XVI.
Le
Carceri Nove.
Come
una minaccia e un incubo si eleva nel bel mezzo di Roma il tetro
monumento delle Carceri Nove. Quella fabbrica quadrata, massiccia,
scura, sembra, com'è infatti, la tomba di uomini viventi.
Ai
quattro angoli vegliano eternamente le sentinelle; la porta è
chiusa da un triplice cancello. Non un accento, non un gemito
manifesta la vita disperata che si respira là dentro. Il
Tevere passa mormorando a poca distanza, e par quasi che gema sulla
sorte di tanti sventurati.
Il
primo oggetto che chiama l'attenzione di chi s'inoltra in quella
spaziosa e bella via Giulia, il primo pensiero che occupa la mente è
l'edifizio delle Carceri Nove; e l'idea degli infelici che là
dentro espiano l'amore della patria, turba l'anima siffattamente, che
la bellezza scenografica della strada non è più
ammirata nè avvertita.
Non
è già che le Carceri Nove siano le sole carceri
politiche di Roma. Dal Castello Sant'Angelo fino all'ultimo convento
di frati; non v'ha in Roma un angolo che non sia stato adoperato dal
governo dei preti a torturare un'anima generosa, a comprimere i
palpiti più vitali di un cuore.
Quanto
ai detenuti politici, la giustizia dei papi aveva edificato a
posta per essi il vastissimo carcere di San Michele, nel quale
dovevano starsi imprigionati insieme alle donne di mala vita. Strano
concetto che dimostra la nequitosa malizia della Curia romana! Il
carcere di San Michele fu destinato ai rei di stato, e alle femmine
di mala vita!
I
chiercuti carnefici credevano d'infamare i patrioti, accomunando il
loro destino a quello delle prostitute. Stolti! la gemma della virtù
rifulge più bella in mezzo alle sozzure del fango: e l'infamia
ricade tutta sul capo di coloro che tentarono avvilirla.
Del
resto, per quanto vasto il carcere di San Michele, non bastò
ai detenuti politici nella felicissima capitale del mondo cattolico,
e non bastò nemmeno la succursale di quel carcere, inaugurata
per vezzo pretino col nome di San Micheletto. Non bastò
il forte di Paliano, scelto con sottile perfidia per l'espiazione
delle condanne politiche nel luogo più insalubre e mortifero
dell'agro romano, perchè le febbri maligne ajutassero e
affrettassero l'opera micidiale degli aguzzini.
In
breve, tutte le prigioni di Roma furono occupate dai carcerati per
delitto di lesa maestà, confusi in quelle bolgie cogli
omicidi e coi ladri mentre i conventi dei frati erano serbati come
luogo di espiazione a quegli inquisiti più giovani e inesperti
che davano ai preti qualche speranza di conversione.
Anche
nella prigione delle Carceri Nove si trovarono adunque i patrioti
agglomerati coi rei di delitti comuni; e non fu raro il caso in cui
il giovinetto carcerato per semplice sospetto di patriotismo si trovò
rinchiuso nella medesima cella con un assassino già condannato
a morte, che aspettava di giorno in giorno l'ora del suo supplizio.
Un'iscrizione
sulla porta di quella prigione ci ammonisce che la clemenza fu uno
dei motivi che indussero Papa Innocenzo a far costruire le Carceri
Nove. L'infelice che vi si trova detenuto può farsi
un'idea esatta della clemenza dei papi.
I
carcerati, e specialmente i politici, vi sono esposti a durissimi
trattamenti. O accalcati alla rinfusa in fetidi cameroni, o isolati
in celle umide e sotterranee, mancano d'aria pura e di luce. La
nequizia dei preposti rese nulle e disusate anche le regole
dell'igiene che presiedettero alla fondazione di quel carcere, duro
ma non insalubre nella sua origine.
I
detenuti delle Carceri Nove hanno oggigiorno per letto poca e sucida
paglia: il loro vitto è scarso e malsano; sono sottoposti al
digiuno e alla sferza per colpe leggere e spesso immaginarie!
Ma
ciò che rende più orribile quel luogo infernale è
la tortura morale, alla quale sono spesso soggetti quei detenuti per
la durezza dei guardiani, degni interpreti della efferatezza dei
governanti. Non solo manca agli sventurati ogni parola di conforto,
ogni ajuto di benigno consiglio, ma vien loro negata sovente quella
consolazione che i congiunti o gli amici con gentile pietà
cercano di inviare oltre le mura del carcere. Avviene sovente che ai
prigionieri si lascia ignorare che i parenti furono a chiedere loro
novelle, loro si contende un semplice ricordo, un saluto: cosicchè
alle loro pene si aggiunge il martirio dell'incertezza: sia che
temano sulla sorte dei loro cari, sia che li angosci il dubbio di
essere nella loro miseria obliati.
