SUNTO DELLA
RELAZIONE FISCALE NEL PROCESSO MONTI E TOGNETTI
Nel
santuario della giustizia incomincia a farsi luce sui fatti orrendi
che col pretesto di libertà e dell'unità italiana,
bruttarono Roma di rovine e di stragi nella sera memoranda del 22 e
nei giorni seguenti dell'ottobre 1867. - La rivoluzione fu vinta
dalla fedeltà valorosa delle truppe del papa, e per le misure
prudenti prese dal suo governo.
È
provata la connivenza prestata nei moti di Roma e delle provincie,
alle bande garibaldine dal governo di Firenze, che acconsentì
agli ufficiali dell'esercito regolare di capitanarle nella invasione
del piccolo territorio pontificio, ed a concorrere colla persona alla
rivoluzione interna di Roma. La quale, già preparata dalle
varie fazioni di guerra combattute nelle provincie, e fin quasi alle
porte di Roma, scoppiò la sera del 22 ottobre per opera di
forastieri, non ajutati dal vero popolo romano, e subito vinta
e repressa dal valore delle truppe papali.
Il
processo, dà piena confermazione delle cose anzidette, ma
indica altresì che taluno degli onorevoli deputati al
parlamento italiano, per non essere da meno dei capi invasori, suoi
colleghi, Garibaldi, Acerbi e Nicotera, venne alla direzione e si
pose alla testa della sommossa, che ad ogni costo volevasi suscitare
in Roma, e dopo avere, d'accordo con emissari e con nuovi ed antichi
felloni emigrati romani approntate armi d'ogni ragione, non si peritò
di vilmente ricorrere ai tradimenti coll'apprestare mine a caserme di
militari pontificii, e col dare opera che si facesse saltare in aria
una delle polveriere di Castel Sant'Angelo a strage, distruzione e
desolazione di Roma.
Mentre
le provincie erano messe a fuoco e sangue dai perfidi invasori, Roma,
che giusta i preconcetti disegni avrebbe dovuto insorgere, stavasene
salda, quieta, imperturbata, pronta bensì agli eventi, fidente
e stretta al suo amato sovrano. I membri del sedicente Comitato
romano davansi bene attorno a fare proseliti, ma, gli sforzi non
riuscendo alla vastità dell'impresa scellerata, fu duopo
muovessero da Firenze uomini sperti delle rivoluzioni: ed ecco venire
alla spicciolata un buon numero con passaporti regolari sotto
mentiti nomi, fra i quali primi e più capaci e influenti
Luigi Castellazzo, pavese, Francesco Cucchi, bergamasco,
deputato al Parlamento e colonnello garibaldino, ed altri ancora
insieme ad un Giuseppe Ansiglioni, emigrato romano, tutti
ufficiali di Garibaldi, e ad un Giulio Silvestri, ufficiale
nell'esercito italiano, destinati a coadiuvare il Cucchi, capo
supremo della impresa. Dessi, giunti in Roma, si affiatarono coi
caporioni settarii romani, essendo di essi primi e più
intraprendenti Cesare Perfetti, Giovanni Borzelli e Filippo
Fioretti, i quali avevano ubbidienti altri ugualmente pronti e
faccendieri.
Allo
intento delle mire rivoluzionarie facevano ostacolo le truppe
straniere al servizio della Santa Sede, e di preferenza gli animosi
zuavi. Castel Sant'Angelo, baluardo del Vaticano, ben guardato e
difeso, non offriva modo ad aversi con un colpo di mano. Quindi il
pensiero infernale di ricorrere al tradimento minando caserme,
inchiodare i cannoni del forte nel momento dell'azione, farne
scoppiare le polveriere, lanciare bombe all'Orsini, a strage de'
zuavi, uccidere i più zelanti degli ufficiali d'artiglieria.
All'uopo
accordarono uomini esperti dei luoghi, e risoluti ad agire; degli
artiglieri subornarono alla fellonia sei bassi ufficiali.
Gli
emigrati Ansiglioni e Silvestri trassero a loro
l'ingegnere Giuseppe Bossi, il quale assunse l'incarico di
esplorare le caserme, e scegliere i luoghi opportuni ove collocare le
mine. Lo coadiuvarono i muratori Giuseppe Monti e Gaetano
Tognetti, i quali di notte tentarono varie esperienze inutilmente
per trovar modo di introdurre barili di polvere ne' sotterranei della
caserma Serristori. Fu dovuto rinunziarvi ed attenersi invece al
partito di aprire con chiave falsa un locale terreno della stessa
caserma, collocarvi due barili di polvere ed appiccarvi fuoco. Lo
scoppio di essi dovea ancora servire di segnale allo scatenarsi della
rivoluzione; e così fu.
