XLI
Eroismo
di don Omobono.
Se
il lettore si chiedesse perchè mai gli astuti gesuiti
affidassero quell'incarico a un uomo, che aveva dato proprio allora
una prova palmare di dappocaggine, facile è la risposta. Ciò
ch'essi volevano, era di evitare la pubblicità, gli
schiammazzi, che non si parlasse del fatto, e nessuno sapesse più
nulla della donna e dei ragazzi. Così speravano che i figli
della vittima, invece di crescere vendicatori del padre, divenendo
gesuiti anch'essi, avrebbero un giorno maledetto la sua memoria. Ora,
per condurre Lucia nel tranello, nulla valeva meglio della nota
bonarietà del prete di vettura. Il dono che le veniva da lui
non poteva tornarle sospetto in modo alcuno, ed essa sarebbe caduta
sicuramente nell'agguato che le si tendeva. Avevano poi creduto
necessario avvertirlo della trama, perchè sapesse regolarsi in
conformità: e d'altra parte il suo carattere di sacerdote
timido e pauroso, escludeva la possibilità di un tradimento.
Tutto doveva adunque andare, secondo essi, per lo meglio.
Avevano
fatti i conti senza il cuore di don Omobono; sì, questo
cuoruccio, sebbene rincantucciato e impicciolito dalle frequenti
paure, batteva ancora in un angolo di quel petto scarno e incavato.
Il buon pretucolo si sentì rimescolare tutto all'idea di quel
tradimento inaudito, che pareva al gesuita cosa tanto piana e
naturale, da non farne nemmeno soggetto di discussione. D'altra parte
però, l'obbedienza ai superiori ecclesiastici, in nome dei
quali padre Bindi gli aveva parlato, sembrava a quell'omiciattolo,
ch'era la genuflessione incarnata, una ineluttabile necessità.
Combattevano dunque aspramente nel suo interno due principii, che la
Chiesa Romana pone sempre in lotta fra loro: il sentimento del cuore,
e il dovere dell'obbedienza passiva.
Per
quanto il velo dell'ipocrisia avesse ravvolte le intenzioni dei
gesuiti sulla superstite famiglia del condannato, quelle intenzioni
dovevano apparire alla mente ingenua di don Omobono ciò che
erano realmente, cioè, infamie belle e buone. Disporre dei
figli contro il volere della madre, carcerare per tutta la vita una
povera donna, di null'altro colpevole che di amare la sua prole e
d'esser devota alla memoria di suo marito; trarla in inganno con
un'offerta mendace, e farle trovare l'ultima rovina là dove le
si prometteva salvezza, sono delitti che nessuna religione può
giustificare, e contro essi si ribellava, suo malgrado, la coscienza
di don Omobono.
Ne
veniva di conseguenza, che se fece a lenti passi la strada che lo
condusse al Gesù, ora poi non sapeva decidersi in nessuna
maniera a imbroccare la via che doveva condurlo a Trastevere. Sostava
a ogni tratto, retrocedeva a modo dei gamberi, cambiava strada,
faceva strane giravolte, e chi l'avesse osservato e seguito, avrebbe
creduto che gli fosse dato volta al cervello.
Finalmente,
quando Dio volle, pose il piede sulla soglia della casetta, come
sulla vetta del Golgota, sospirando e travolgendo gli occhi.
Lucia,
meravigliata del suo ritorno, gli chiese che cosa gli recasse.
-
Una buona notizia, disse don Omobono, col fare di chi trangugia un
boccone amaro.
-
A modo dell'altra? In tal caso, la tenga per sè.
-
No... prendete.
E
senz'altre parole, che troppo gli costava il parlare, le porse il
passaporto traditore.
-
Oh, bravo! esclamò Teresa; questo sì, ch'è un
regalo che mi piace; e la ringrazio, don Omobono, e Dio le ne renda
merito. Guarda, Teresa, un passaporto per andarmene dagli Stati del
Papa. Io ritornerò a Fermo, e anche tu ci verrai. Ritornerò
a Fermo! chi me l'avesse detto ritornare senza il mio Peppe... il mio
Peppe, finito a quel modo!
Così
dicendo, la povera donna diede in uno scoppio di pianto, che le
sollevò il cuore: erano due giorni che non poteva più
piangere.
Poi
corse ad abbracciare ad uno ad uno i suoi piccini.
