XXXVII
Il
martirio.
Erano
terminate le messe, quando entrò nella cappella il cancelliere
Passerini, incaricato di ricevere il testamento dei due condannati.
Quel pover'uomo di cancelliere aveva un cuore che non era
assolutamente fatto per la sua carica; era tutto agitato e
contrafatto in volto, e balbutiva nell'annunziare a Monti e a
Tognetti il motivo della sua venuta.
-
Io non ho nulla da lasciare a' miei bambini! disse Monti, al quale le
lagrime gonfiarono gli occhi a quel pensiero. Li affido alla pubblica
carità.
-
E voi, Tognetti?
-
Non lascio altro che i miei abiti, ma non li fate portare a mia
madre, perchè nel vederli proverebbe troppo tracollo;
piuttosto fateli distribuire a dei poveri bisognosi.
L'orologio
delle Carceri Nove suonò lentamente le cinque ore. Non si
travedeva ancora il primo chiarore del mattino. Era ancor notte,
notte profonda.
S'intese
nella strada uno scalpito di cavalli e il ruotare di due carrozze. I
condannati rabbrividirono.
Erano
i cavalli della scorta; erano le carrozze che dovevano condurli al
patibolo.
In
quel punto si aperse rumorosamente la porta della cappella. Monti e
Tognetti credettero di veder comparire il carnefice. Era un prelato.
Monsignor
Pagni, non astretto dalla sua carica, ma per spontanea volontà,
era venuto, come membro della Sacra Consulta, ad assistere agli
ultimi momenti dei condannati.
Pareva
che uno spirito di odio segreto o di rappresaglia rabbiosa lo
rendesse bramoso del loro sangue.
Il
suo intervento in quell'ultimo stadio della condanna era cosa così
odiosa, ch'egli pensò di coprirne l'efferatezza con un motivo
plausibile. E perciò, atteggiato il volto all'espressione
della benignità religiosa:
-
Cari figliuoli! disse rivolto ai condannati, ho una buona notizia da
darvi. Sua Santità, il beatissimo Padre dei fedeli, mosso a
pietà del vostro stato, e per darvi una prova del suo paterno
amore, nonchè della sovrana clemenza, manda ad entrambi...
Il
cuore dei due sventurati aveva cominciato a palpitare fino dalle
prime parole del prelato: un vago presentimento pareva annunciar loro
qualche cosa di fausto. Di mano in mano che progrediva il suo dire,
l'ebbrezza della speranza rinfiammava rapidamente i loro cuori, e
giunsero a tale, che prima ch'egli terminasse esclamarono ad una con
tutto l'entusiasmo della letizia:
-
La grazia!!
-
Manda ad entrambi, proseguì imperturbabile il prelato, la sua
apostolica benedizione, e in pari tempo l'indulgenza plenaria, la
quale dopo la morte vi farà salire prontamente alle glorie
sempiterne del cielo.
Quell'atroce
derisione dell'ipocrisia sacerdotale strappò un grido di
rabbia ai due condannati. E Tognetti, al quale l'amarezza della
delusione fece ribollire il sangue.
-
Sì! esclamò. Il Santo Padre ci vuol molto bene! Perchè
arriviamo più presto in paradiso, manda il boja ad aprirci la
porta.
Un
gesuita corse a prenderlo per un braccio, e ad imporgli silenzio.
L'altro s'impadronì di Monti. Poi l'uno e l'altro tenendo
sotto il braccio ciascuno un paziente, preceduti e seguiti dai
confratelli di San Giovanni Decollato, si avviarono verso le scale. I
confratelli recavano i ceri come in un funerale, e cantavano le preci
dei morti.
Così
accompagnati Monti e Tognetti scendevano lentamente le scale. A metà
di quelle trovarono una immagine della Vergine, che in atto d'amore
teneva il bambolo fra le braccia. In altra occasione sarebbero
passati innanzi a quel quadro senza badarvi, ma nello stato
dell'animo loro quella vista li commosse talmente, che entrambi si
lanciarono insieme in ginocchio dinanzi all'emblema del più
santo fra gli amori umani, l'amore materno.
