XVII10.
Il
secondino Petronio.
Fra
i secondini delle Carceri Nove, fra quei manigoldi dal cuore indurito
v'era per caso un buon uomo, che in mezzo a tanto spietata ribalderia
serbava un cuore accessibile alla pietà.
Era
un certo Petronio, bolognese, antico lavorante di canapa; condannato
una volta per un ferimento da lui commesso nel calore di una rissa,
gli avevano commutata la pena della galera nell'ufficio del
carceriere, cosa non rara negli Stati del papa, dove son pochi gli
uomini onesti e liberi che si offrano spontanei al mestiere
dell'aguzzino.
Nella
sera di quel giorno in cui avvenivano nel palazzo del principe Rizzi
le scene narrate nei capitoli precedenti, il secondino Petronio si
trovava di guardia in un camerone interno delle carceri; toccava a
lui di vegliare per tutta la notte in quel luogo.
Il
buon uomo si aiutava col tabacco da naso e con quello da fumo, contro
il sonno che minacciava d'invaderlo. Guai se il capo-custode nella
sua ispezione notturna lo avesse trovato addormentato! Una mezza
dozzina di nerbate, susseguita da una giornata di cella e di digiuno,
era il meno che potesse toccargli.
Egli
prendeva un tratto la pipa, e tirava quattro boccate di fumo, poi
deponeva la pipa e pigliava la scatola, e fiutava due prese di
tabacco, poi ricorreva di nuovo alla pipa per ritornare poscia alla
scatola. Ma ormai tutti i provvedimenti tornavano vani: già le
sue palpebre divenivano pesanti pesanti, e si chiudevano, e la sua
testa si abbassava prima lentamente, poi più presto, fino a
che il mento gli si andò a posare addirittura sul petto.
Per
fortuna in quel momento stesso l'orologio della prigione suonò
le undici ore.
Petronio
si svegliò di soprassalto, gridando:
-
Olà! alt! ferma! vuol scappare!... Ah! proseguì poscia,
fregandosi ripetutamente gli occhi e la fronte, mi pareva che
qualcuno volesse scappare... Maledetto sonno! la pipa non basta più
a farmi stare sveglio, e il tabacco nemmeno!... Uh! che brutta
vitaccia quella del carceriere!
E
qui il buon Petronio, dopo essersi ben bene impinzato il naso di
rapè, ed avere sgombrata la testa con una scarica
continuata di starnuti, si abbandonò al corso delle sue
consuete meditazioni.
-
Brutta vita! ripeteva fra sè. Sempre in mezzo alle miserie,
sempre chiusi in questa spelonca come tanti gufi! E poi non potere
neanche dormire alla notte. Almeno i carcerati riposano a loro
bell'agio!
In
quel momento, quasi a smentire l'assertiva del carceriere, un lungo,
penoso gemito uscì da una segreta vicina, la cui porta si
apriva appunto in quel camerone, dov'era Petronio.
-
Chi è? cos'è stato? esclamò egli. Sarà
questo qua che ogni tanto si lamenta.
Petronio
si alzò dalla sedia, e si avvicinò alla porta, donde
pareva che il gemito fosse uscito. Quella porta aveva un finestrino
che poteva aprirsi dal di fuori per spiare nell'interno della
segreta. Egli tirò il catenaccio, e aperto il finestrino,
guardò dentro.
La
luce di un fanale appeso alla volta di quel lugubre camerone, mandava
per il pertugio aperto da Petronio raggio bastante per discernere
dentro la segreta la figura di un uomo, che stava rovesciato sul suo
coviglio, colle mani intrecciate sopra la testa, in atto di disperato
dolore.
Petronio
si fermò a contemplare quei misero, e intanto pensava fra sè:
-
L'ho detto io. Era lui che mandava quel lamento. Sempre così
questo povero Monti! Ah! è proprio vero! egli riposa meno
ancora di me.
Poi
il dabben uomo richiuse il finestrino, e passò dall'altra
parte del camerone, dove aprì un simile sportello, e guardò
dentro a un'altra segreta. Era quella di Curzio.
-
Quest'altro invece se la dorme in pace! pensò Petronio. Beato
lui! Se potessi fare lo stesso anch'io!
Staccatosi
anche da quella porta, il bravo secondino si diede a passeggiare in
lungo ed in largo per opporre migliore resistenza al sonno, ch'era
sempre lì lì per tornare ad assalirlo.
In
fondo al camerone era un cancello, pel quale si passava nelle altre
parti della prigione... a quel cancello stava di guardia una
sentinella.
Petronio
si avvicinò al soldato, e gli chiese:
-
Camerata, che ora abbiamo?
-
Sono appena suonate le undici ore.
-
Le undici! e io credeva che fosse passata la mezzanotte!
-
Ho ancora un'ora da passare in fazione.
-
Ed io ho ancora sette ore da vegliare! Maledetto mestiere!...
Torniamo a fumare.
Era
appena tornato a sedere nel posto di prima, e aveva riaccesa la pipa
che si era spenta, quando Petronio intese un altro lamento, che come
il primo proveniva dalla cella di Monti.
Il
pietoso secondino si sentì rimescolare il sangue; e ritornò
al finestrino della porta. Guardò un tratto il prigioniero,
poi lo chiamò, dicendogli:
-
Ehi! pover'uomo, non potete dormire?
Monti
volse la testa verso il pertugio, stette alquanto in silenzio, chè
gli pareva strano quell'accento di compassione in un carceriere, poi
domandò:
-
Siete padre voi?
-
Io no.
-
Allora non sapete... non potete sapere... Il padre ch'è
staccato dalla sua famiglia non trova mai pace.
-
Avete moglie e figli?
-
Tre figli: e il più piccino non ha che sei mesi!
