XXV.
La
condanna.
Il
presidente fe' cenno di ritirarsi alle persone estranee alla
deliberazione.
Il
relatore, il procuratore del fisco, il difensore, s'incamminarono in
silenzio; anche gli uscieri varcarono la soglia, e chiusero le porte.
I
giudici rimasero soli col cancelliere, che doveva raccogliere e
registrare i voti.
Cosa
strana, che rende manifesto la incomprensibile mescolanza degli umani
affetti!
Quei
dodici prelati, giudici del Supremo Tribunale della Sacra Consulta,
scelti fra quanto vi è di più freddo, inesorabile nella
curia romana per giudicare le cause di Stato, avvezzi da lunga mano a
dettare le sentenze di morte, sordi ad ogni sentimento di pietà
o di misericordia, si erano recati al palazzo di Monte Citorio già
informati di quanto si attendeva da loro, già conoscenti della
causa, e decisi di attenersi in tutto alla relazione fiscale del
processo, deliberati insomma di pronunciare la condanna di morte
contro Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti. Ebbene, quell'eloquenza
calda e sentita del giovane avvocato, quella espansione,
quell'accento di verità, quelle lagrime sgorganti dal cuore,
erano giunte a passare lo spesso involucro di insensibilità,
onde avevano fasciato il petto; essi avevano sentito il contraccolpo
di quella commozione: erano inteneriti.
Il
presidente, ch'era in certa maniera responsabile del giudicato in
faccia al Governo, volse intorno lo sguardo, e si accorse di quella
disposizione degli animi.
Gli
parve di leggere in quei volti pensosi, in quegli sguardi concentrati
la salvezza degli inquisiti. Stette alquanto a guardarli in silenzio,
poi disse:
-
Monsignori! avete intesa la relazione del processo, le conclusioni
del fisco, e per ultimo le parole della difesa. Voi siete uomini di
senno profondo e di provata esperienza. Non vi lascerete abbagliare
per fermo dagli artifici di un eloquio studiato da chi ha la missione
di interporsi fra la spada della giustizia e il reo che deve esserne
colpito. Non vi sfuggirà certo l'importanza di questa causa,
che si identifica cogli interessi supremi del papato e della
religione. Roma, la Chiesa, tutto il mondo cattolico hanno gli occhi
su noi. Noi dobbiamo dire colla nostra sentenza se i settarj, che
nell'anno decorso tentarono di rovesciare il trono del Sommo
Pontefice, e furono fugati dall'ira dell'Onnipotente, erano uomini
dabbene; se in quel modo essi agirono rettamente, secondo ragione e
giustizia. Noi dovremo dire se tanti valorosi soldati, che vennero ad
esporre la vita in difesa delle cose più sante, furono
giustamente uccisi e massacrati con tanta barbarie. Dovremo dire,
infine, se coloro che attentano alla sicurezza del trono e
dell'altare, se i ribelli, gli assassini, i sicari, debbono andar
impuniti oggi, per essere domani glorificati, per ricominciare più
tardi la loro opera nefanda di strage e di distruzione. Ecco, o
signori, che cosa il mondo aspetta di sapere dalla nostra sentenza.
Invochiamo adunque il nome dell'Altissimo, perchè c'illumini e
ci guidi nella pronunciazione del nostro voto.
Questo
artificioso discorso pose un fiero dubbio nel cuore di quei prelati.
Parlavano ancora nei loro petti le voci della pietà, e più
di queste le norme inconcusse dell'onestà e del vero, quei
sentimenti morali che non vengono mai distrutti del tutto nell'animo
umano.
Questi
sentimenti li avrebbero spinti ad assolvere dalla pena di morte due
uomini non d'altro rei, che di avere virilmente combattuto in un
campo opposto a quello dei loro giudici.
D'altra
parte, i monsignori della Sacra Consulta riflettevano alle parole del
presidente. Il Governo aspettava da loro una condanna severa: essi
non potevano assolvere Monti e Tognetti senza condannare il Governo.
L'assoluzione di que' due inquisiti li rendeva moralmente loro
complici; con quella assoluzione essi rinnegavano quel potere pel
quale esistevano, rinnegavano tutto quanto il loro passato. La lotta
era dunque assai fiera, e diverso ne fu il risultato; in alcuni cuori
prevalse il consiglio più mite, in altri la crudele ragion di
Stato; e se non fosse stato che alcuni di essi erano guidati da
motivi personali, estranei al merito della causa, il maggior numero
sarebbe stato di quelli che inchinavano alla clemenza, e la salvezza
di Monti e Tognetti sarebbe stata pronunciata.
-
Signor cancelliere, disse in mezzo al silenzio universale la voce
lugubre del presidente: raccogliete i voti. Monsignori, chi si
pronunzia per la pena di morte risponda sì, chi non vuole che
quella pena sia applicata dirà no. Cominciamo.
-
Voi, monsignore, disse poscia, volgendosi al giudice ch'era seduto
alla estremità sinistra del banco. Giudicate che a Giuseppe
Monti e Gaetano Tognetti debba infliggersi la pena di morte?
Quello
al quale il presidente volgeva la prima interrogazione, era un
prelato dai capelli bianchi, curvo nel collo e nella testa; i
travolgimenti delle passioni giovanili avevano devastato
profondamente il suo volto, sul quale regnava adesso per consueto una
calma impassibile.