Scesero
ancora: varcarono la porta delle Carceri Nove, per entrare in una
prigione più stretta e terribile: il cocchio chiuso, che
doveva condurli fino a piedi della ghigliottina. Entrarono infatti
ciascuno in una carrozza, insieme al gesuita confessore, e a due
confratelli confortatori.
Grossi
drappelli di dragoni e di gendarmi a cavallo scortavano le due
Carrozze.
Le
prime file dei cavalli s'incamminarono; poi di lì poco, si
mossero le vetture. E il corteo si avviò lentamente16
verso la piazza de' Cerchi.
Folte
pattuglie di gendarmi e di fantaccini percorrevano le strade, donde
dovevano passare i condannati: facevano sgombrare la gente e chiudere
le finestre.
A
prolungare fino all'ultimo il tormento morale dei pazienti si faceva
procedere lentissimo il convoglio: tanto che giunsero sulla Piazza
de' Cerchi dopo un'ora di cammino!
Erano
le sei e mezza antimeridiane.
La
piazza dei Cerchi era vuota di popolo, chè gli armati che ne
occupavano gli sbocchi impedivano a chiunque l'accesso. V'era
solamente disposta in quadrato la truppa degli zuavi. Secondo che il
loro colonnello aveva chiesto, e il Papa accordato, essi assistevano
al supplizio di Monti e Tognetti.
In
mezzo al quadrato militare, si elevava un palco di legname, e sopra
quello l'infame macchina della ghigliottina.
I
primi raggi del sole nascente facevano scintillare il ferro massiccio
dal taglio obliquo, aguzzo, lucente.
Un
uomo barbuto stava ritto in piedi con una mano appoggiata a uno dei
bracci della ghigliottina, quell'uomo era il carnefice. Altri due
uomini erano seduti sulla scala che conduceva alla piattaforma: erano
i suoi ajutanti. Essi aspettavano.
Le
carrozze si fermarono presso al palco; Monti e Tognetti scesero
ajutati dal confessore e dai confortatori. Le carrozze ripartirono
vuote.
Monti
pel primo fu condotto a piedi della scala e gli fu ordinato di
salire. Uno degli ajutanti lo prese per mano, e lo trasse su.
Giunto
in cima alla piattaforma, il carnefice lo fece inginocchiare, e
posare il collo sul ceppo. Il ferro discese, e la testa spiccata dal
busto rotolò sul palco; mentre il corpo informe cadeva
dall'altra parte, mandando fiotti di sangue dal collo reciso.
Il
boja raccolse quella testa: l'afferrò colla mano destra pei
capelli, e stendendo il braccio, e girandolo intorno la mostrò
da ogni parte agli zuavi schierati.
Intanto,
uno degli ajutanti asciugava con una spugna il ferro della
ghigliottina; l'altro era sceso a metà della scala ad
incontrare Tognetti.
Il
carnefice rialzò rapidamente il ferro pesante.
Salendo
la scala, Tognetti scivolò: i gradini erano bagnati dal sangue
che scorreva giù dalla sommità del palco. L'aiutante lo
prese fra le braccia, e lo portò su pegli ultimi gradini.
Quivi fu sospinto dall'esecutore che aveva fretta. E in un attimo
tutto fu finito.
Anche
la testa di Tognetti fu mostrata agli zuavi: e i loro tamburi
suonarono lungamente.
I
due cadaveri furono chiusi nelle bare, che partirono accompagnate
dalla compagnia di San Giovanni Decollato, mentre la truppa sfilava,
e nella piazza guardata dai gendarmi e dai birri rimanevano il
carnefice e i suoi uomini intenti a smontare e disfare l'apparato
omicida.
Se
abbiamo narrata in tutti i suoi particolari la scena funesta non fu
per vaghezza dell'orribile, ma per rappresentare più vivamente
quale fu nella sua esecuzione la condanna che la Sacra Consulta
inflisse ai due martiri Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti.
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