X.
Ultimi
sforzi.
Lo
scoppio della mina non produsse quell'effetto che il Comitato di
Salute Pubblica erasi ripromesso.
Solo
una parte della caserma crollò, e precisamente quella ch'era
situata sull'angolo della via Borgo Vecchio, e soli trentaquattro
zuavi furono travolti nella rovina. La maggior parte degli zuavi era
assente dalla caserma: chè, quando avvenne lo scoppio della
mina, nuove compagnie erano già partite alla volta di Porta
San Paolo.
Ormai
piegavano senza riparo le sorti della rivolta.
I
patrioti che accorsero al segnale dello scoppio furono arrestati
dalle grosse pattuglie che sbarravano le vie.
Al
Campidoglio, a Piazza Colonna, gl'insorti erano sbaragliati.
Solo
resisteva ancora la Porta San Paolo. E contro quell'ultimo baluardo
della libertà si scagliarono tutte le forze del dispotismo
clericale.
Nuove
colonne giungevano ogni momento a rinforzare l'attacco di fronte a
quell'eroico drappello, che resisteva coll'energia della
disperazione.
Solamente
alle nove e mezzo della sera le truppe papali giunsero a ricuperare
la Porta San Paolo, mentre i suoi difensori si disperdevano, cercando
un asilo nelle vigne circostanti.
In
quella sera la città presentava da ogni parte un desolante
spettacolo: le strade, vuote di cittadini, erano asserragliate dalle
truppe accampanti sulle piazze, e percorse da minacciose pattuglie.
Intanto i gendarmi e i poliziotti andavano a picchiare alle case
chiuse ed oscure, atterravano le porte, invadevano le dimore delle
famiglie, strappavano i Romani dalle braccia delle mogli, delle
madri, dei figli, per trascinarli nelle prigioni.
Bastava
il più lieve sospetto, la più calunniosa delazione per
incorrere in quella sorte. L'accusa sola era l'arresto, era il
processo, era la condanna. Le spie e i birri stavano padroni della
situazione.
Tutti
quelli ch'erano segnati in nero nel libro della polizia (ed erano
molti) in quella sera venivano ricercati. Nessuno era sicuro nel
proprio letto!
Cupo
e silenzioso sorse il giorno 23 ottobre sull'angustiata città.
Quanti patrioti poterono sottrarsi alla carcerazione, e passare
illesi attraverso dei fitti cordoni di truppa che barricavano in ogni
parte le strade, accorrevano presso il Comitato, dicendo:
-
Bisogna continuare a qualunque costo!
V'era
però una fatalità che si frapponeva a quella tenace
energia: era la mancanza di armi.
Dopo
la vittoria riportata da Menotti a Monte Maggiore, respingendo, gli
zuavi del papa, il campo dei garibaldini giungeva fino a Monte
Libretti, a poche miglia da Roma. La presenza di Garibaldi, che
alcuni giorni prima era giunto fra i volontari, aveva infuso nuovo
spirito in quei valorosi, ed essi si accingevano all'ultimo attacco.
Però le fortificazioni dei pontificj non permettevano ai
garibaldini di avanzarsi colla celerità, che avrebbero voluto
adoprare.
L'insurrezione
di Roma doveva agevolare l'opera loro: ma il primo tentativo di
rivolta fu represso nel modo che abbiamo veduto.
Il
Comitato, incuorato dal coraggio indomito dei patrioti, si dispose
alla riscossa. Organizzò un nuovo movimento, e frattanto spedì
dei messi al campo dei garibaldini, perchè facessero noto il
bisogno estremo di armi, in cui si trovavano i Romani.
Fu
allora che i prodi fratelli Cairoli si accinsero a quell'ardua
impresa, che doveva costare all'uno di essi e a molti compagni la
vita.
Si
unirono ad altri cinquanta animosi, e caricati di un buon numero di
fucili, presero via pei monti Parioli, con intendimento di penetrare
ad ogni costo nella città, e recare quel prezioso soccorso ai
cittadini di Roma.
Giunti
alla vigna Glorio fuori di porta del Popolo, alla distanza di due
miglia circa dalla città, si fermarono quivi ad aspettare,
secondo i concerti presi, il momento opportuno per introdursi in
Roma.
Erano
le ore 4 pomeridiane di quel giorno 23 ottobre quando il loro asilo
fu scoperto.
La
vigna Glorio venne assalita da cinquecento zuavi, che combatterono
dieci contro uno.
I
magnanimi compagni si difesero eroicamente, ma furono schiacciati
dalla forza preponderante.
Il
sangue italiano scorse a larga mano sotto le bajonette dei mercenari
papali!
Frattanto
le porte della città erano barricate e munite di artiglierie;
i ponti sul Tevere erano minati per opera delle truppe; tutti i posti
di guardia raddoppiati. Le pattuglie a piedi e a cavallo erano in
moto giorno e notte. La piazza Colonna, piazza del Popolo, il
Campidoglio, il Pincio, il Quirinale, tutti insomma i punti
strategici, erano mutati in altrettanti campi trincerati, dove
accampavano continuamente le colonne pontificie; la circolazione,
divenuta difficile di giorno, era impossibile la sera. Roma dopo
l'imbrunire era affatto deserta di popolo, occupata solo dai soldati.
