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Gaetano Sanvittore
I misteri del processo Monti e Tognetti

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  • MONTI E TOGNETTI
    • XXVII.   La festa da ballo.
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XXVII.

 

La festa da ballo.

 

Le sale della principessa Rizzi erano illuminate; la musica vi spandeva i suoi concenti: si ballava.

La principessa aveva la morte nel cuore. Essa sapeva come il suo Curzio si trovasse nella fortezza di Civita-Vecchia, e conoscendo il suo carattere, e i motivi della sua detenzione, tremava per i pericoli che gli sovrastavano continuamente, e più tremava per l'avvenire. Se anche riusciva a Monsignor Pagni di tenerlo illeso finchè durava quel malaugurato processo, che avverrebbe dopo quando egli fosse in libertà? A che cosa lo avrebbe spinto quell'indole focosa, e il desiderio di vendicare i suoi compagni? Dovevano dunque tenerlo sempre in istato di prigionia? E così non sarebbe egli deperito egualmente per giungere al suo fine?

Tali erano i pensieri angosciosi che occupavano il suo cuore, ai quali si aggiungeva, come aveva pensato Leoni, il pungolo del rimorso. Difatti per giovare a suo figlio, per ottenere una salvezza, che non avrebbe forse mai raggiunta compiutamente, essa aveva crudelmente tradita quella buona Maria, che aveva ricorso a lei, come al suo angelo tutelare. Per appagare il suo sentimento materno, aveva straziato il cuore di un'altra madre. Essa aveva fatto di più, aveva respinte le preghiere della povera donna, interdicendole l'accesso alla sua casa; aveva chiuse le orecchie per non udire i suoi lamenti, e le sue supplicazioni. Essa era stata non solo cattiva, ma ingrata e crudele.

Queste ed altre riflessioni tormentavano senza posa il cuore della principessa. Eppure essa dava una festa. Ohimè! vi era costretta.

Ogni anno in quel giorno si dava un ballo nel palazzo Rizzi. Era l'anniversario del giorno in cui il cardinale Rizzi, il fratello del principe, era stato rivestito della porpora cardinalizia, e quella solennità ecclesiastica veniva sempre ricordata con una festa profana.

In quel ballo adunque il cardinale era il re della festa, e riceveva gli omaggi delle più belle dame dell'aristocrazia romana, che v'intervenivano sempre.

Il cardinale Rizzi era un uomo di cinquantacinque anni, piuttosto grasso, la sua faccia era rotonda e schiacciata, vermiglia a macchie paonazze, e tempestata di bitorzoli; aveva i capelli rossi distesi sulla sommità della fronte e sopra le orecchie. In quella sera era vestito coll'abito da festa: sottana di porpora, coi guarnimenti d'armellino e il fermaglio di gioje, vestiario pomposo, che faceva risaltare la sua bruttezza ributtante, piuttosto che sminuirla.

Monsignor Pagni, vestito anch'esso col suo abito di gala, faceva una corte assidua a Sua Eminenza. Egli agognava al giorno in cui avrebbe anch'esso acquistata la dignità di principe della chiesa; sapeva che il cammino più rapido per arrivarvi è quello dell'adulazione e della servilità: e mormorava fra sè e sè questa giaculatoria: Abbassatevi per essere innalzati.

Il cardinale era seduto in luogo elevato nella gran sala da ballo, e tutte le signore che entravano col loro abbigliamento da veglia, colle spalle nude e il seno scoperto, andavano per la prima cosa a inchinarsi dinanzi a lui, e a baciare la mano morbida e liscia, ch'egli porgeva.

La principessa affranta nel cuore, ma sorridente nel volto, come richiedeva la sua posizione, riceveva gli invitati, e faceva gli onori di casa con quella squisitezza di grazia, che è un privilegio delle nature più elevate.

Il principe suo marito fin dal principio della festa si era dileguato dalle sale. Un servo gli si era avvicinato, gli aveva mormorato qualche parola all'orecchio, ed esso si era prontamente ritratto nelle sue stanze.

Un uomo dall'aspetto volgare, dalle vesti grossolane lo aspettava, nel suo gabinetto: era un'antica nostra conoscenza, era Giano.

Dalla sera dell'osteria, nella quale esso aveva servito così bene ai voleri del principe, lo stesso Giano era diventato il suo agente segreto, il suo intimo confidente, il suo spione.

Quell'uomo spiegava un'abilità particolare negli intrighi tenebrosi, e specialmente nei maneggi dello spionaggio. Egli dunque servì il principe Rizzi mirabilmente.