Per
la mina della caserma di Cimarra, ove stanziano i legionari d'Antibo,
si ricorse allo spediente di far prendere in affitto da un Augusto
Ammaniti alcuni sotterranei a contatto col muro posteriore di
essa caserma; vi si tentarono gli apparecchi opportuni, ma non
riuscirono.
Un
Filippo Fioretti intanto riusciva a sedurre con danaro e con promesse
lusinghiere di avanzamenti militari quattro marescialli, due
brigadieri ed un milite comune di artiglieria, che gli giurarono
ajutarlo nell'opera d'inchiodare i cannoni, ed in ciò che
venisse imposto dalle circostanze della rivoluzione.
Così
disposte le cose, andavasi incontro al momento della gran lotta. Roma
per altro, confidente negli aiuti di Francia, per resistere all'urto
dei nemici interni ed esterni, faceva sforzi inauditi, ma non le fu
conceduto sfuggire ai mali di una rivoluzione, alla quale spingevano
i garibaldini che romoreggiavano per ogni intorno, e gl'intendimenti
dei rivoluzionari, che presero maggior ansa, quando nel Moniteur
del 22 ottobre apparve la notizia della sospensione dell'imbarco
delle truppe francesi a difesa della Santa Sede. A questa novella,
assicurato il Governo italiano, aprì liberamente i confini a
migliaja di garibaldini, onde si riversassero sullo Stato pontificio,
e fece giungere a Cucchi l'ordine che Roma onninamente la sera
stessa insorgesse.
Come
si fu un tal ordine diramato ai capi agitatori, corsero dessi a darne
gli avvisi ai loro cagnotti, a fermare gli accordi, a fissare le
poste, a dispensare le armi. Roma nelle ore pomeridiane di quel dì
formicolava di sgherri forastieri misti a bordaglia, che mai non
manca in popolose città, presta sempre a scelleratezze, ove
trovi di avvantaggiarsene. Il Governo messo sull'avviso, vegliava; i
corpi d'ogni arma stavano all'erta, di guisa che, quando nella sera
alcune bande d'insorgenti, le quali si avvolgevano con armi in varii
punti della città e fuori della porta San Paolo, vollero
misurarsi co' soldati, furono per ogni dove battute, vinte o
disperse.
La
sola fazione che rispose ai biechi intendimenti, degna certamente de'
suoi autori, e di che si compiacque18 il Cucchi
e mandò a farne i
suoi rallegramenti, fu la mina fatta scoppiare sotto la caserma
Serristori. Per essa crollò da cima a fondo con ispaventevole
detonazione una parte del fabbricato, e furono travolti a precipizio
e sepolti fra le rovine parecchi militari zuavi, e la più
parte italiani, dei quali pochi andarono illesi; dodici rimasero chi
più chi meno gravemente feriti, per modo che in
progresso19 di tempo tre ne perirono, ventidue furono
estratti morti: una famigliuola che a caso andava per via, marito,
moglie ed una fanciulla di presso a sei anni, restarono anch'essi
sotto le macerie; la sola donna ne potè essere tratta semiviva
e pesta; le case circostanti allo scoppio orrendo, ed al crollo
violento patirono tale una scossa che si screpolarono in più
parti, andarono in frantumi porte e finestre.
Nel
dì seguente i cittadini, inorriditi alla vista di tanto
disastro, maledicevano gli autori di così nero e barbaro
tradimento. Ma i settari, freddi, per nulla scorati delle iatture e
dello smacco della sera innanzi, sicuri degli appoggi esteri, pieni
di dispetto e di odio, che mai non muore nei loro petti,
sghignazzavano, si preparavano alla riscossa, intendevano alla
vendetta. Infatti nella notte appresso mandavano a nascondere nei già
detti sotterranei attigui alla caserma di Cimarra un barile di
polvere, ed avvertiti del danno che ne sarebbe avvenuto piuttosto
alle case sottostanti della via Paradisi: non importare,
dicevano, purchè si spargesse il terrore e lo spavento, ed
in questo si potesse sorprendere ed assaltare i legionari d'Antibo;
pressavano, onde accadessero orrori in Castel Sant'Angelo; ma già
prima della sera della sommossa gli ufficiali superiori di
artiglieria, avuto sentore delle ree macchinazioni e della infedeltà
del loro maresciallo Zaffetti e di talun altro, avevano fatto
sgombrare della polvere la polveriera designata n. 5, e con bel garbo
avevano tenuto lontano i sospetti, e resili incapaci di male oprare.