Tale
era l'aspetto della città in quelle funeste giornate; e
intanto la polizia proseguiva imperturbabile ne' suoi arresti. Le
prigioni non bastavano più ai detenuti, schifosamente
agglomerati nei cameroni, nelle segrete, nei sotterranei,
dappertutto.
Finalmente
il generale Zappi proclamò ufficialmente lo stato d'assedio, e
impose il disarmo generale, nuovo pretesto di perquisizioni e
d'imprigionamenti.
Roma
era dunque stretta in un cerchio di ferro e di bronzo; e mentre gli
sgherri stranieri ribadivano le sue catene, i feroci poliziotti
esercitavano liberamente il loro ufficio di manigoldi.
Eppure
non cadde ancora l'animo dei generosi, che avevano giurato di vincere
o morire, e coi polsi insanguinati dai ceppi, e col ginocchio degli
oppressori sul petto, tentarono gli sforzi estremi contro la
tirannide sacerdotale che li soffocava.
In
vari punti della città s'impegnarono accaniti conflitti fra il
popolo inerme e i prepotenti sgherri del papa.
A
San Lorenzo e Damaso una compagnia di Antiboini, che traduceva un
drappello di prigionieri romani, fu assalita dal popolo, costretta a
lasciare i prigionieri, e cacciata in fuga.
Altre
pattuglie venivano nello stesso tempo aggredite con bombe all'Orsini
verso piazza di Pasquino, a Santa Lucia della Chiavica, alla Trinità
dei Pellegrini, ai Monti, e in altri luoghi.
Questi
atti di disperata audacia costarono nuove vite di cittadini, ma non
valsero a smuovere le falangi reclutate dall'avidità e dal
fanatismo su tutta la superficie del globo.
Il
fatto più memorabile di quei giorni, e che formerà
soggetto d'altra storia, fu quello della casa Ajani.
In
quel vasto lanificio di Trastevere alcuni patrioti andavano
faticosamente raccogliendo armi e munizioni nell'intento di
adoperarle nel nuovo tentativo che si ordiva.
Per
opera dei soliti delatori, la polizia fu avvertita di quei
preparativi. Alle due antimeridiane del 25 ottobre una compagnia di
gendarmi, coadjuvata da un battaglione di zuavi si presentò
alla casa Ajani, intimando la consegna delle armi e la resa.
Alla
minacciosa intimazione i Romani risposero impegnando un sanguinoso
conflitto. Erano cinquanta, e non avevano che 28 fucili e 20 bombe
alla Orsini!
Quattro
ore durò la lotta; e ad ogni istante accorrevano nuove milizie
in soccorso degli assalitori.
Il
popolo, dalle contrade vicine, tentava ogni mezzo per ajutare i
difensori della casa. In mancanza d'armi, i popolani di Trastevere
rovesciavano sul nemico mattoni, sassi, masserizie, quanto loro
veniva alle mani.
Propagatasi
la notizia del conflitto, da ogni parte i cittadini, quantunque
inermi, tentavano di accorrere in soccorso dei loro fratelli, ma in
ogni contrada le comunicazioni erano chiuse da un fitto cordone di
truppe; vano ogni ardimento.
Anche
questa volta la fortuna sorrise ai carnefici. I prodi difensori della
casa Ajani, isolati, divisi dai loro concittadini, circuiti da un
migliajo di combattenti nemici, consumate le munizioni, esauste le
forze, ma non il coraggio, furono assaltati dagli zuavi, che giunsero
a penetrare dentro la casa.
Non
cedettero quei valorosi: e lottando corpo a corpo, contrastarono ogni
palmo di terreno ai soldati irrompenti. Nell'atrio, sulle scale
scorreva il sangue. Le donne combattevano al fianco degli uomini, e
cogli uomini cadevano trafitte, senza mandare un lamento.
Una
di esse, Giuditta Tavani romana, incinta di sei mesi, con un suo
bambino in braccio, combatteva armata di revolver, e vicino a lei
combatteva un suo figliuoletto, garzoncello di tredici anni.
Ferita
da molti colpi di bajonetta, Giuditta seguitava a lottare, e a
difendere i suoi figli: finalmente cadde colpita da una palla nel
mezzo del petto. L'eroica donna, il suo ragazzo, il bambino furono
sgozzati senza pietà dai soldati del papa!
La
lotta durò continua di piano in piano, di stanza in stanza;
finchè, divenuta impossibile la resistenza, incominciò
la strage; uomini, donne, fanciulli, combattenti e inermi, furono
passati a fil di bajonetta o moschettati.
Così
Roma nel 25 ottobre suggellò col proprio sangue il voto, che
col sangue istesso aveva scritto il 22, e quel voto suonava: Odio
eterno alla sovranità del papato!
In
quel medesimo giorno 25, Garibaldi, quasi per vendicare gli
assassinati di casa Ajani, riportava la splendida vittoria di Monte
Rotondo. Molti pontificj restarono morti in quella gloriosa giornata,
e duecento prigionieri e tre cannoni caddero in potere dei nostri.
È
un nuovo passo verso Roma: anche uno sforzo e Garibaldi vi sarà
entrato. Già i suoi volontari inseguono i papalini fin sotto
le mura, ed esso dal casino di San Colombo in vista della città
avverte i romani di tenersi pronti al supremo cimento.... quando le
truppe francesi sbarcano a Civitavecchia, e alle ore tre pomeridiane
del 30 ottobre entrano in Roma!
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