L'albero
della morte
Germana si
alzò in fretta, buttò il libro sul tavolo e si avvicinò
alla finestra spalancata per vedere che cosa andava accadendo in
piazza Fòro Trajano, di dove saliva uno schiamazzare di voci
iraconde, sopraffacenti il rumore delle tramvie che a tutta corsa
arrivavano da opposte parti e scomparivano con fragore, l'una per via
Alessandrina, l'altra verso piazza Venezia.
Un gruppo di
persone gesticolava fra le rotaie dei binari, una vecchia signora
obesa urlava, agitando nelle mani guantate di nero un grosso mazzo di
fiori; una bicicletta giaceva al suolo spezzata e il giovane
ciclista, tumido in volto, mostrava in giro la canestra vuota e
indicava i panini rotolati fra la polvere, forse per ispiegare
ch'egli pedalava, tenendo in ispalla una cesta ricolma, quando il
cagnolino della signora gli si era cacciato fra le ruote della
bicicletta, facendolo ruzzolare e rimanendo schiacciato. Due guardie
si precipitarono dalla discesa di via Testa Spaccata, la folla fece
largo al ciclista, il quale, divorando a salti i gradini della
Cordonata, dileguò per via Nazionale, mentre le guardie
repertavano la bicicletta in frantumi, e la signora, tutta in
lacrime, saliva in una vettura con i resti mortali del piccolo cane
sventurato.
La folla,
ridendo e commentando a gran voce, si sparpagliò per opposte
vie, senza degnare di uno sguardo la colonna Trajana, che emergente
dai rottami del Fòro, sembrava avvolta nella sua cima da
labari imperiali per le fiammee nubi del tramonto, vaganti nell'aria
in quel giocondo crepuscolo di maggio.
Germana
rimase a lungo immota nel vano della finestra a seguire con l'occhio
le accese nubi, che lentamente si assottigliarono, impallidirono,
fuggirono leggere, lasciando appena sullo sfondo azzurro del cielo
una traccia rosata.
La colonna
si fece tetra, l'ombra salì col suo tacito flutto, sempre più
denso, a lambire ed avvolgere le rovine del Fòro, le lampade
ancora smorte nel chiarore opaco della luce fuggente, sembravano
occhi velati di tristezza.
Allora
Germana si nascose il viso nelle palme, crollando il capo
desolatamente e traendosi dal petto tremuli sospiri. Un dissolvimento
di tutto l'essere le fece abbandonare il busto sul davanzale ed ella
riconobbe che l'orgoglio cedeva in lei, sopraffatto dal dolore e che
le dolcezze del passato le facevano ressa intorno alla memoria,
domandando imperiosamente di rivivere a qualunque prezzo.
Oh!
riconoscer di nuovo il passo di Aldo sul tappeto della stanza, frenar
di nuovo con femminea malizia palpiti e sorrisi per apparirgli
distratta e vedergli in volto i segni dello sgomento, poi,
all'improvviso, con una lunga, squillante risata di giubilo, volgersi
a lui, rovesciare il corpo all'indietro, stendergli le mani e
socchiudere le palpebre per sottrarsi all'incanto troppo forte di
quella bocca piccola, dall'atteggiamento infantile, di quegli occhi
umidi e languidi sotto l'arco ampio delle sopracciglia marcatissime!
In
lontananza squillarono le note di una musica militare e Germana si
eresse di scatto sul busto sottile, si asciugò il pianto dalle
gote, e il volto delicato le assunse una espressione di rigidezza
torva. Avrebbe lottato con tutto il vigore della sua volontà,
con tutte le risorse della sua giovinezza; avrebbe lottato anche
contro sè stessa, anche contro il proprio orgoglio, purchè
il matrimonio avesse luogo all'epoca fissata. Dopo era affar suo
tenersi legato Aldo e sottrarlo al fascino malefico.
