XXIX
A
Civita-Vecchia.
Curzio
era stato rinchiuso nel maschio della fortezza: la sua celletta
quadrata era posta nella sommità dell'edifizio; riceveva aria
e luce da un finestrino sbarrato posto al di sopra della porta, la
quale si apriva in una loggetta coperta, che guardava il mare. Gli
era accordata un'ora di passeggio ogni giorno su quella loggetta.
Gli
sguardi di Curzio in quell'ora di sollievo, nella quale poteva godere
dell'aria e della luce a suo piacere spaziavano sulla vasta
superficie delle acque, e la sua mente trasvolava in quei sogni di
libertà, che sono così cari al prigioniero. Avveniva
qualche volta che la sua attenzione era attirata più in basso
da un rumore di catene e da un indistinto frastuono di voci.
Il
prigioniero si volgeva allora a guardare in fondo alle mura stesse
della fortezza, e scorgeva dapprima un indistinto brulicare d'esseri
viventi somiglianti a uno sciame di rettili raggomitolati nel fondo
di un pozzo; poi guardando meglio si avvedeva che quegli esseri
appartenevano alla razza umana. Erano infatti uomini, vestiti
uniformemente a righe di colore oscuro, e agglomerati in un profondo
e fetido cortile; alcuno di essi mandava ad ogni passo il lugubre
suono dei ferri che gli stavano avvinti a' piedi; altri appajati dai
ceppi, erano costretti a muoversi di concerto. Erano insomma
galeotti.
Eppure
quegli uomini chiacchieravano, scherzavano allegramente, a giudicare
dai loro movimenti e dalle voci, e qualche volta uno scroscio di risa
schietto e romoroso giungeva fino alle orecchie di Curzio.
Egli
rabbrividiva allora, pensando che anch'esso poteva essere condannato
alla galera, e quindi venire calcato in quella putrida fogna, e
frammisto a quei volgari malfattori, a quei ladri, a quegli omicidi,
che colle infami vesti sul dosso, e colle colpe più infami
sulla coscienza ridevano della pena insieme e del delitto.
Pensava
che più dolce sarebbe in tal caso la morte incontrata e subìta
in un punto, e gli sorgea la voglia di precipitarsi giù da
quella loggia andando a battere il capo sulle pietre o le roccie del
fondo. Ma l'idea del dovere lo tratteneva dal farlo. Egli rifletteva
che fino a tanto che fosse in lui fiato di vita poteva tornar utile
alla sorte de' suoi fratelli, e quindi non aveva il diritto di
disporre de' suoi giorni, finchè quelli dei compagni fossero
in pericolo.
E
così pensando, lo angosciava l'idea di essere là chiuso
e isolato, e di non poter far nulla per essi. Cento volte aveva
chiesto a' suoi carcerieri con parole e con cenni, che lo facessero
parlare con un giudice, con un uditore, con un ufficiale qualunque.
Esso aveva l'intenzione di fare una deposizione sul fatto della mina,
in modo da aggravare tutta la colpa sopra sè stesso, e così
giovare in qualche modo a Monti e Tognetti. Ma quei militari, non
intendevano, o fingevano di non intendere, e non rispondevano in modo
alcuno alle sue interrogazioni, tali essendo gli ordini che dovevano
eseguire.
Un
giorno il giovane prigioniero tutto rapito da' suoi pensieri,
misurava a gran passi la piccola loggia, sì che in tanta
strettezza di spazio gli era forza di rivolgersi ad ogni tratto, e
finiva con descrivere quasi un cerchio, come fanno le belve chiuse
nella gabbia, quando sentì cadere vicino a sè un
piccolo oggetto penetrato dal di fuori.
Lo
cercò, lo raccolse, era un sassetto al quale era ravvolto e
legato con un filo un pezzetto di carta. Slegò e svolse quella
carta, e vi trovò scritte in un brutto carattere, e con
pessima ortografia queste sole parole:
"Monti
e Tognetti sono stati condannati a morte."
Corse
ad affacciarsi al parapetto e guardò di fuori.
Dinanzi
si apriva allo sguardo la scena interminata del mare; laggiù
sotto il maschio i baluardi con qualche sentinella che passeggiava
col fucile sopra la spalla, più in fondo la darsena che in
quel momento pareva deserta; i galeotti erano fuori al lavoro.
Curzio
non poteva capire donde e da chi gli fosse stato lanciato quel
dispaccio aereo. Seguitò a guardare da ogni parte, e si
accorse che sopra una specie di terrazza che copriva un fabbricato
basso e adjacente al maschio della fortezza stavano lavorando otto o
dieci forzati: non era impossibile che qualcuno di essi lanciando con
braccio vigoroso il sassetto l'avesse spinto fino alla loggetta
dov'egli si trovava.
