte Il fato in alcun modo non l'offende, Però se va, né di lui sieno accorte L'alme ond'il passo orribil si difende, Pensa senza temer di caso strano Assicurar la forma al suo Silano.
Ritornata la luce, il sole e 'l giorno I cavallier di letto si levaro, E la donzella a lor fece ritorno E con l'usato stil si salutaro; Ma lor di quanto ella pensato intorno Ai casi lor non fa palese e chiaro. Quei si dispongon di provar l'incanto, Ma d'altro or son per ragionarvi alquanto.
Io vo', che lasciam questi, e di lasciarli Non vi rincresca in tale stato un tempo, Che poi verremo un giorno anco a trovarli E li trarrem di qui forse col tempo. Or de li due guerrier dritto è ch'io parli Che non credean che mai venisse il tempo D'arrivar in Armenia a quella terra Ove patia Biondaura atroce guerra.
Cavalcan con Gracisa a gran giornate, (Fatto d'Europa in Asia già passaggio), E veggion più città, più genti nate, Varie d'usanza e varie di linguaggio. Giunser nel fine al sì famoso Eufrate, Che per l'Armenia stende il suo viaggio, Benché oggidì l'Armenie sono due, Mà già per una intesero ambedue.
In ogni loco, o sian città o castella Di quel reame, ovunque ergono il ciglio Veggiono i cavallieri e la donzella L'insegne sventolar del bianco giglio; Che 'l tutto Risamante alla sorella Biondaura avea già tratto dell'artiglio, E si tenean per lei tutte le terre Ch'ella avea debellate in quelle guerre.
Tanto spinsero inanzi i lor destrieri Per la più breve via, per la più trita, Che giunsero la donna e i cavalieri Al minacciato muro d'Artemita. Da copioso esercito i sentieri Tutti occupati son di gente ardita, Per tutto son trabacche e padiglioni. Che cavallieri alloggiano e pedoni.
Quel giorno non aveano i terrazzani Assalto alcun per quanto si vedea, Non si scorgeva alcun menar le mani, Come ogni giorno inanzi si facea. Giunti che furo in campo i guerrier strani Con Gracisa, ch'un vel posto s'avea, Videro un gran duello incominciato Tra duo guerrieri in mezzo uno steccato.
Gli Artemitani ascesi in su le mura Mesti contemplan la crudel battaglia, Gli eserciti di fuori alla pianura Stanno a mirar qual di lor due più vaglia. Siedono in alto i giudici c'han cura Della giustizia che le parti agguaglia, Intanto i due che fan l'orrendo marte, A riposar si traggono in disparte.
Era ciascun sudato e sanguinoso; De' lor destrier, l'un giace in terra spento, L'altro rodendo il fren rendea spumoso, Che di verde e di bianco ha 'l guarnimento; Ma l'un guerrier non mostra di riposo Aver bisogno e sta con ardimento, L'altro stassi appoggiato in gran pensieri Com'uom che di sua impresa poco speri.
La coppia de'guerrier che venuta era Con Gracisa accostossi ad un alfiero, E dimandolli con gentil maniera Chi fosse l'uno e l'altro cavalliero, E perché si facea la pugna fiera Lo supplicò che lor dicesse il vero. L'alfier sopra costor le luci fisse E, miratoli alquanto, così disse:
– Quel cavallier dal lato di levante Ch'in verde scudo arreca il giglio bianco È la nostra regina Risamante, Che non ha 'l mondo un cavallier più franco. L'altro, che mal per lui le venne innante, Con la bianca colomba al lato manco, Di Babilonia è il re Cloridabello, Che per Biondaura fa sì gran duello.
Biondaura già partecipar non volse Con la sorella sua di noi regina Questo reame, e a sprezzar si volse Costei, ch'era lontana e peregrina, Perché di casa un mago già la tolse Del re suo genitor sendo bambina, Il qual, morta stimando la fanciulla, A morte venne e non le lasciò nulla.
Risamante dal mago fu allevata In ogni prova e arte militare Dentro una rocca ch'è nel mar fondata, Ma dove non si sa che non appare. Quindi (poi che benissimo informata L'ebbe dell'esser suo) la fé passare In terra ferma e gire alla ventura Provvista di cavallo e d'armatura.
Risamante a Biondaura (poi ch'uscìo In libertà) la parte sua richiese, Ma la sorella al suo retto desio, Al giusto dimandar non condiscese; Talché sdegnata Risamante unio Gran gente e venne sopra il suo paese, E 'l tutto le ha di man tolto con scorno Fuor che questa città cui siamo intorno.
Ella raccolse da diverse bande Le genti, che vedete insieme unite, E compose uno esercito sì grande In brevissimo spazio e il modo udite: Il mago a quei portò le sue dimande Che se le avean proferto in questa lite, E solo in una notte con sue arti Guidò tutte le genti in queste parti.