Egli
non levò la testa nè gli occhi, e rispose con voce
ferma:
-
No!
Gli
occhi del presidente sfavillarono d'ira; rimase come incerto, poi
soggiunse:
-
Non ho bene intesa la vostra risposta, monsignore. Io vi ho chiesto
se credete Monti e Tognetti meritevoli di morte.
Il
vecchio levò lentamente il capo, fissò i suoi occhi
bianchi e quasi velati in faccia al presidente, e ripetè con
maggior forza:
-
No!
Il
presidente, senza dissimulare il dispetto, che gli traspariva negli
occhi e nel cipiglio, si volse al secondo, e ripetè la
domanda.
Questi,
era un uomo di trent'anni, dal volto bruno, dal portamento ardito;
esso era rinomato per la severità, e potrebbe dirsi la ferocia
delle sue decisioni; e il presidente non dubitava che dalla sua bocca
dovesse uscire il voto della condanna. Egli ristette alquanto come
esitante, poi pronunziò la parola:
-
No.
Il
presidente strabiliò. Già gli pareva certa
l'assoluzione dei due accusati. Volse un'occhiata in giro sui
giudici, come un uomo che sta per annegarsi, e cerca un punto
d'appoggio. Senza frapporre altro indugio, interrogò il terzo
prelato, e questi rispose:
-
Sì.
Questa
volta il presidente respirò, e più tranquillo interrogò
il quarto, che replicò:
-
No.
Il
quinto e il sesto risposero con un sì.
Il
settimo no.
Il
presidente ritornò a tremare.
Fra
i voti raccolti v'erano quattro no; bastavano altri due per
formare parità e determinare l'esclusione della pena di morte.
L'ottavo
giudice e il nono furono pel sì.
Il
decimo pel no.
Anche
un voto negativo, e gli accusati erano salvi.
Mancavano
due voti: quello di monsignor Pagni e quello del presidente.
Questi
interrogò Pagni tremando.
-
Sì! rispose questi con voce vibrante.
Mancava
solo il voto del presidente.
L'istante
era solenne.
I
voti raccolti erano undici, sei pel sì, cinque pel no.
Se il voto del presidente era pel sì, gl'inquisiti
venivano condannati; se era pel no, si formava la parità
de' sei voti contrarj co' sei favorevoli, e in tal caso essi erano
salvi. La loro vita e la loro morte dipendevano dunque dal voto di
monsignor Presidente.
Tutti
gli sguardi dei prelati, tanto di quelli che avevano pronunciato il
sì come degli altri che avevano detto no, si volsero a
guardare quell'uomo, che con un monosillabo doveva decidere di due
esistenze.
Un'antica
consuetudine è in vigore nei tribunali romani. Quando dal voto
del presidente, che è sempre l'ultimo a votare, dipende
l'assoluzione o la condanna degli accusati, quel voto è sempre
favorevole, specialmente se si tratta di pena capitale.
Ma
la morte di Monti e di Tognetti era decretata prima ancora di quel
giudizio. Ben lo sapeva il presidente, che dopo un istante di
sospensione pronunciò la fatale parola: Sì!
Così
il risultato della votazione fu di sette sì e cinque
no. Monti e Tognetti furono condannati a morte alla
maggioranza di sette voci su dodici. Un voto contrario di meno li
avrebbe salvati. Essi furono dunque dannati all'ultimo supplizio in
forza di un solo voto, che fece traboccare la bilancia in loro
danno.
Anche
fra i prelati pontificj della Sacra Consulta ve ne furono cinque che
credettero Monti e Tognetti immeritevoli di morte; eppure essi furono
condannati alla ghigliottina!
Il
presidente proclamò il risultato della votazione, esclamando
trionfalmente:
-
La pena di morte è pronunziata!
Il
cancelliere stese la sentenza. Poi il presidente suonò il
campanello.
Gli
uscieri rientrarono; a un cenno del presidente introdussero il
relatore, il procuratore fiscale e il difensore.
La
sentenza, colla quale Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti venivano
condannati alla pena di morte, fu letta ad alta voce dal cancelliere.
La
seduta si sciolse.
Monsignor
presidente prese a parte l'avvocato Leoni, ch'era rimasto come
esterrefatto, e gli disse con ipocrita ironia:
-
Mi rallegro con lei, signor avvocato; ha fatto una bella difesa. Ella
è giovane, e le si prepara un bell'avvenire. Quanto a quei due
infelici, io la consiglio a ricorrere per essi alla clemenza e pietà
del Sommo Pontefice.
-
Alla clemenza del papa! sclamò con fuoco l'avvocato Leoni; e
più avrebbe detto, ma si trattenne.
Tacque
alquanto; poi disse, indicando il crocifisso che dall'alto aveva
assistito a quella scena:
-
Io me ne appello piuttosto alla giustizia di Dio!...
Nella
sera medesima, il cancelliere si presentava alle Carceri Nove per
leggere la sentenza ai prigionieri. Si recò prima alla segreta
di Giuseppe Monti, poi a quella di Gaetano Tognetti.
Monti
ascoltò sino alla fine la lettura senza dar segno di
commozione. E quando fu finita, diede un solo grido:
-
Poveri miei figliuoli!...
E
gemendo si rovesciò sul suo coviglio di paglia.
Tognetti
si diede a ridere rabbiosamente, poi disse al cancelliere:
-
Direte a quei signori della Sacra Consulta, che auguro loro un buon
sonno!
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