Qua e là in più luoghi, per mantenere l'agitazione, si
esplodevano bombe: nel Trastevere il dì 25 si riunivano armi e
molte persone nella casa abitata da certo Giulio Ajani, e
s'ingaggiava una fiera lotta colla truppa, e ne succedevano ferimenti
ed uccisioni, di che darà conto una separata processura
all'uopo intrapresa: nel giorno 30, due ore dopo entrati i Francesi
in Roma, veniva insidiosamente assalita una mano di zuavi presso la
villa Cecchini, e ne conseguiva un conflitto con morti da ambe le
parti.
Vinto
finalmente a Mentana Garibaldi, e datosi alla fuga, i suoi ne
seguirono le peste; Roma fu purgata da esterni ed interni agitatori.
E quando si fu in grado di ordinare l'arresto di coloro che avevano
preso parte morale e materiale nell'apprestare le mine, e nelle ree
macchinazioni e conati su Castel Sant'Angelo, i capi principali
Francesco
Cucchi,
Giuseppe
Ansiglioni e
Giulio
Silvestri aveano
già provveduto alla loro salvezza, tornandosene là di
dove erano venuti, e si constatò la fuga e contumacia di
Cesare
Perfetti,
di Filippo
Fioretti,
di Angelo
Tognetti,
di Augusto
Ammaniti,
di Giovanni
Borzelli e
di Camillo
Brica. I
soli che caddero in potere della giustizia furono: Luigi
Castellazzo,
Giuseppe
Manti,
Giuseppe
Bossi,
Gaetano
Tognetti,
Benedetto
Raffo,
Rocco
Dimaggio,
Mariano De
Mattias,
Tito
Sernicoli,
Carlo
Palanca,
Francesco20
Zaffetti,
Pietro
Santarelli,
Claudio
Marchesi,
Giuseppe
Moresi,
Vincenzo
Patrizi,
Antonio
Zamperini,
Achille
Semprebene e
Luigi
Claudili.
Fra questi arrestati confessarono la propria e l'altrui colpabilità
con qualità scusanti Giuseppe
Monti,
Giuseppe
Bossi,
Tito
Sernicoli e
Francesco
Zaffetti.
Il
titolo principale di accusa è Di promossa insurrezione
contro il Sovrano ed il Governo con apprestamento di mina alla
caserma Serristori con omicidi e ferimenti. La prova generica
dell'esistenza del titolo d'accusa la offre il fatto stesso dello
scoppio della mina avvenuto nella sera del 22 ottobre, e del rovinio
di un angolo della caserma che ne seguiva coll'eccidio e col
ferimento di molti individui. Catastrofe orrenda che veniva
pietosamente narrata da Giuseppa Cecchi, vedova di Francesco
Ferri, la quale per caso vi fu travolta insieme col marito ed una
figlietta di sei anni, che vi rimanevano estinti, mentre dessa ne
riportava gravi ferite.