Sarebbe cosa lunga e tediosa seguire Giano per tutta la tortuosa trafila de' suoi raggiri. Il fatto sta che il principe era arrivato a sapere da lui la liberazione di Curzio dalle Carceri Nove, il suo ritorno nello Stato Pontificio, il suo arresto, e per ultimo la sua detenzione nella fortezza di Civita-Vecchia.

Fra il principe e sua moglie, lo sappiamo, s'era da lungo tempo impegnata una partita accanita, e la posta del giuoco era la vita di Curzio, quel giovane ch'era avvinto alla principessa con un misterioso legame.

Da principio la vittoria parve piegare dal lato della moglie, quando ella seppe disporre la fuga di Curzio con arte infinita al cessare dell'insurrezione, poi il marito aveva preso il sopravvento, comprando il soccorso di Giano, e facendo operare l'arresto del giovane, poscia pareva ch'ella avesse vinto, quando lo fece uscire dalle Carceri Nove, e condurre fino al di là del confine; il suo ritorno aveva riposto la superiorità dalla parte del principe: finalmente la sua reclusione nella fortezza di Civita-Vecchia tornava a dare la probabilità del trionfo alla principessa; ed era appunto in quel momento che il marito di lei si sforzava di riguadagnare il vantaggio.

Informato appuntino d'ogni cosa dal suo Giano, il principe concertava con esso i modi di riuscire nell'intento. In quella sera della festa Giano reduce appunto da una sua gita a Civita-Vecchia, era venuto a riferire al principe il risultato delle sue osservazioni, e a comunicargli un suo piano.

Si trattava di procurare l'evasione di Curzio dalla fortezza, e per tal modo cagionare la sua perdita.

Il progetto piacque al principe Rizzi, il modo della esecuzione fu discusso a lungo fra lui e il suo satellite, e infine venne adottato e approvato in ogni sua parte.

Giano ricevè dal padrone una buona somma di monete, e partì.

Il principe fece ritorno nelle sale del ballo. Nella prima s'incontrò colla moglie: egli sorrise, e volse a lei uno sguardo trionfante. Essa ignorava la ragione di quel riso e di quell'occhiata, ma sentì un brivido correrle per tutto il corpo.

La sentenza del giorno innanzi, alla quale il governo annetteva grande importanza, formava il soggetto principale delle conversazioni, di mezzo alle danze e alle armonie musicali nella festa del palazzo Rizzi.

Il cardinale Rizzi era uno dei sanfedisti più arrabbiati, e nel sacro collegio dei cardinali faceva parte di quella, che potrebbe chiamarsi l'estrema sinistra, ossia il partito d'azione dei clericali, quel partito che con De Merode e Lamoricière condusse il governo del Papa all'attitudine bellicosa, e alla campagna delle Marche ed Umbria nel 1860.

Il suo consiglio era sempre pel contegno più energico, e pei mezzi più violenti. Nessuna transazione colle tendenze del secolo, nessuna moderazione nell'esercizio della sovranità ecclesiastica e temporale, la massima prepotenza sui sudditi, la massima severità contro i liberali; tali erano i suoi principj.

Non è a dire dunque s'egli approvasse di gran cuore la doppia condanna di morte che la Sacra Consulta aveva emanata nel giorno antecedente; se qualche cosa gli dispiaceva in quella sentenza si era che i capi consacrati alla morte invece di due non fossero almeno almeno due dozzine.

Egli dunque si congratulava con monsignor Pagni, che faceva parte del Supremo Tribunale, e mostrava la soddisfazione che sentiva, perchè (come egli diceva) i membri della Sacra Consulta si erano in quella occasione mostrati consci dei loro doveri, degni della fiducia che in essi aveva riposto il Santo Padre e il Governo.

Anche il giudice Marini, il neo-cavaliere dell'ordine Piano fu presentato a Sua Eminenza come una delle persone più benemerite in quel processo, dovendosi attribuire, come disse officiosamente monsignor Pagni, in gran parte al suo zelo, al suo acume, alla sua operosità lo splendido risultato della causa.

Il cardinale si degnò di sorridere benignamente all'indirizzo del cavaliere, e questi ne andò tutto gonfio del sorriso eminentissimo, più che non lo fosse per la sua croce, e per l'assessorato di là da venire.

La principessa pallida, pallida, e col bagliore della febbre negli occhi, passeggiava sotto il braccio all'avvocato Leoni. Ella sapeva ch'egli era stato innanzi alla Sacra Consulta il difensore di Monti e Tognetti, ma non ardiva d'interrogarlo sui particolari di quella seduta, chè troppo si sentiva lacerata nell'intimo del cuore al solo pensarvi.