Fu d'improviso sì nostra venuta, Tacita sì, sì presta oltra ogni stima, Che trovammo l'Armenia sproveduta E la pigliammo in sù la giunta prima. Biondaura che la nova ebbe saputa Raccolse molta gente e di gran stima, Ch'alla battaglia s'appicciò con noi, E sconfitti rimaser tutti i suoi.
Or la misera figlia è rifuggita Con pochi suoi fidati in questa terra, E perché mal si trova esser fornita Di vettovaglie e munizion da guerra, Ha posto di sé stessa e d'Artemita E di tutto l'aver che in lei si serra La causa in man del re Cloridabello, O per salvarsi o per cader con ello.
Questo principe acceso già per fama Della rara bellezza di costei; E per propria virtute e perché l'ama, Venne pur dianzi in difension di lei. Il patto è tal fra l'una e l'altra dama Che se 'l re manda l'alma ai stigi rei O riman preso, perde la cittade Biondaura e in man della sorella cade.
Ma se per caso Risamante è quella Che faccia fallo e 'l re resti vincente, Vivendo reinvestir de' la sorella Di tutto quel reame incontinente, E de' rimover la battaglia fella Facendo altrove gir tutta la gente; Così per ischivar morti e ruine Di genti assai, son convenute alfine. –
Ma non avea finito di dir questo Anco l'alfier che l'inclita guerriera, Sendole ormai 'l posar troppo molesto, Ritornò ardita alla battaglia fiera. Cloridabel non fu di lei men presto E menò un colpo alla donzella altiera, Ma scarso alquanto fu, che se cogliea A pien la spalla destra le fendea.
Pur tagliò di maniera ch'uscir fenne Il sangue vivo l'arme luminosa; Risamante al gran colpo in viso venne Vermiglia più che in sul mattin la rosa, E fu lo sdegno tal che ne divenne Poco men che insensata e furiosa, Perché se tinta è ben di sangue tutta Non era ancor del suo macchiata e brutta.
Spinta da gran furor lo scudo getta, E con ambe le man la spada presa, Disegna far sul capo la vendetta Più debita alla man che l'avea offesa. Cloridabello alza lo scudo in fretta, Visto il colpo calar, per sua difesa, Taglia in due parti il colpo altier lo scudo E penetra nel capo il brando crudo.
Il re stordito cade e 'l verde piano D'un corrente ruscel vermiglio irriga; La guerriera, c'ha 'l cor molle e umano, Vistosi il meglio aver di quella briga Gli corre sopra e con pietosa mano Dell'elmo sanguinoso il capo sbriga, E dimostra a ciascun la sua vittoria Nel volto smorto, ond'ha trionfo e gloria.
L'aer che prese il re dell'elmo privo Qualche spirito in lui serbò di vita, Onde rivenne e dimostrossi vivo, Ma preso in man della donzella ardita. Spargeva intanto un lagrimoso rivo Biondaura, avendo la novella udita Da alcuni suoi, ch'avean nel campo scorto Il suo re preso e lei giunta a mal porto.
A Risamante i giudici donaro La palma e l'adornar di lauree fronde; Si tolse ella l'elmetto e mostrò chiaro Il suo bel viso e le sue chiome bionde. Ma come il re prigion, che sente amaro Duol per Biondaura e dentro si confonde, Costei mirò tanto simile ad ella, Pensò che fusse la sua donna bella.
– Non è questo (dicea) l'amato volto Che mi stampò nel cor la man d'Amore? Non son questi i begli occhi, che m'han colto Al dolce laccio e posto in dolce errore? Io non son già sì cieco, né sì stolto Che non conosca chi m'ha tolto il core. Dunque dalla mia dea restai conquiso, E rimango prigion del suo bel viso.
Maraviglia non è s'ella mi vinse Poi che prima m'avea preso e legato, Ché altri che costei mai non mi strinse Tanto, né potea pormi in tale stato. Ma presso la bellezza, onde m'avinse Non credea che valor tanto pregiato Regnasse in lei, né so per qual cagione Abbia voluto far meco tenzone.
Felice inganno, se ingannar mi volse Per mostrar forse a me la sua virtute, Beate piaghe e 'l sangue, che mi tolse Quando col guardo suo mi dà salute. M'aggreva sol (né d'altro unqua mi dolse Tanto) delle percosse ricevute Da lei per me, dei colpi iniqui e rei Che per troppa ignoranza io diedi a lei. –
Così dicea quell'infelice amante, E certo non credea di restar preso Parendoli che fusse Risamante La bella donna ond'avea 'l petto acceso, Per non saper che tanto simigliante La giovene che seco avea conteso Era a Biondaura, che ciascun prendea L'una per l'altra e 'l ver non discernea.
Con gran pietà fé l'inclita guerriera Quel re condur nel regio padiglione E medicar, che forte piagato era, Trattandolo da re non da prigione. In questo uscir della cittade in schiera Le più onorate e nobili persone. Quel che poi ne successe altrove io canto, Ch'ora di Celsidea vuo' dirvi alquanto.
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