Alcuni
zuavi sopravvissuti deposero "che partita da non molto una loro
compagnia per alla volta di San Paolo, i rimasti attendevano chi ad
una, chi ad altra faccenda, quando circa le ore sette di sera fu
udita una subitanea e cupa esplosione con tale un percuotimento e
rovinio, che sembrò la caserma inabissasse e profondasse
capovolta; i lumi si spensero tutti; un fitto polverio invase ogni
parte: al terrore succedè momentanea e profonda quiete. Chè,
smarriti i militi a quella inaspettata scossa, incerti di che si
minacciasse a loro danno, stettero per alcun tempo in forse: indi
animosamente, brancicando e barcollando nel buio, diedero di piglio
alle armi, vennero all'aperto in sulla strada." Tutto era
tenebre e mortale silenzio; una polvere densissima spinta dal vento
trascorrea vorticosa largamente intorno; l'angolo esterno della
caserma, fra la via de' Penitenzieri e l'altra di Borgo Vecchio,
caduto a grande spazio in ruina: di là a quando a quando
uscivano lamentosi e fiochi gemiti perdentisi fra i sassi e i massi
delle diroccate mura. In quelle distrette corsero eglino a guardare i
passi; accesero torcie a vento, si munirono di attrezzi, che in
sull'atto poterono avere acconci a scavare, si provarono di
soccorrere i loro commilitoni feriti o morenti, traendoli di sotto
alle macerie: nel che, coadiuvati più tardi dal benemerito
Corpo de' Vigili, riuscirono a camparne parecchi, non senza esporsi a
gravi pericoli. Perchè, solleciti tutti più dell'altrui
che della propria salvezza, operarono spesso in quella notte sotto
mura squarciate e cadenti, con sovra al capo lunghe travi penzolanti,
tra fucili carichi colle casse scavezze, facili a scattare al più
lieve urto, e sopra mazzi di cartucce qua e là seminati, cui
una scintilla sola bastava ad accendere. Ventiquattro furono i morti
scavati dalla notte anzidetta sino al giorno 2 di novembre, dei quali
22 zuavi e due borghesi, cioè l'operaio sunnominato Francesco
Ferri e la sua figliuoletta Rosa; tredici i feriti, compresa la
donna Giuseppa, moglie del Ferri. Di questi, tre cessarono di
vivere in progresso di cura. Onde, si ebbero a lamentare danni più
o meno gravi a dieci persone e la perdita di ventisette individui.
La
direzione generale di polizia nei giorni 7 e 28 novembre 1868, per
due diverse relazioni di due che sostennero le prime parti nella
rivoluzione, venne istruita di tutto il piano di essa, come
concepita, da chi diretta, a quali fini, e dei particolari più
minuti di esecuzione: rivelazioni che poi furono ampiamente
confermate dalle confessioni giudiziali di Monti e degli altri
ugualmente confessi. Le seguenti parole attribuite al Castellazzo, e
che leggonsi in aggiunta a quelle rivelazioni, meritano per la
importanza loro di essere riferite, siccome quelle che confermando la
lealtà onesta del Governo italiano, rivelano per nuova prova
di fatto la concordia fraterna e politica per la quale gl'Italiani
sono congiunti fra di loro.
"Garibaldi
aveva ordine di non entrare in Roma, ma solamente costeggiare le mura
per incoraggiare l'insurrezione; ed allorchè fosse stata
questa superata, sarebbe entrata in Roma la truppa regolare
italiana col pretesto di mettere l'ordine; se fosse entrato prima
Garibaldi, si temeva non di lui, ch'era di perfetto accordo con
Rattazzi, ma dei molti che lo circondavano del partito
mazziniano, che aveano dichiarato di fare un plebiscito in senso
repubblicano, giacchè Mazzini medesimo avea dato l'ordine di
proclamare la repubblica italiana; ed in Roma a tal uopo vi erano
gli emissari di Mazzini e di Rattazzi, i quali contrastavano a
vicenda coi partiti esistenti in Roma."
Nel
piano pratico della rivoluzione venne avvisato di attentare alla vita
dei militari esteri, massacrandoli in massa col mezzo, consentito in
tempo di guerra, delle mine, lo scoppio delle quali, abilmente
disposte, avrebbe dovuto farne saltare in aria le caserme con quanti
vi sarebbero dentro. Ed una tale idea suggeriva ai capi mestatori di
rivoluzione la necessità in cui erano di far molto e presto,
imperocchè mancavano le armi e le munizioni, e così
erano una fiaba le provviste imponenti che tanto vantava da anni il
celebre Comitato nazionale romano, e per le quali parimente
avea succhiate alla buona fede dei creduli rilevanti somme di danaro.
E
un fatto attestato persino nei rapporti militari del generale
pontificio ministro Kanzler, che alla rivoluzione romana
mancarono le armi promesse dal Comitato nazionale, in cui
sconsigliatamente fidando migliaia di giovani, si esposero contro le
truppe regolari, nella sicurezza, tradita, che sarebbero loro
state distribuite le armi al momento d'incominciare la lotta; invece
furono inermi ed abbandonati! Niuno al mondo potrebbe accusarci di
mendaci nel ricordare che facciamo questa verità dolorosa pur
troppo di tradimenti, ma storica.