Ma
tutti quei condannati parevano intenti al loro lavoro, e nessuno di
essi rispose ai cenni che Curzio rivolse da quella parte. E poi, come
e perchè uno di quei galeotti avrebbe potuto trasmettergli
quell'avviso? da chi dunque sarebbe proceduto? da persona amica o
nemica? Fosse vera o falsa la notizia?
Queste
furono le riflessioni nelle quali si sprofondò la mente di
Curzio.
-
Ad ogni modo, questa fu la conclusione a cui venne, l'obbligo mio è
quello di accorrere in loro soccorso, di tentarlo almeno. La sola
possibilità del fatto m'impone questo dovere.
Sporse
il capo fuori dal parapetto, e misurò l'altezza a cui si
trovava, studiò tutte le sporgenze e le scabrosità del
muro, per vedere se era possibile una discesa. Si ricordò di
aver letto come Benvenuto Cellini operasse la sua fuga da Castel
Sant'Angelo, calando da un'altezza molto maggiore. Ma poi? quando
fosse disceso non sarebbe osservato da otto o dieci sentinelle, che
non tarderebbero un momento a fargli fuoco adosso? E quand'anche
arrivasse a toccare illeso il terreno; non si troverebbe sempre
dentro il recinto della fortezza, e soprafatto dal numero dei
soldati? E non sarebbe allora rinchiuso in una cella più
stretta e sicura della prima? Stava discutendo questi pensieri,
quando venne il sergente profosso colle sue chiavi a chiuderlo nella
segreta; l'ora del suo passeggio era trascorsa.
Nel
giorno seguente Curzio, mulinando sempre mille diversi progetti,
aspettò con impazienza il momento in cui lo stesso sergente
sarebbe venuto ad aprire la porta della sua cella, ed egli sarebbe
stato libero di passeggiare nella loggetta. Giunse finalmente il
momento, e Curzio appena fu solo, corse ad affacciarsi al parapetto,
e rivolse la sua attenzione da quella parte dove stavano a lavorare i
forzati. Si accorse allora che in quel giorno erano passati a un
altro posto molto più vicino a quello dove egli si trovava:
stavano sul tetto di un corpo di fabbrica che faceva parte del
maschio, ma non giungeva all'altezza maggiore dell'edifizio.
Alcuni
galeotti erano stati scelti per eseguire tutte le opere muratorie di
riparazione di cui avevano bisogno i fabbricati del forte: ed erano
quelli appunto che nel giorno innanzi il prigioniero aveva visti a
lavorare in una terrazza, e in quel dì erano passati sopra un
tetto vicino.
Curzio
li osservò con attenzione; se da quelli era provenuto
l'avviso, senza dubbio con essi si avvicinava anche il soccorso. Così
pensava, quando si avvide che uno dei condannati, colto il momento in
cui i suoi compagni erano volti da un'altra parte, fece verso lui un
rapido cenno, di cui esso non comprese bene il significato; ma pareva
che volesse dire: Aspettate.
Non
v'era dubbio, era da quella parte ch'egli aveva un amico. L'idea che
si trattava di un galeotto mosse un istintivo ribrezzo nell'animo del
giovane. Ma poi pensò che poteva anche essere un patriota
condannato agl'infami ferri della galera per causa politica, e si
decise di accettare l'ajuto che quegli non avrebbe tardato ad
offrirgli.
Pure
egli aspettò invano un altro segno; passò l'ora intera
senza alcuna novità, e il sergente profosso, puntuale e
inesorabile come il tempo, venne ad aprire la porta della cella, e a
riserrarla, dopo ch'esso fu entrato. Curzio passò quella notte
in una agitazione continua; erano passati due giorni, dacchè
gli era pervenuta la notizia della condanna; certamente la esecuzione
era vicina. Nel suo modo di sentire magnanimo ed entusiasta lo
starsene inoperoso in tale frangente era un delitto, anche per lui
così chiuso e guardato a vista nella cinta d'una fortezza; a
costo di frantumarsi il capo od essere crivellato dalle palle egli
doveva tentare di evadere. Non sarebbe forse riuscito a giovare a'
suoi compagni. Non importa: egli sarebbe morto com'essi; e il
salvamento della sua vita non avrebbe lasciato sul suo nome il
sospetto di un'impunità comprata a prezzo del tradimento. In
questi pensieri vagò per tutta quella notte e nel dì
seguente, sicchè quando vennero ad aprirgli la porta pel
consueto passeggio, egli aveva già fermato fra sè e sè
un proposito disperato.
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