Era un
dovere da compiersi a beneficio di tutti; di sè, che
intristiva nelle ansie torturanti della gelosia; di Aldo, che si
smarriva; di Salvatore, che ogni giorno più diventava ludibrio
della moglie! Era un dovere da compiersi a beneficio di tutti, e
Germana tornò al suo tavolo da lavoro decisissima a troncare
ogni indugio. Parlerebbe la sera stessa al fidanzato e si varrebbe
della fiacca malleabilità del carattere di lui per imporglisi
e trarlo, sia pure a suo dispetto, da quel viluppo di rovi; forse
ella aveva ingigantito le cose, mirandole attraverso il prisma della
fantasia agitata, forse l'intesa colpevole che a lei pareva di
scorgere in ciascuna parola, in ciascun volger di ciglio scambiati
fra Eva ed Aldo proveniva dai modi abitualmente lusinghieri di lei e
dalla preoccupazione in lui costante di rendersi a tutti gradito.
Zeffira
entrò, avviandosi frettolosa verso la finestra, che chiuse con
fracasso e Germana, seccata, alzò la faccia dal libro
– Chi
ti ha detto di chiudere? A me piace l'aria della sera.
– Già;
ma la signora di là sente freddo.
La voce di
Eva, morbida e piena, giunse dalla stanza attigua.
– Zeffira,
e la frutta?
– Ma
che cosa fa mia cognata? – domandò Germana.
– Pranza
– rispose Zeffira. – Il signore è in ritardo
questa sera e la signora sentiva fame.
La voce
morbida e piena, indugiandosi mollemente su le vocali, giunse di
nuovo:
– Zeffira,
dunque?
Germana
rimase, col viso appoggiato alla palma, intenta a fissare una vecchia
incisione in rame, chiusa dentro una cornice nera ed appesa di fronte
a lei, sulla parete. Era un dono dell'avvocato Camillo Brizzi. Dio!
quanti doni faceva a sua cognata l'avvocato Camillo Brizzi! Germana
volle distogliersi da tale pensiero come ci si distoglie da uno
spettacolo nauseabondo; sapeva bene che, pensando all'avvocato
Camillo Brizzi, alle sue visite cotidiane, a' suoi doni frequenti,
alle gratificazioni vistose ch'egli largiva a Salvatore, si sarebbe
ammassata in lei una grande, fosca ombra ad ottenebrare l'immagine
dell'unico fratello che essa amava con riconoscenza e ch'essa voleva,
disperatamente voleva, rispettare.
E perchè
non avrebbe dovuto rispettarlo?
Salvatore
non era forse intelligente ed attivo e non bastavano forse la sua
intelligenza e la sua attività a renderlo degno del posto di
fiducia a lui affidato dal Brizzi nella vasta azienda, e meritevole
del largo stipendio, delle vistose gratificazioni? E se l'avvocato
Brizzi veniva spesso in casa, non era egli forse l'amico di Salvatore
anche prima che Salvatore sposasse Eva?
I doni? Dio
mio! era forse un mezzo di sdebitarsi per i frequenti inviti a
pranzo, per le cortesie, per la devozione di Salvatore, il quale
dedicava allo studio dell'avvocato Brizzi tutte le proprie energie,
facendolo prosperare. Questo Eva asseriva, questo ripeteva Salvatore,
questo confermava Aldo, questo proclamava Zeffira e perchè
dunque anche Germana non avrebbe dovuto riposarsi in una così
confortevole supposizione? Crollò il capo per non più
meditare e stava per alzarsi, quando Eva entrò preceduta dal
fruscio delle sue vesti. Germana allora volle nuovamente assorbirsi
nella lettura, ma la collera si addensava in lei, facendole velo allo
sguardo, scuotendole di tremito convulso la mano. Accadeva sempre
così.
Il profumo
che Eva esalava intorno a sè dalle ciocche lucenti dei capelli
e da ogni poro della cute bianchissima, provocava in Germana un senso
di ribellione irosa, quasichè in quel profumo sottile, appena
percettibile, si chiudesse l'essenza di un veleno per la cui virtù
malefica ogni vigore di bontà dovesse spegnersi, ogni più
salda tempra di volontà dovesse spezzarsi.
Eva si chinò
amabilmente sopra la spalla della cognata e le disse:
– Smetti
di sciuparti gli occhi; non diventare troppo sapiente – e,
ridendo, coprì con la mano scintillante di gemme le pagine del
libro.