-
E io vi condurrò in salvo, miei cari, diceva intanto. Finchè
stavamo qui, io temeva per voi altri; pareva che un funesto
presentimento mi avvertisse di qualche male che vi sovrastasse. Ma
ora, grazie a Dio, potrò condurvi meco; andremo insieme dove
si respira aria libera e si dormono i sonni tranquilli. Presto,
presto, non tardiamo un momento. Teresa, aiutami a riempiere questa
cassetta, e poi...
-
Ma prima..., soggiunse don Omobono, parlando a stento, come se un
nodo gli avesse serrata la gola. Prima bisogna... che voi andiate in
persona alla Direzione di Polizia... per la vidimazione del
passaporto, altrimenti...
-
Ebbene, vado subito. Attendi ai ragazzi, Teresa. Ritorno in un batter
d'occhio. Ogni ora che rimango in Roma, mi pare un secolo. Pare che
il terreno mi bruci sotto i piedi. Dammi lo sciallo. Grazie anche una
volta, don Omobono.
E
Lucia si avviò rapidamente verso la porta.
Il
povero prete non ne poteva più; la fiducia di Lucia, la sua
gratitudine, le espansioni del suo amor materno, erano altrettanti
colpi di pugnale per lui, che sapeva d'esser venuto a far la parte di
Giuda. E quand'essa, dopo aver baciati un'ultima volta i suoi figli,
si avviò rapidamente, tenendo fra le mani il passaporto, egli
non resse più, e la richiamò, gridando:
-
Lucia, aspettate!
-
Che cos'è? cosa vuole?
-
Per quanto amate i vostri figli, non andate alla Direzione di
Polizia.
-
Ma perchè?
-
Quel passaporto è un inganno.
-
Che cosa dice?
-
Non mi chiedete altro. Salvatevi, fuggite, se potete, ma non fate uso
di quel passaporto: quello è il segnale per farvi arrestare,
per portar via i vostri figli.
-
Ah! gridò Lucia, correndo a raccogliere i suoi figliuoli in un
gruppo, che abbracciò in ginocchio.
-
E lei me l'ha portato! disse poscia verso don Omobono.
-
Fui costretto! me l'avevano comandato! Ma io, no, non mi sento la
forza di tradirvi, povera donna; facciano pure quel che vogliono, mi
chiudano a San Michele, mi taglino anche la testa, ma io voglio
salvare l'anima mia.
Bisogna
credere che don Omobono fosse arrivato a un grado supremo di
esaltamento, per lanciare quella eroica sfida alla morte, e più
ancora per cercare la salvezza dell'anima fuori dei precetti de' suoi
superiori.
L'eroismo
di don Omobono fu la salvezza di Lucia Monti e de' suoi figli, ed
esso la sconta tuttora colla reclusione in un convento di capuccini,
dove però, a dispetto del castigo, esso comincia ad
ingrassare.
Lucia
e la sua fedele Teresa poterono, coll'aiuto di un travestimento,
fuggire a tempo dalla Roma dei preti, e portare a salvamento anche i
bimbi.
Quella
buona famiglia si trova adesso nella patria di Giuseppe Monti,
confortata dalle consolazioni dei concittadini e dal compianto di
tutta la nazione.
La
povera madre di Gaetano Tognetti ha raggiunto il figliuolo!
La
Corte di Roma si è macchiata di nuovo sangue. Essa ha
affrettato il giorno della sua caduta e il trionfo della libertà.
Abbiamo
accennato di volo nel capitolo X alla catastrofe di casa Ajani, nella
quale i Romani si batterono disperatamente contro i soldati del Papa:
una donna generosa fu sgozzata co' suoi figli, e molti altri furono
fucilati, dopo fatti prigionieri, dagli zuavi.
Questo
fatto diede origine ad altro processo, definito colla condanna a
morte di due cittadini romani, Giulio Ajani e Pietro Luzzi, la qual
pena fu poi commutata, in seguito alla intercessione di re Vittorio
Emanuele, in quella dei lavori forzati a vita. Le più
scrupolose ricerche ci pongono in grado di fare interessanti e
curiose rivelazioni intorno all'andamento di questo processo, non
meno importante di quello che s'intitola dal nome degl'infelici Monti
e Tognetti.
Ajani
e Luzzi, vittime illustri, languono tuttora nella galere del Papa-re.
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