III.
Di solito i
giovani degli avvocati sono vecchi, eppure Giuseppe era giovane, ma
di una giovinezza così meschina e cauta, così povera di
vita, così impacciata e vincolata di timori che nello studio
lo chiamavano Giuseppe di Arimatea, quantunque egli non possedesse nè
balsami, nè lini; anzi di lini doveva soffrire tormentosa
penuria a giudicarne almeno dalla parsimonia del goletto, appena
visibile, e dalla bianchezza equivoca dei polsini alquanto
sfilacciati. In compenso egli abbondava nel soprabito, di cui le
falde gli scendevano fin sotto i polpacci, e abbondava sopratutto nei
pantaloni, che dopo essersi accartocciati sul ventre in molteplici
pieghe, si gonfiavano a guisa di palloni intorno ai ginocchi e
scendevano ad ammucchiarsi sul davanti delle scarpe.
Il buon
Giuseppe si ritirava, si raggrinzava, si teneva chiuso dentro i suoi
panni, come una lumaca dentro il suo guscio, ed assumeva veramente
l'aspetto di una lumaca quando, chiamato a suon di campanello
elettrico dal signor principale, spingeva e ritraeva con piccoli
guizzi la testa di tra il pertugio dell'uscio socchiuso.
Nella stanza
d'ingresso, attraverso un'ampia vetrata di cristalli opachi, il sole
formava una larga striscia luminosa piena di atomi turbinanti e la
striscia lambiva gli orli del tavolo dinanzi a cui Giuseppe stava
seduto e gli atomi turbinavano intorno all'attaccapanni di mogano
dove molti cappelli stavano appesi. In mezzo all'odore umidiccio
delle vecchie carte ammassate negli scaffali, un odore indistinto
circolava; forse la traccia di qualche mazzolino di viole portate
all'occhiello da qualche cliente, forse il soffio vagante della
primavera che, piena di vezzi e malizie, spingeva l'alito odoroso
fino tra i tarli delle carte ingiallite, fin dentro le nari del
povero Giuseppe di Arimatea.
Nonpertanto
tutte le stanze dello studio erano immerse in silenzio glaciale e la
penna tremava nelle dita contratte di Giuseppe.
L'avvocato
Brizzi era entrato poco prima gelido e vorticoso come vento di
tramontana. La sua voce incollerita aveva echeggiato dall'una
all'altra stanza ed egli si era chiuso nel proprio gabinetto,
sbattendo l'uscio così forte che i cristalli delle finestre
avevano tinnito lungamente. Al suo passaggio tempestoso Giuseppe si
era alzato in piedi e, poichè doveva trasmettergli
un'ambasciata di urgenza, aveva tentato di balbettare:
– Scusi
tanto, signor avvocato... – ma il signor avvocato, girando
verso di lui con minaccia que' suoi occhi tondi a fior di testa,
aveva gridato:
– Niente,
niente, non voglio sentir niente – e Giuseppe era rimasto con
le spalle curve come per evitare gl'impeti di una raffica. A ogni
modo bisognava decidersi; la signora in persona era salita poc'anzi
in cerca di suo marito.
– Me
lo mandi a casa immediatamente, appena torna – aveva ripetuto
due o tre volte la Signora affannosamente e intanto Giuseppe rimaneva
lì in piedi a guardare la striscia luminosa con occhio di
ebete. Dopo lunghi sospiri e camminando sulla punta dei piedi, egli
andò a picchiare cautamente alla porta del signor direttore,
poscia entrò, rimanendo presso la soglia per prudenza e
discrezione.
L'avvocato
Brizzi, seduto davanti alla scrivania, teneva all'orecchio il tubo
del telefono e ascoltava con impazienza irosa.
– Se
un consulto ti pare necessario, si faccia... No, non mi hanno detto
niente. Sta bene; fra poco verrò, dal momento che per una
febbre tu metti l'universo a soqquadro – e, tolta la
comunicazione, si rivolse a Giuseppe con viso di basilisco.
– Come?
La mia signora viene qui a cercarmi e lei non me lo dice?
– Ma
io, signor avvocato...
– Lei
non fa il suo dovere; nessuno fa il suo dovere qui dentro...
– Sissignore,
ma io, quando lei è entrato.
– Ma
che entrato, ma che uscito. Lei sta a quel posto per trasmettere le
ambasciate.
– Sissignore,
ma lei quando è entrato...
Camillo
Brizzi stava per investire con parole violente il disgraziato giovane
di studio, ma si contenne a tempo, comprendendo che si sarebbe
coperto di ridicolo. Cominciò a frugare, senza ragione, fra
lettere e carte, poi domandò con voce dove l'ansia, quantunque
dominata, vibrava:
– L'avvocato
Nini è all'ufficio?