Un'altra
pena atroce di quella crudele fra le carceri preventive si è
lo spionaggio, la mala pianta che nell'interno delle prigioni
pontificie trova salde e vigorose radici. Il sollievo più caro
degli infelici è il racconto dei proprii casi, il compianto
delle comuni sventure. Ebbene, anche quest'ultimo conforto è
conteso ai detenuti politici nelle prigioni pontificie. Il compagno
di carcere, che in sembiante di amico vi si stringe d'intorno, che
con modi affettuosi vi sforza a parlare, è quasi sempre uno
scellerato spione, che la polizia papale ha destinato al soggiorno
delle carceri, un miserabile che, abusando della vostra sventura,
compra colla nefanda delazione l'impunità di altri atroci
delitti.
E,
incredibile a dirsi, le relazioni di quegli ignobili e degradati
strumenti formano spesso la parte sostanziale dei processi politici
di Roma. Le confidenze strappate sotto il velo dell'amicizia, della
compassione dai compagni di carcere, divengono il sostegno più
saldo dell'accusa.
E
come no? La forma inquisitoria del processo, abolita oggi da ogni
Stato civile del mondo, è tuttora in vigore presso quel
governo, che trovasi in lotta continua colla nuova civiltà. In
Roma il processo inquisitorio è l'arme più terribile
dei governanti, è la repressione più violenta contro le
legittime aspirazioni del popolo, è la vendetta del forte sul
debole.
Gli
atti della procedura si compiono nel segreto e nel mistero. Le
relazioni della polizia e le rivelazioni impunitarie sono la guida
prima del giudice. Le delazioni carcerarie, di cui abbiamo sopra
parlato, battezzate col nome pomposo di confessioni
stragiudiziali, sorreggono tutto l'edifizio del suo processo.
Quale possibile difesa, quale speranza di scampo rimane
agl'inquisiti? Nessuna! Le forme della legalità non sono che
vane apparenze dirette a perderli, a infamarli. Essi vengono sempre
condannati nel modo e nella misura che giova e piace al Governo.
Appena
il trono del papa fu puntellato dalle baionette francesi, e i
difensori della libertà furono oppressi e respinti, e in Roma
fu ristabilito l'ordine alla moda di Varsavia, i prelati che avevano
tremato nei giorni della insurrezione si accinsero a vendicarsi del
passato terrore sui carcerati.
In
quei giorni le tante prigioni di Roma, e molti conventi, cambiati in
luoghi di reclusione, bastavano appena ai detenuti politici.
Monti,
Tognetti e il loro amico e compagno Curzio Ventura, erano stati, come
vedemmo, rinchiusi nelle Carceri Nove: là dentro li avevano
isolati in altrettante segrete.
Il
loro contegno era diverso, secondo la differenza del loro carattere.
Curzio, anima sdegnosa, che aveva imparato fino dai primi passi della
vita a combattere colle avversità della sorte, si era chiuso
in una specie di stoica rassegnazione. Non una sua parola, non un suo
gesto dimostrava rabbia o sdegno in faccia ai carcerieri. Egli
serrava tutto in sè stesso il magnanimo dispetto dell'impresa
mancata. Calmo e sereno in vista, ruminava fra sè e sè
le delusioni del passato e le speranze di una futura riscossa.
Noncurante del suo destino e della sua vita, pensoso solo di quelle
grandi idee che occupavano la sua mente: la patria e la libertà!
Gaetano
Tognetti, giovane di carattere più irrequieto e impaziente,
non sapeva adattarsi alle angustie del carcere, nè sopportare
in pace la rovina di tanti ardimenti, nè riposarsi nelle
aspettazioni dell'avvenire. Insofferente della prigione, si
martoriava più e più colle smanie incessanti, che gli
rodevano il cuore, e che esalavano in grida disperate di cruccio e di
dolore.
Giuseppe
Monti era tutto concentrato nel pensiero della sua famiglia. Sua
moglie e i suoi figliuoletti abbandonati, esposti alla miseria; gli
strazj di quella povera donna, incerta della sorte di lui, tremante
per la sua vita, i pericoli ai quali essa era in preda; queste erano
le immagini crudeli che angustiavano il suo cuore, e rendevano più
dolorose per lui le ore interminabili della prigione. Tutto compreso
da quella pena, tanto orribile pel cuore di un marito e di un padre,
Giuseppe Monti non dava segno di vita; soffriva pazientemente la
durezza del carcere, e solo ad ora ad ora, quando le torture del suo
pensiero si facevano più insoffribili, mormorava a bassa voce
queste sole parole:
-
Povera mia moglie! poveri miei figli!
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