L'avvocato le chiese di ballare seco un valzer, di cui l'orchestra aveva intuonato il preludio.

- Grazie! rispose essa con voce soffocata, non ballo stassera.

- Si sente poco bene? chiese il giovane, al quale non era sfuggito il tremito della mano, che posava sul suo braccio.

- No, soggiunse la signora; ma il caldo delle sale, lo splendore dei lumi, il chiasso della musica, mi hanno fatto girare la testa.

- Vuole che scendiamo in giardino? un poco d'aria fresca le porterà giovamento.

- Non vorrei che fosse troppo freddo.

- Potrà coprirsi colla sua mantellina.

E senza aspettare la risposta, Leoni corse a prendere la mantellina di casimiro, che la principessa avea deposta sopra un divano. Traversarono la sala, e giunsero alla loggia, dalla quale si scendeva al giardino. Era un portico magnifico a colonne di granito e a dipinti raffaelleschi, tutto chiuso dalle invetriate e adorno di specchi e di busti antichi.

Una scala di marmo bianco coi parapetti intagliati conduceva al giardino ricco di aranci e di fontane, e in quella sera vagamente illuminato, a lampade opache di vario colore.

In cima alla scala Leoni adattò la mantellina sulle spalle della principessa, poi sostenendole il braccio, scese con essa.

Il giardino era pressochè deserto. Le coppie che poco prima si aggiravano per le curve dei viali infiorati, erano state richiamate nelle sale dalle battute del valzer.

L'avvocato Leoni, tenendo al braccio la principessa, prese la via che costeggiava il muro di cinta, tutto coperto da un fitto rosajo, immaginandosi, che da quella parte si trovasse la porticella, per la quale Maria Tognetti doveva essere entrata nel giardino.

L'uno e l'altra tacevano, tutti assorti com'erano in pensieri, che sebbene diversi, convergevano a un punto solo. Così silenziosi arrivarono dove il viale si perdeva in quattro o cinque sentieri, in mezzo ai quali era una statua dal vasto piedistallo circuito di sedili.

Dietro a quello, stava nascosta Maria, che, sporgendo ad ora ad ora la testa celata dalle foglie dei virgulti, cercava di conoscere chi si andava avvicinando.

Quando vide appressarsi l'avvocato e la principessa, sentì battere violentemente il cuore, e delle goccie di sudore freddo bagnarle la fronte. Le pareva che la vita del figlio suo dipendesse da quel momento.

Si resse colla mano ai fregi marmorei del piedestallo, poi quando i due che si avanzavano le furono proprio vicini, uscì fuori, e si piantò ritta in piedi dinanzi a loro.

La principessa mandò un grido, subito rattenuto. Essa aveva creduto a una visione, a un'illusione della sua fantasia agitata dal rimorso, e rimase immobile pel terrore. Ma quando Maria si avanzò ancora, e si accinse a parlare, ed essa non potè più dubitare della realtà di quella figura, si sciolse rapidamente dal braccio di Leoni, e mosse per fuggire. Ma la Tognetti non gliene diede il tempo; l'afferrò per le vesti, e sclamò:

- Voi m'ascolterete, signora, mi ascolterete!

- So che cosa volete: la vita di vostro figlio! mormorò a bassa voce la principessa, senza volgersi a guardare quella donna, che le faceva veramente paura.

- Egli è condannato a morte! intendete, signora? Aspetta il giorno del suo supplizio... e per vostra cagione!

- È vero, è vero: voi avete il diritto di accusarmi, di maledirmi; ma per quanto ho di più sacro, per la vita del figlio mio, vi giuro che io farò tutto quanto è possibile per salvare il vostro.

- Un'altra volta mi faceste la medesima promessa.

- Una forza irresistibile mi costrinse a mancarvi, ma questa volta...

Un subito rumore giunse all'orecchie delle due donne e dell'avvocato, che assisteva in silenzio a quel dialogo.

Il valzer era terminato: le liete coppie ritornavano a respirare l'aria aperta nel giardino; e si affollavano nella scala cianciando e ridendo.

- In nome di Dio, partite, gridò la principessa.

- Dunque me lo giurate? la vostra mano, signora! disse la Maria.

La principessa le porse la sua mano agghiacciata. La povera donna la strinse con forza, replicando:

- Lo giurate!

Poi sparì rapidamente fra il fogliame del boschetto.

 

 

 




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