Risoluto
il mezzo delle mine, studiando nella carta topografica di Roma, si
designavano i luoghi ove poterle, con gli ostacoli minori possibili,
collocare, ed ove
stazionassero21 soltanto gli esteri,
osservando per altro che i circonvicini non ne risentissero danno. I
progetti si fermarono sopra le due caserme di Serristori e di
Cimarra, tenuta dai zuavi la prima, dai legionari di Antibo la
seconda.
Inutile
qui sarebbe ripetere i varii tentativi, i molti sperimenti, sempre
riusciti invano, per minare, secondo le regole dell'arte, le due
caserme. Interessa bensì a sapersi, che i più attivi
negli studii e nella direzione pratica di esse furono i due romani
Giuseppe Ansiglioni e Giulio Silvestri, dichiarati
assenti, con l'ingegnere Giuseppe Bossi, romano, e Giuseppe
Monti, muratore di Fermo, intrepido esecutore, entrambi
arrestati. Lo scoppio di una mina "era addivenuto necessario,
essendosi divulgato che un gran rimbombo dovea essere il segnale
della rivolta, stabilita per le ore otto circa di detto giorno 22
ottobre prossimo passato" ed inoltre la sfida erasi già
data, gittato apertamente il guanto.
Del
modo come fu eseguita la mina a Serristori dirà, meglio che
ogni altro studiato racconto, la confessione genuina dell'esecutore
Giuseppe Monti, il quale fu per accidentalità arrestato
nelle ore pomeridiane del 24 ottobre nell'osteria dell'altro
arrestato Domenico Lucci, dove si condusse la forza per
requisire alcune accette nascoste in cantina e preparate per la
sommossa.
Monti
avea avuti poi abboccamenti coll'Ansiglioni, col Silvestri,
e con un tal Perfetti, e talvolta erasi incontrato col Cucchi.
Ansiglioni lo istigava con le minaccie, e lo allettava con
promesse le più vantaggiose. Nel giorno 22 ottobre fu
combinato che egli, all'operazione nella caserma Serristori, avrebbe
avuti a compagni un tal giovine Peppe, e due soldati di linea,
dei quali uno caporale. (Forse erano due congiurati vestiti alla
militare). Peppe era quegli che doveva aprire la porta, di cui
avea falsificata la chiave, d'un locale terreno sottostante alla
caserma Serristori: i due soldati lo avrebbero aiutato portandovi
dentro due barili di polvere: che, presi dalla bottega d'uno stagnaro
al vicolo della Campanella in Panico, il Monti dovea collocare al
posto e incendiare. La divisa militare serviva ad allontanare i
sospetti, perchè quel locale terreno era tenuto ad uso di
magazzeno del Corpo pontificio del Genio. Infatti, Monti, Peppe ed i
due veri o finti soldati, andarono al luogo designato; a Monti
vennero date da un incognito circa tre libbre di polvere sciolta per
versarla in un foglio di latta, preparato dall'Ansiglioni, per
mettere in comunicazione i due barili, i quali presi su dai due
soldati li adagiarono in una vettura di piazza che avevano a loro
disposizione, e, salitivi sopra i quattro congiurati, si diressero
verso la caserma Serristori. Si fermarono sulla vicina piazza di
Scossa-Cavalli. Soltanto Monti discese dal legno, diede al vetturino
uno scudo, gl'inculcò di accostarsi bene presso la caserma
Serristori, alla seconda porta.
Il
giovane Peppe aprì in un batter d'occhio; i soldati del pari
in un batter d'occhio portarono dentro i barili colla polvere; il
legno partì. Avvisato Monti, che attendeva sulla piazza
Scossa-Cavalli, essere tutto pronto, e che a lui toccava di fare il
resto, chiese se coi barili avessero messo dentro il foglio di latta
che era nel legno, al che risposero averlo dimenticato. I soldati
suggerirono che si poteva supplire con un mattone, dei quali ve n'era
un mucchio nell'interno del locale, ed il giovane Peppe andò a
prendere un pezzo d'esca lungo circa un mezzo palmo. Egli, Monti,
entrò nel locale apertogli, chiuse dietro a sè la
porta, accese un fosforo, e colla languida luce del principio di esso
e dello zolfo adocchiò dove stavano i due barili colla polvere
e dove i mattoni; smorzò il fosforo per impedire che si
accendesse lo zeppo e spandesse troppa luce; trascinò i barili
fino nel mezzo della munizione, li congiunse palpando così
all'oscuro, ne congiunse le bocche in modo che poco distassero l'una
dall'altra. Sempre col sussidio del fosforo appena acceso e quasi
sull'istante smorzato, raccolse un mattone dal mucchio che avea
visto, lo collocò tra una bocca e l'altra dei barili; raccolse
colla mano dal barile pieno (l'altro ne conteneva appena un terzo) la
polvere accostandola all'orlo del mattone, versò su questo
l'altra polvere che avea ricevuto, vi applicò la striscia di
esca, fermandola con un sassetto perchè non cadesse, accese un
ultimo fosforo, e con questo l'esca, e via richiudendo la porta.