Germana si
alzò di scatto, poi si pentì del proprio impeto e
rimase in piedi con la testa gettata all'indietro. I capelli biondi,
dalle forti radici e rialzati in giro, davano una espressione di
fierezza eroica al viso graziosamente minuto nelle fattezze e roseo
delicatamente.
Eva si
accostò alla parete per contemplare più da vicino le
figure della vecchia incisione e Germana, immota dietro di lei, ne
scrutava il volume ampio dei capelli attorcigliati, la sfilatura
agile del busto, la grazia sicura dei fianchi, il bizzarro taglio
della veste rossa che, scendendo a tunica di sotto le ascelle, si
snodava in morbide spire sul rosso più acceso del tappeto;
Germana scrutava la cognata profondamente, quasi per ricercare nella
persona di lei una conferma definitiva de' suoi sospetti, ovvero
qualche indizio che i sospetti annientasse.
Eva si mise
a ridere, volgendo indietro la testa, mostrando la faccia, che, vista
così di profilo, aveva qualche cosa di animalesco nella bocca
dischiusa e carnosa, nel giro della risplendente dentatura.
– Perchè
ridi? – Germana le domandò involontariamente aggressiva.
– Perchè
gli uomini distesi sotto quest'albero – e indicava l'incisione
– sono ridicoli. Guarda. Uno agita le braccia e le gambe come
un burattino; l'altro annaspa come se volesse nuotare fra l'erba; un
altro ha il codino della parrucca attorcigliato intorno al collo; un
altro barcolla come ubbriaco.
– Non
vedi? – Germana disse. – Quegli uomini stanno morendo e
si contorcono nelle convulsioni dell'agonia.
– È
vero, è vero, non lo avevo osservato ancora! Ma perchè
muoiono?
– Perchè
si sono distesi all'ombra di un albero velenoso. È un albero
che cresce nell'isola di Giava.
– Allora
sono stupidi – Eva disse ed annoiata cambiò discorso.
– Vuoi
andare questa sera al teatro Nazionale? L'avvocato Brizzi mi ha
promesso un palco.
– E
tu? – Germana domandò, fissandola.
Eva rispose
placidamente:
– Io
sono stanca, e poi non capisco bene il francese e mi annoierei,
mentre per te sarebbe interessante sentire in francese La
Signora delle camelie.
– Grazie,
non posso – Germana rispose, forzandosi di non rivelare nel
suono della voce lo spasimo che le dilaniava il petto. Oh! era
evidente! La cognata voleva restar sola in casa per intrattenersi con
Aldo! Ma ella non asseconderebbe il giuoco.
– Se è
per il tuo fidanzato che vuoi restare in casa, posso mandartelo a
teatro appena arriverà.
– No,
grazie – ripetè Germana. – Alle nove ho impegno
qui di sopra, al terzo piano, per dare una lezione. Dovresti saperlo;
oggi è lunedì.
– È
giusto, non ricordavo. Si tratta di una lezione vantaggiosa, che tu
non devi trascurare.
Germana le
si avvicinò fremente per gridarle in faccia tutto il suo
dolore, tutta la sua collera; ma dall'anticamera giunse il rumore di
una porta sbattuta ed Eva esclamò gioiosa:
– Oh!
finalmente, ecco Salvatore.
– Già,
ecco Salvatore – disse Germana con un sospiro di rassegnazione
e si lasciò cadere quasi affranta sopra una seggiola,
intrecciando le mani e torcendole forte, mentre Salvatore entrava,
buttando sul tavolo il cappello.
– Buona
sera, Germana. Dove sta mia moglie?
Era
abitualmente questa la prima domanda ch'egli faceva nell'entrare in
casa.
– Dove
sta mia moglie?
– Non
so, era qui proprio adesso – Germana disse.
Una risata
squillò di tra le pieghe della portiera.
– Dunque
non sei fuggita? – Salvatore disse allegramente, e, poichè
Germana voltava le spalle, egli prese la moglie nelle braccia e,
furtivo, le baciò con passione i capelli odorosi.