-
Poveretto!
Monti
aguzzò lo sguardo, fissando il volto di Petronio, attraverso
le sbarre del finestrino: e cercava d'indovinare in quell'oscurità
se la pietà del secondino fosse vera o finta.
Pare
che l'esame tornasse favorevole a Petronio, poichè Monti prese
a dire:
-
Voi, che mi sembrate più buono degli altri, ditemi qualche
cosa della mia famiglia: dacchè sono qui dentro, non ho mai
potuto vedere la mia povera Lucia.
-
Io... disse Petronio tutto confuso. Io non so nulla.
-
Ella sarà venuta, riprese Monti, sarà venuta per
vedermi, e gliel'avranno negato. Non è così?
-
Io vi dico che non so niente.
-
Ah! se volete dirlo, lo sapete. Abbiate compassione di un povero
carcerato; che io sappia almeno se mia moglie è in salute, se
è libera!
Il
povero Petronio, che non era assolutamente della stoffa, con cui si
fanno i carcerieri, si sentiva ammollire il cuore, e non sapeva come
fare a resistere alle preghiere del prigioniero.
In
quel momento altre persone entrarono nel camerone, senza che il
secondino, tutto assorto ne' suoi pietosi sentimenti, se ne
accorgesse.
Il
giudice Marini, al quale era devoluta insieme all'istruttoria del
processo politico, la sorveglianza del carcere dove erano detenuti
gl'inquisiti, faceva sempre le sue visite in ore insolite e
inaspettate, a modo di sorpresa.
Egli
si era fatto aprire senza rumore il cancello del fondo, e si avanzava
cautamente nel camerone, mentre Petronio aveva tutta rivolta la sua
attenzione verso Monti.
E
questi seguitava a pregarlo che gli desse qualche notizia della sua
famiglia, e lo togliesse da quella insoffribile ansietà.
-
Ma io non posso dirvi niente, ripeteva il secondino.
-
Non posso! soggiunse Monti: non posso, voi dite; ma dunque, è
vero, voi lo sapete!... Oh ditelo! date un sollievo a questo
tribolato!
-
Non posso dirlo.
-
Ve ne prego; voi siete un buon uomo. Ditemi solo se mia moglie viene
qualche volta.
-
Viene ogni giorno! gridò Petronio, che non poteva più
trattenere le lagrime.
-
Birbante! gridò subito dopo una voce tuonante.
Era
quella del giudice Marini, che nello stesso momento diede un forte
colpo sulla spalla del disgraziato Petronio.
Non
può descriversi la confusione del secondino. Tutto tremante,
si cavò dal capo la berretta, gli cadde di mano la pipa, e
balbettò:
-
Si...signor... giu...giudice!... Eccellenza!...
-
A questo modo fai il tuo dovere? esclamò Marini tutto
infuriato. Stai a far conversazione coi carcerati; e di più
dici loro quello che non devono sapere! Penserò io a farti
castigare! Ti farò cacciare in cella oscura, a digiuno
rigoroso.
-
Signor giu...giudice!
-
Meriteresti di starci un pajo di mesi.
-
Signor...
-
Animo! prepara la stanza degli esami; portavi i lumi e tutto
l'occorrente.
Petronio
non se lo fece dire due volte, e corse ad approntare una stanza
attigua a quel camerone, la quale serviva ad uso di cancelleria
criminale per l'interrogatorio dei detenuti.
Marini
si volse al suo cancelliere Passerini, ch'era rimasto rispettosamente
indietro.
-
Questa sera, disse, voglio assumere i costituti di Curzio Ventura, di
Giuseppe Monti e di Gaetano Tognetti. Imparate, signor cancelliere,
imparate l'arte del criminalista! Noi dobbiamo far tesoro delle ore
notturne. Questi sono i momenti più propizi per esaminare i
detenuti. Essi vengono svegliati dal sonno e subito tratti innanzi al
giudice; si presentano all'esame tutti sbalorditi e confusi. Non
hanno tempo di architettare un sistema di difesa, di preparare le
loro risposte, e vengono a cadere nella rete da loro medesimi siccome
uccelletti inesperti. Alla notte, signor cancelliere, sempre alla
notte!
Petronio
venne a dire che la camera degli esami era preparata. Il giudice e il
cancelliere vi entrarono.
Era
una stanza che metteva i brividi solo a vederla. Le muraglie erano
quelle nude e annerite della prigione. Un gran tavolo coperto da un
tappeto nero occupava quasi per intero lo spazio: un enorme
crocifisso appeso alla parete pareva che guardasse fieramente
gl'infelici che venivano tradotti là dentro; quattro candele
infisse nei candelieri di legno erano disposte in quadrato, come se
fossero state intorno a una bara. Da un lato stava uno scaffale pieno
di processi voluminosi, che per ogni pagina indicavano una lagrima e
una stilla di sangue!
Sua
Signoria illustrissima (così
veniva chiamato il giudice nelle intestazioni degli esami) si assise
comodamente in un seggiolone dal cuscino di cuoio, posto sotto il
crocifisso, di faccia alla porta d'ingresso.
Il
cancelliere, uomo piccolo e ranicchiato, al quale l'antica abitudine
degli inchini aveva notevolmente arcuata la spina dorsale, si era
seduto sopra una sedia di paglia; e postisi gli occhiali inseparabili
sul naso, stava provando le sue penne sopra un foglio di carta.
Petronio
se ne stava in piedi sull'uscio, col mazzo delle chiavi in una mano e
la berretta nell'altra, aspettando gli ordini del signor giudice.
Il
pover'uomo, guardando quella faccia torbida e buia, rabbrividiva non
più per sè, ma pei disgraziati, la cui sorte pendeva
dall'arbitrio di quell'uomo e dei suoi padroni.
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