Quindi
andato sulla piazza Scossa-Cavalli, lo seguirono i soldati ed il
giovine Peppe, e lì per lì consegnò ad uno dei
soldati scudi trenta in boni di Banca per dividerseli
insieme!!... Lasciati sulla piazza anzidetta gl'indicati tre
individui, senza sapere dove si recassero, si diresse egli verso
Borgo Vecchio, e, come fu alla metà di quel borgo, intese lo
scoppio dei barili di polvere dalla parte della caserma Serristori,
che fece rintronare tutti i luoghi circonvicini; al che fu preso da
forte terrore. L'orologio segnava le ore sette in punto, e conobbe
che dalla esplosione all'avere appiccato il fuoco all'esca ci saranno
corsi circa cinque minuti. La notte questo sciagurato, cui mancò
il coraggio di trattenersi nella propria casa in Trastevere, la passò
in un lettino della casa alla Rotonda, ove alloggiava l'Ansiglioni,
il quale nella mattina seguente del 23 ottobre gli regalò
scudi dieci!! Giuda vendette Cristo per trenta danari;
Ansiglioni, in nome della redenzione d'Italia una, della vita di
ventisette infelici, sepolti nelle rovine di Serristori, e del
ferimento di dieci altri, ricompensa quattro sciagurati con dieci
scudi cadauno!!... È vero però che fu consolato dai
complimenti, di gratulazioni del generale, il quale fecegli ancora
dire che si era preparato un felice avvenire, non avrebbe più
campato di braccia, avrebbe fatto il padrone, non gli sarebbe più
mancato niente. Ed in fatto dall'ottobre 1867 ad oggi, la sorte
di questo disgraziato è invidiabile!... e l'avvenire di lui lo
sarà più ancora!...
Basta
alla storia della catastrofe funesta della caserma quanto venne
narrato sin qui. Rendere conto minuto della parte che vi presero gli
altri correi sarebbe una ripetizione superflua. La confessione
dell'ingegnere Bossi, che tutta si aggira sugli studii e sulle
sperienze per tentare con risultato giammai ottenuto le mine, se
prova la correità sua e di altri negli attentati e nella
rivoluzione, non isparge di maggior luce la verità delle cose
esposte.
Per
questo delitto della mina Serristori, la legge chiama a sindacato:
Francesco Cucchi di Bergamo, Giuseppe Ansiglioni e
Giulio Silvestri, romani (dichiarati assenti), Cesare
Perfetti, Angelo Tognetti, Giovanni Borzelli, romani (contumaci),
e gli arrestati Giuseppe Bossi, Gaetano Tognetti, romani,
Giuseppe Monti di Fermo, Giuseppe Moresi, Achille
Semprebene, romani, e Luigi Claudili di Piedilugo.
Questo
capolavoro d'ipocrisia e di malafede non ha bisogno di commenti. Già
accennammo le mire che si era proposto il giudice inquirente
nell'opera tenebrosa di questo processo.
Si
voleva dimostrare che il movimento romano non fu opera dei cittadini
di Roma; ma fu importato dal di fuori; si voleva dimostrare che
gl'imputati non furono spinti ai loro atti dall'idea patriottica ma
sibbene da un vile interesse.
Diretto
a tali intenti il giudice si valse dello sterminato potere che gli
accorda la procedura inquisitoria, contorse i fatti, li ravvolse
nelle ambagi di capziosi ragionamenti.
E
come potevano gl'inquisiti difendersi da quelle insidie? quale
garanzia accorda loro la legge sotto il governo del Papa?
