II.
Aldo Nini
arrivò mezz'ora dopo e Germana, pallidissima, gli disse a capo
chino:
– Bisogna
che io ti parli, Aldo.
– Son
qua – Aldo rispose – Che cosa vuoi dirmi?
Ella ripetè:
– Bisogna
che io ti parli.
Aldo si mise
a ridere per nascondere il proprio imbarazzo.
– Mi
pare l'esordio di una scena madre.
– Ed è
infatti un dramma, un vero dramma, Aldo, che si svolge in me.
Aldo con
docilità prese posto sul divano e posò le palme sopra i
ginocchi, fissando i rabeschi del tappeto. Egli odiava le
complicazioni ed i lunghi discorsi; desiderava che tutti fossero
contenti nella vita, a cominciare da se stesso, e gli accadeva
frequentemente di trovarsi nel folto di un ginepraio per la
preoccupazione appunto di evitare a sè e ad altri la più
lieve scalfitura.
Allora,
quando si sentiva pungere da tutte le parti, diventava crudele e, pur
di liberarsi, non badava affatto se i rovi si conficcassero nelle
altrui carni. Faceva pratica nello studio dell'avvocato Brizzi e si
trovava alle dipendenze di Salvatore Tindari, che lo aveva presentato
in famiglia. Germana gli era piaciuta; l'aveva giudicata energica,
attiva, intelligente, amorosa e l'aveva chiesta in moglie, a lunga
scadenza, per avere il tempo di formarsi una posizione solida;
frequentando la casa assiduamente aveva, a poco a poco, trovato Eva
più interessante di Germana, più facile allo scherzo,
più pronta a rispondere con occhiate maliziose a maliziose
interrogazioni, più ricercata nelle vesti, più molle,
più duttile, e una leggera ebbrezza lo aveva vinto,
constatando che la giovane signora si compiaceva arretirlo nei fili
del suo fascino, adornandosi dei colori a lui preferiti, suonando la
musica a lui più gradita, ascoltandolo seria quando egli
parlava di cose gravi, secondandolo in ogni opinione, appoggiandosi
a' suoi giudizi. E poichè egli non commetteva niente di male,
poichè si limitava a una schermaglia pericolosa, ma tuttora
innocente, poichè egli rimaneva fisso nel proposito di sposare
Germana, o prima o poi, gli sembrava che non valesse la pena
d'intragediarsi, com'egli diceva, seccato, con parola di sua
invenzione. Da qualche tempo invece Germana lo intragediava
senza misura nè discernimento, e ciò lo staccava da lei
ogni giorno più.
– Dunque
che cosa pensi di fare? – Germana domandò.
Egli,
immobile e continuando a fissare il tappeto, rispose:
– Penso
di restar qui un'oretta e poi andare a cena.
Germana
esclamò con amarezza:
– Beato
te che hai voglia di scherzare.
– No,
ti sbagli e, in ogni m o d o, tu me l'avresti già fatta andar
via la voglia di scherzare.
– Dunque
che decisione vuoi prendere?
– A
proposito di che cosa?
Germana
rimase perplessa. Era strano come, parlando, le cose s'impiccolivano.
Lo spasimo atroce della gelosia perdurava, ma i fantasmi della mente
cambiavano di proporzioni e diventavano grotteschi.
– A
proposito di me – ella disse – Non capisci che io soffro?
– Capisco
che ti diverti a tormentarmi. Bada che qualche volta, a forza di
parole, si fa nascere quello che non esiste.
Germana
perdè la testa.
– Vedi?
Vedi? Tu stesso ammetti la possibilità.
– La
possibilità di che cosa?
– Di
quello che tu non dici, che io non dico e che pensiamo in questo
momento.
– Non
ti capisco e non desidero affatto di capirti.
– Allora
mi spiegherò meglio. Io soffro, divento malvagia e mi
inasprisco.
– Sta
bene – disse Aldo impazientito – interromperò le
mie visite.
– Già,
per vedervi altrove.
L'accusa era
falsa, Aldo protestò impetuosamente.