Eva gli
dette un piccolo strappo alla barba nera, si allungò sulla
punta dei piedi per mordicchiargli scherzosa il lobo dell'orecchio,
poi si divincolò rapida e disse con accento di rimprovero:
– Perchè
un'ora di ritardo questa sera?
– Che
cosa vuoi? Allo studio mi hanno soprannominato locomotiva; dunque io
non posso arrivare in orario – e rise abbondantemente della
propria facezia.
– Sta
bene; ma io ho già pranzato. Avevo fame.
Un lampo di
beatitudine brillò negli occhi lucenti di Salvatore, che si
sprofondò le mani nelle tasche, simulando ira:
– Ah!
Sì! Tu hai mangiato? E io? Che cosa troverò io sopra la
tavola?
– Non
tremare; sono stata coscienziosa. Ho divorato appena i due terzi del
pranzo.
Salvatore
rise di nuovo con fragore, scuotendo la moglie per le braccia e
frenando la voglia di sollevarla a guisa di una bamboletta bella,
poichè Germana adesso li guardava ed egli risentiva grande
soggezione della sorellina, che indovinava ostile a sua moglie,
ostile sopratutto alle espansioni a cui egli avrebbe voluto
abbandonarsi con Eva al cospetto dell'universo, tanto gli appariva
irresistibile e tanto si gloriava di amarla nell'annichilimento
completo della volontà propria e della propria personalità.
– Mia
moglie è una donnina piena di difetti nel fisico e nel morale
– aveva egli l'abitudine di ripetere con umiltà
orgogliosa. – Ha il nasetto a punta, due piccoli baffettini da
studente ginnasiale; camminando fa la ruota come un pavone, parla
cantando, ha tanti fori nelle piccole mani di dove il denaro fugge
come l'acqua; è un vero cagnolino ringhioso quando mangia, Dio
liberi stuzzicarla quando dorme, ha sempre una riserva di capriccetti
costosi da soddisfare, eppure io non cederei l'unghia del suo mignolo
per l'intero corpo della Venere capitolina.
Nonostante
voleva che anche la sorella avesse la sua porzione di affettuosità,
onde le si avvicinò e le posò la mano larga sopra la
testa.
– E
tu? Che cosa mi dici tu?
Che cosa
avrebbe potuto dirgli Germana?
Ella si
sapeva estranea, lontana dal cuore di suo fratello. Dunque rispose:
– Io?
Ho aspettato che tu venissi per andare a pranzo.
– Ah!
tu! Che ragazza d'oro. – Ma si capiva ch'egli era più
riconoscente alla moglie di aver avuto fame e di avere mangiato che
alla sorella di averlo atteso, come era più riconoscente ad
Eva di spillargli danaro che alla sorella di porgergli regolarmente
ogni mese un biglietto da cento lire.
Salvatore
rimaneva umiliato per la fierezza di Germana quasi per una
menomazione della sua dignità maschile, mentre il cuore gli si
gonfiava di orgoglio, allorchè Eva con gesti di malizia gli
faceva scivolare nella tasca qualche noticina da saldare.
L'avvocato
Camillo Brizzi entrò come persona di famiglia, depose un
fascicolo che teneva in mano e salutò col suo fare deciso di
persona abituata all'ossequio; poi disse, togliendosi i guanti:
– Dunque
si va a lacrimare sui vecchi malanni di Margherita Gautier?
Salvatore,
che non capiva, guardò la moglie.
– Sì,
sì – Eva spiegò – Questa sera, al
Nazionale, una troupe
francese recita la Signora delle Camelie.
L'avvocato ci favorisce un palco.
– Allora,
dovendo lacrimare, è prudente mettere combustibile alla
macchina – Salvatore esclamò gravemente e, presa Germana
per un braccio, le disse con enfasi: – Alla greppia, sorellina.
L'avvocato
Camillo Brizzi sedette sul divano e attese che Eva gli sedesse
accanto; ma Eva, in piedi all'angolo opposto del salotto, sfogliava
un album illustrato e canticchiava sottovoce:
– Alfredo,
Alfredo di questo cuore...