– Non
saprei – Giuseppe rispose, facendosi più umile e
indietreggiando, a ogni risposta, di un passo verso l'uscita.
– Non
saprei, signor avvocato...
– Ebbene,
me lo mandi subito.
L'avvocato
Nini non c'era e Giuseppe, ricomparendo annunziò:
– Nossignore,
l'avvocato Nini non è ancora venuto all'ufficio.
Parve che la
terra si inabissasse. L'avvocato Brizzi guardò intorno con
pupille dilatate, il respiro gli divenne breve, un'onda porporina gli
coperse la fronte, e le nari gli si gonfiarono smisuratamente; poi,
osservando che il giovane di studio lo contemplava con occhi di
stupore e spavento, tentò nascondere sotto le apparenze della
collera gli spasimi della furente gelosia. Battè col pugno sul
tavolo e balzò in piedi.
– Non
c'è? Come? Non c'è? L'orario a che cosa serve? Questa è
una baraonda, una baraonda – e adunò, poi sparpagliò
il mucchio delle carte ammassate. Piccole nubi di polvere si
sollevarono; il ferma carte di cristallo sfaccettato, sospinto con
furia, andò a immergersi nella luminosità di un raggio
di sole e mandò faville a guisa di metallo incandescente.
All'avvocato
Brizzi parve che in ogni sfaccettatura brillasse il tremolio di una
pupilla malvagia e schernitrice. Credeva d'impazzire.
– Eccolo,
eccolo – gridò Giuseppe con voce gioiosa, scorgendo di
tra il battente semiaperto l'avvocato Nini, che attraversava in
fretta l'anticamera.
– Eccolo
– e, chiamato il Nini, lo guardò fisso, inarcando le
ciglia, stringendo forte la bocca per indicargli burrasca e si
dileguò, richiudendo la porta con mille cautele.
I due si
trovarono di fronte. Onde invisibili di elettricità solcavano
l'atmosfera. Le finestre erano chiuse, le cortine abbassate, quattro
seggiole di sagoma massiccia, in linea presso la parete, assumevano
aspetto quasi cogitabondo nella grave loro immobilità
meditativa. Qualche cosa di animalesco tremava nelle tozze dita
dell'avvocato Brizzi, contratte a foggia di artigli; qualche cosa di
animalesco tremava intorno alla rosea bocca dell'avvocato Nini, il
quale protendeva la faccia in avanti nell'atteggiamento di fiutare
una preda.
L'istinto
irrompeva, spezzando i lacci di ogni convenzionalità sociale,
ed essi smarrivano la coscienza della individualità loro e
dell'ambiente per indietreggiare fino alle sorgenti iniziali e
generiche delle umane passioni. Non si erano scambiati una parola e
si erano intesi, non si muovevano, vinti da rigidità, eppure
sentivano quasi nelle loro carni il bruciore delle lacerazioni che
l'uno infliggeva all'altro mentalmente col desiderio ardentissimo
dell'odio. In certe situazioni gli abissi dell'anima si spalancano e
mostrano il fondo.
– Lei
è un miserabile, un miserabile – disse l'avvocato Brizzi
con voce ardente e bassa.
– Meno
di lei – l'avvocato Nini rispose, muovendo appena le labbra
sbiancate.
– Dov'è
stato fino adesso? Con chi è stato? – il Brizzi domandò,
protendendosi.
Il Nini
anche lui si curvò.
– Diventa
pazzo lei!
Eva,
quantunque assente, giganteggiava, empiva di sè la stanza,
empiva di sè i petti agitati di que' due uomini, lanciava nel
cervello del Brizzi i germi della follia, accendeva nel cuore del
Nini la fiamma distruggitrice di una passione ancora latente e quasi
ignara.
Salvatore
Tindari entrò da un uscio interno, tenendo in mano larghi
fogli di carta bollata. La giacca d'ufficio gonfia nelle tasche
laterali pel volume di parecchi fazzoletti, si apriva, sul panciotto
chiaro, a fantasia, e il bottoncino d'oro dello sparato brillava
incerto di tra il fluttuare del nero barbone. Salvatore era
infreddato maledettamente e gli occhi apparivano turgidi, rossi, come
sbattuti dal pianto; invece egli rideva del suo riso placidamente
bonario.
– Ecco
– disse – queste sono comparse che bisogna firmare subito
– e depose in ordine i fogli sopra la scrivania.
Il Brizzi ed
il Nini si erano ripresi e rimanevano di fronte in atteggiamento
ostile, ma corretto. Il Brizzi dette ai fogli bollati uno sguardo
rapido e indifferente, poi disse al Nini:
– Allora
è convenuto; lei passi all'amministrazione e si faccia
liquidare l'onorario che le spetta.