– Con
questi criteri tu manderesti in galera la giustizia in persona.
Calunniare è disonesto.
– Tu
difendi mia cognata; vedi che la difendi?
– Sì,
la difendo – egli disse avanzandosi di un passo verso di lei. –
Mi ripugna sentire accuse false.
– Allora
tu non sai chi è quella donna! – Germana disse con
passione – Oh! se tu la conoscessi bene, se tu sapessi ...
– Non
so niente, non voglio saper niente.
Aldo
interruppe concitato, mentre Germana rompeva in singhiozzi, piena di
umiliazione e di spavento per quanto si era lasciata sfuggire dalle
labbra.
– No,
no, così non può durare – ella disse nel pianto.
– È umiliante, è contrario alla mia dignità
– ed asciugò le gote con rapido gesto, sentendo che la
cognata si avvicinava.
Eva,
sorridente e fresca, porse la mano al giovane, poi disse a Germana:
– La
signora Gerbi ha mandato a domandare di te; sei in ritardo di un
quarto d'ora per la tua lezione.
Germana
prese dal tavolo una grammatica francese e si avviò verso la
porta, senza nemmeno salutare; ma, sul punto di varcare la soglia,
tornò indietro e, stringendo i denti con l'espressione
disperata di un ferito che si strappi le bende per abbreviarsi lo
strazio dell'agonia, disse al fidanzato:
– Dunque
siamo intesi, Aldo. Tra noi è finito, finito per sempre. Tu
perdi molto, io perdo tutto; rimango sola; ma non importa, voglio che
sia così – e attese convulsa, nella speranza che il
fidanzato insorgesse contro di lei, ribellandosi alla sua decisione.
Il fidanzato
invece, con viso apatico e voce di forzata compunzione, rispose:
– Io
non posso obbligarti a mantenere la tua parola; mi basta di essere
pronto a mantenere la mia.
– No,
no, tutto è finito – Germana ripetè e fuggì
dal salotto come se il pavimento stesse per isprofondare. Non salì
al terzo piano, perchè dalle altre stanze giunse rumore di
usci aperti e rinchiusi con furia e la eco di un singhiozzare
soffocato.
– Vi
bisticciate sempre voialtri – disse Eva, abbandonandosi nella
seggiola a dondolo e cullandosi pian piano. Il cuscino di raso giallo
formava raggiera intorno ai capelli scuri ed alla faccia alabastrina,
mentre di tra il volume ammassato della vestaglia rossa, i piccoli
piedi facevano capolino, apparendo, scomparendo, a guisa di bimbi
allegri e maliziosi.
Aldo la
contemplava e non sapeva se andarsene o mettersi a sedere; Eva lo
sbirciò con espressione di pietà canzonatoria.
– Lei
mi sembra don Bartolo; sembra una statua.
Aldo si mise
a ridere per darsi contegno.
– Capirà,
dopo simili burrasche.
– Collere
d'innamorati, acquazzoni di agosto – disse Eva – Il
sereno torna subito.
– No,
è finito: Germana lo ha dichiarato ed io sottoscrivo.
– Ma
perchè questa catastrofe? – Eva domandò, tenendo
il mento inchiodato sul petto per nascondere il lampeggio delle
mobili pupille.
– Per
chimere.
– È
gelosa?
– Pare.
– Di
chi è gelosa?
Aldo le
sedette accanto.
– Di
tutto, di tutte. Dà corpo alle ombre.
Eva si girò
sopra un fianco con l'atto di una serpe che si snodi al sole e,
facendo con le dita un lieve cenno di richiamo verso Aldo, bisbigliò
scherzosamente misteriosa:
– Pst!
Pst! senta; voglio confidarle un secreto.
Aldo piegò
il busto per accostarle al viso l'orecchio ed ella mormorò con
una risatina lunga, velata:
– È
gelosa di me – poi, rapida, tornò a ricollocarsi supina
e ricominciò a dondolarsi:
– Non
è così?
– È
proprio così.