L'avvocato
Brizzi, dopo averla contemplata a lungo coi tondi occhi a fior di
testa, sentì forse di avere caldo, perchè si fece vento
col fazzoletto odoroso cifrato a ricami, e, mostrando i risvolti di
seta dello smoking, disse:
– Io
sono già in abito da sera.
– Ah!
sì? disse Eva e seguitò a canticchiare:
Non puoi
comprendere qual sia l'amore...
– Non
ho nemmeno finito di pranzare e ho avuto una scenata con mia moglie
per essere qui prima del tempo – e l'avvocato attese, poi
soggiunse:
– La
scatola dei profumi ti è arrivata?
– Sì,
grazie.
– Ho
scelto quanto c'era di meglio – e attese di nuovo.
Eva, più
che mai assorta nella contemplazione dell'album, domandò
all'improvviso:
– Ma
che differenza passa fra una piramide di Egitto e la piramide di Cajo
Cestio?
Camillo
balzò in piedi, agitando forte per ira la grossa testa
ricciuta d'imperatore romano ed avvicinatosi ad Eva le disse a bassa
voce, ma con brutale accento di comando:
– La
differenza che passa fra un imbecille che si lascia menare per il
naso – e indicò coll'occhio la porta del salotto da
pranzo.
– E un
imbecille che crede di menare per il naso gli altri – Eva
interruppe pronta, chiudendo l'album e guardando bene in faccia
l'avvocato che, ansimante per l'impeto compresso della rabbia, le
impose:
– Vatti
a vestire. È tardi.
– Vestire?
E perchè?
– Non
vorrai, immagino, presentarti così in un palco di prima fila?
– E
chi ti dice che io voglia presentarmi in un palco di prima fila o di
ultima?
– Allora
perchè mi hai telefonato oggi chiedendomi di procurarti un
palco?
– Per
mia cognata. Quando recitano in francese mia cognata impara e si
diverte. Almeno così dice.
– Tua
cognata? Per le gentilezze che mi usa tua cognata! Alle corte, vatti
a preparare.
Eva si
riannodò con cura un nastro allentato della vestaglia; Camillo
diventò supplice e abbassò ancora la voce:
– Non
tormentarmi, Eva! Io sono fra le spine per causa tua. In famiglia ho
sospetti, rimbrotti... Allo studio trascuro gli affari per occuparmi
di te e sorvegliarti.
– Ah!
dunque è vero che mi vai spiando? – Eva chiese, dopo
avere scrutato rapida con l'occhio verso il salotto da pranzo.
Rughe di
corruccio le solcavano la fronte e le concentravano in viso una
espressione chiusa di volontà ribelle.
– Sì,
è vero; ti sorveglio, perchè non ammetto di essere
scambiato per un imbecille e guai...
Salvatore
entrò, sorbendo il caffè; Eva gli mosse incontro e un
velo di soavità le rese amabile lo sguardo, sorridente la
bocca.
– Hai
fatto così presto a mangiare?
– E
già! se non ci fosse il lavorìo lungo, spesso
difficile, della digestione, non varrebbe la pena di sudar dieci ore
per guadagnare quello che si divora in dieci minuti. Che cosa ne
pensa lei, avvocato?
Camillo
accese una sigaretta.
– Sicuramente,
sicuramente – ed inghiottiva il fumo per impedire che parole di
violenza gli uscissero dalle labbra.
Anche
Salvatore chiese ad Eva, stupito:
– Non
vai a vestirti? È tardi.
– No,
sono stanca e poi capisco male il francese.
– Benissimo
– Salvatore disse, vuotando di un sorso la tazzina, – tu
non capisci il francese; Germana, che lo capisce, ha un impegno.
Allora vuol dire che l'avvocato e io ci abbandoneremo alle dolcezze
di un tête-à-tête.
Tra un gemito e l'altro di Margherita parleremo di affari – e,
quantunque fosse ben certo di annoiarsi prodigiosamente, si
rassegnava di buon umore per non mostrarsi incivile coll'avvocato
Brizzi, che, preso al laccio, dovè attendere solo in salotto
che Salvatore cambiasse di abiti e poscia andarsene col marito,
scortato fino alla porta d'ingresso dalla signora, giubilante per
essersi liberata di un sul colpo della legge e dell'extra.
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