Nessuna
idea di giustizia e d'equità nemmeno subordinata ai fini
preconcetti entrò nella compilazione del processo e della
relazione, che n'è il riassunto. Spargimento di sangue doveva
esservi ad ogni costo, e come il carnefice appresta e forbisce il suo
arnese di morte, così il giudice pontificio ordì la
rete delle sue disquisizioni per modo, che almeno due degli imputati
vi lasciassero impigliata la testa.
La
decapitazione di Monti e Tognetti, eseguita dalla ghigliottina
pontificia, salutò un grido unanime d'indignazione da un capo
all'altro d'Italia. Questo grido risuonò anche in Parlamento
per la bocca dei rappresentanti del popolo. La riparazione di
quell'atto inumano fu espresso innanzi alla Camera dei deputati dallo
stesso presidente del Consiglio dei ministri generale Menabrea, con
queste parole che acquistarono una speciale importanza per la persona
che le pronunziava.
"Signori.
La notizia della esecuzione del Monti e del Tognetti ci ha
dolorosamente contristati. Noi speravamo fino all'ultimo istante che,
un atto di clemenza avesse risparmiata la vita a quei due infelici; e
lo credevamo tanto più, che già da più di un
anno essi erano trattenuti nelle carceri; e che il fatto per cui
furono condannati, aveva un carattere politico, perchè esso
era principalmente diretto contro quella truppa straniera, che più
d'ogni altra aveva suscitato lo sdegno del popolo romano.
"Crediamo
che quest'atto sarà considerato come una inutile vendetta, e
non servirà certo a rialzare il prestigio di un'autorità,
la quale non si regge che per le influenze straniere.
"Il
ministero, o signori, non ha trascurato nulla di quanto era nelle sue
facoltà, per fare in modo che fossero sottratti all'ultimo
supplizio quei due infelici; questo non occorre dirlo; ciò che
mi preme di rilevare è, che questo fatto, per parte del
governo pontificio, fu un grandissimo errore politico, e questo
errore dimostrerà al mondo che nell'interesse della pace, e
nell'interesse stesso della religione, è necessario che si
muti una condizione di cose che conduce a così fatali
risultamenti".
Alla
riprovazione espressa dal presidente del Consiglio dei ministri si
associava con voto unanime la Camera dei deputati.
Più
splendida manifestazione ricevè la indignazione di tutto il
paese mediante la sottoscrizione che in ogni parte d'Italia si aperse
a favore delle superstiti famiglie di Monti e di Tognetti. A tale
protesta concorse già un numero immenso di firme e si raccolse
una somma considerevole a sollievo di quegli infelici.
FINE
Nell'originale "dimostazione". [Nota per l'edizione
elettronica Manuzio]
Nell'originale: "grandi". [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
Nell'originale "gogerno". [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
Nell'originale "insurrerezione". [Nota per l'edizione
elettronica Manuzio]
Nell'originale "un anima". [Nota per l'edizione
elettronica Manuzio]
Nell'originale "inocue". [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
Questi particolari sono esattamente conformi alla stessa confessione
fatta dal Monti durante il processo
Nell'originale "indescrivile". [Nota per l'edizione
elettronica Manuzio]
Nell'originale "satteliti". [Nota per l'edizione
elettronica Manuzio]
Nell'originale "VII". [Nota per l'edizione elettronica
Manuzio]
Nell'originale "istrutoria". [Nota per l'edizione
elettronica Manuzio]
Così chiamano nell'agro romano quei ripari di legno, dove si
sta al sicuro dalle offese dei bufali e dei cavalli sciolti.
Così è chiamata una delle cariche più onorifiche
della corte romana.
Nell'originale "quell'im-l'immenso". [Nota per l'edizione
elettronica Manuzio]
Nell'originale "sostizione". [Nota per l'edizione
elettronica Manuzio]
Nell'originale "lantamente". [Nota per l'edizione
elettronica Manuzio]
Nell'originale "fanciuletti". [Nota per l'edizione
elettronica Manuzio]
Nell'originale "compiaque". [Nota per l'edizione
elettronica Manuzio]
Nell'originale "progesso". [Nota per l'edizione
elettronica Manuzio]
Nell'originale "Franceso". [Nota per l'edizione
elettronica Manuzio]
Nell'originale "stanzionassero". [Nota per l'edizione
elettronica Manuzio]
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