– Lei
doveva giurarglielo che noi siamo limpidi come due bicchieri d'acqua
pura.
– Non
mi ha creduto.
– Allora
doveva convincerla, dimostrandole ch'essa è più bella,
più giovane, più intelligente, più istruita, più
buona di me.
Aldo crollò
il capo:
– Perchè
tante bugie?
– Bugie?
– esclamò Eva, sollevandosi un poco. – Allora
significa che lei non ha occhi per vedere. Ci confronti bene e si
convincerà. Mia cognata è più alta, più
snella di me; ha le fattezze più delicate; guadagna con le sue
lezioni lo stipendio di un uomo, non è civetta, mentre io...
Ho più difetti che capelli, sa.
– Può
darsi che quanto lei dice sia vero – Aldo rispose con un
sospiro – Può darsi che lei sia un campionario vivente
di tutti i difetti umani; ma allora mi spieghi... – ed esitò,
preso da un turbamento così forte che le mani gli tremavano e
una nube punteggiata di bagliori scendeva a confondergli intorno gli
oggetti.
– Avanti
prosegua. Che cosa dovrei spiegare? – la signora interrogò,
anch'ella turbata, anch'ella arretita da un fascino più
potente della sua vigile civetteria.
– Mi
spieghi come, non ostante tanti difetti, lei riesca a farsi adorare,
lei sembri buona fra le buone, bella fra le belle. Vede? Quella
poverina di là si sta martoriando per causa mia. Ebbene, è
assurdo, è malvagio, ma io non ne provo nessuna pietà,
mentre se lei piangesse, mi pare che darei la mia vita per
consolarla.
Eva disse
con voce indugiante, soavissima:
– Bambino,
bambino, lei è un vero bambino – e lo dissolveva di
dolcezza col tremolio delle pupille natanti per languore.
Si udì
il campanello della porta d'ingresso chiamare con rullìo
breve, imperioso. Entrambi sorsero in piedi, pronti, ed Aldo prese in
fretta il cappello.
– Non
perda il sonno, non si disperi; tutto si accomoderà –
Eva disse a voce ben alta, acciocchè nell'anticamera si
udissero le sue parole.
– Tante
grazie, Signora – Aldo rispose, anch'egli alzando molto la
voce, ed uscì dal salotto, in quella appunto che l'avvocato
Brizzi entrava, scusandosi:
– Ho
dimenticato qui un fascicolo importante. Mi sono permesso di venirlo
a riprendere fra un atto e l'altro.
I due
avvocati si scambiarono un saluto eccessivamente cerimonioso e breve;
poscia Aldo se ne andò, la porta fu chiusa ed Eva, prendendo
dalla mensola il fascicolo della rivista, lo gettò sul tavolo
davanti a Camillo.
– Ecco
il fascicolo dimenticato per avere una scusa di tornare. Non è
una trovata originale, ma riesce ugualmente.
– Riesce
perchè ti conosco. Avevo la certezza di sorprenderti con
quell'imbecille.
Eva rimase
in piedi per obbligar l'avvocato Brizzi ad abbreviare la sua visita;
ma egli si buttò a sedere sul divano e si strappò i
guanti, lacerandoli. Soffocava, i baffi rossi, arricciati a punta,
tremavano al soffio affannoso del suo respiro, i folti riccioli
impomatati serbavano in giro la traccia del cappello, certo calzato
in testa poc'anzi con furore. Trasse di tasca il fazzoletto e si
asciugò la fronte madida. Finalmente disse:
– Avevo
la sicurezza di trovarvi soli. Ti sei incapricciata di lui; è
chiaro. – Un piccolo sbadiglio dischiuse appena la bocca di Eva
e la bocca somigliò al frutto maturo del melograno.
Camillo
balzò in piedi al colmo della esasperazione:
– Tu
sbadigli?
– Oh
Dio! te ne chiedo scusa; ma è tardi, ho sonno.
– Sei
una perfetta incosciente. Porti il disastro intorno a te e nemmeno te
ne dai per intesa.
Ella
interruppe con accento di fastidio
– Somigli
a mia cognata con i tuoi paroloni.
– Già,
mi servo dei paroloni di tua cognata, perchè soffriamo della
stessa pena. Siamo gelosi; vediamo, non siamo ciechi come tuo marito.
Oh! il cretino! Ma finirò col restituirgli la vista io!
La persona
di Eva dette un guizzo; ella si eresse minacciosa sul busto, il viso
bianco divenne più bianco e il profilo diventò
tagliente.
– Mio
marito lascialo stare; non voglio che soffra.
– Quanta
tenerezza – Camillo disse, beffardo, – Ingannalo meno
allora.
– Lo
inganno, ma lo stimo; lo inganno, ma voglio la sua pace – ella
esclamò con appassionato impeto sincero – È
migliore di tutti noi; è il solo che mi ami per me stessa.
Quando ti vedo accanto a lui ti odio e ti disprezzo; quando ride e mi
guarda vorrei che mi battesse tanto mi sento indegna. Maltrattami
dunque e sorvegliami, purchè mio marito rimanga nella sua
pace.
– È
naturale, si spiega. La sua pace è la tua – Camillo
disse, abbottonandosi il soprabito; poi sbottonandoselo subito di
nuovo.
Eva si
strinse nelle spalle.
– Non
puoi capirmi tu.
– Oh!
ti sbagli; anzi ti capisco benissimo. La tranquillità è
un tesoro. So io quanto valga; io che l'ho perduta per causa tua. La
mia casa è un inferno. Lacrime, sospetti, controlli sul
danaro, che entra e che esce! Un inferno, ti dico! Ho il mio secondo
bambino con la febbre e questa sera non ho aspettato nemmeno il
medico per correre qui nella paura che l'altro ci fosse. Mi hai
avvelenato l'esistenza.
Ella rispose
pacata:
– Hai
torto di accusare me se il veleno ti piace. Perchè trascuri la
tua famiglia e ti occupi dei fatti miei? Per il tuo piacere. Siete
originali voi uomini! Cercate, pagandolo a caro prezzo, il vostro
danno e poi vi lamentate. Come l'ubbriaco che inveisce contro la
bottiglia dopo averla vuotata. –
Il Brizzi la
guardava con occhio di spavento, mentre essa diceva queste cose con
ironia placida, facendosi girare intorno al polso il sottile
braccialetto d'oro, indugiandosi a lungo con la voce sopra le
sillabe, ridendo a scatti con risatine brevi, consapevole della sua
onnipotenza, orgogliosa di strapparsi d'attorno il velo d'ogni
illusione per mostrarsi nella sua nudità morale e farsi
accettare così com'ella era, tanto più dispotica quanto
più l'abiezione altrui le appariva incurabile ed evidente.
L'avvocato Brizzi, guardandola, ascoltandola, aveva creduto ascoltare
il grido della sua propria coscienza, ond'ebbe un lampo di lucidezza
e di volontà. Prese il cappello per andarsene, decisissimo a
non più tornare.
– Buona
notte – egli disse.
– Così
mi lasci? – Eva mormorò, improvvisamente dolce e umile –
Hai il coraggio di lasciarmi così? – e gli posò
le mani sopra le spalle, gettando indietro la testa, mostrandogli nel
riso breve la freschezza delle gengive.
Camillo
tentò svincolarsi con furia brutale – No, lasciami. Hai
ragione tu; non bisogna ubbriacarsi.
– Sciocco
– ella disse. – Ama la tua donnina e non pensare ad
altro.
– Ma
quel ragazzaccio? – egli chiese con ansia rinnovata.
– Sciocco,
sei sciocco – ella ripetè, crollando il capo.
– Giurami
che non mi tradisci.
– Ti
giuro di no, quantunque tu meriteresti che fosse.
– Ti
aspetterò domani. Verrai?
– Forse.
– Verrai?
– Forse.
Lo sospinse
adagio fuori del salotto e tutta soavità, tutta sorrisi,
attese nell'anticamera che la porta gli si richiudesse finalmente
dietro le spalle.
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