– Grazie,
glielo regalo. Una simile galera si ritrova dovunque – il Nini
rispose e, prima di uscire, si mise il cappello con mossa decisa per
significare che abbandonava lo studio immediatamente.
Il Tindari,
che non ci capiva nulla, si soffiò tre volte il naso, a
intervalli, poi domandò:
– Che
cosa va succedendo?
– Va
succedendo che io sono il padrone e che qui dentro io solo comando.
Salvatore si
mise a ridere e si ricacciò in tasca il fazzoletto.
– Le
solite sue sfuriate! Anche questa volta farò da paciere e
buona notte.
Il Tindari
infatti si era assunta la missione di cuscinetto fra l'avvocato e il
personale.
Quando il
Brizzi, un violento pletorico, scagliava licenziamenti all'impazzata,
Salvatore con una parolina a destra, un amichevole suggerimento a
sinistra, raggiustava le cose, tantochè si era convenuto nello
studio di non considerare definitive le decisioni del principale fino
a quando il Tindari, con rassegnato stringersi delle spalle, indicava
che non c'era più altro da tentare.
– È
fiacchetto, ma intelligente – Salvatore disse. –
D'altronde si formerà. Non dubiti che ci penserò io.
– Lei?
– il Brizzi esclamò con una risata amara che gli squassò
tutta la persona. – Proprio lei? – e troncò di
scatto il suo ridere come preso da pentimento e terrore.
– Che
cosa c'è di strano? l'altro chiese con meraviglia ancora
tranquilla. – Per un sì, per un no lei mi licenzia il
personale! Un po' di calma, un po' d'indulgenza, che diamine!
Il Brizzi
intanto pensava che, allontanando il Nini, si era privato del mezzo
di sorvegliarlo durante le ore di ufficio, ossia durante le ore
appunto in cui Eva poteva disporre di sè con tranquillità.
E
quell'imbecille di marito che non capiva niente, non sospettava
niente, che rimaneva lì a sciorinargli davanti con flemma
metodica il fazzoletto bianco di batista. Dal fazzoletto un profumo
esalò; il profumo di lei, della sua cute. Nubi sanguigne gli
avvolsero allora il cervello, fiotti di collera gli salirono alle
labbra irrefrenabilmente:
– Lei
mi fa ridere con la sua calma! Tocca proprio a lei consigliarmi
indulgenza in queste circostanze. Ma non capisce che è per
lei, per il suo decoro che io agisco? – e di nuovo
s'interruppe.
Il Tindari
sospettò qualchecosa e pensò alla sorella.
– Si
tratta forse di Germana? Io non so nulla. A casa mia la parola
d'ordine è di lasciarmi tranquillo. Mi dica, mi faccia il
piacere. Hanno forse prorogato l'epoca del matrimonio? Non sarebbe un
disastro, dopo tutto.
Il telefono
sulla scrivania suonò con furore ed a quel suono aspro
l'irritazione dei Brizzi raggiunse il parossismo.
– Di
qual matrimonio va parlando lei? Dunque spetta a me informarla dei
fatti della sua famiglia? Il matrimonio è andato all'aria, sua
sorella non vuol più servire da paravento, ed ha ragione.
Salvatore si
prese la barba e la strinse tutta nella mano.
– Dica,
dica, avvocato. Mi dica pure – egli ripeteva con flemma
riflessiva, come se andasse ricercando il senso nascosto nelle parole
del Brizzi.
Il
campanello suonava ininterrotto, la mano di Salvatore andava con
lentezza dal mento all'estremità della barba; quel suono,
quella cosa bianca e viva strisciante su quel nero viluppo, davano al
Brizzi un senso di vertigine.
– Guardi,
cerchi, frughi intorno, e vedrà, capirà. Perchè
dovrei aprirle gli occhi io dal momento che lei non ama la luce? –
e si portò con gesto di violenza all'orecchio il tubo del
telefono.
– Sì,
sì, vengo; ho detto di sì, perdio!
Salvatore
aveva fatto della barba un torciglione, che andava mordicchiando.
Allorchè il Brizzi ebbe tolta la comunicazione telefonica,
Salvatore si pose le mani nelle tasche dei pantaloni e disse con voce
che gli tremava:
– Adesso
mi faccia il piacere di spiegarsi chiaro – e poichè
l'altro taceva, egli insistè con più forza.
– Lei
mi è amico da anni; dunque mi faccia il piacere di spiegarsi
chiaro.
– Non
ho niente da spiegare – il Brizzi rispose ruvido, già
pentito.
Tacquero a
lungo, senza guardarsi, poi Salvatore, livido in volto, cogli occhi
approfonditi dentro le orbite, disse:
– Ha
ragione; lei mi ha spiegato anche troppo. Germana serviva da
paravento, sicuro.
– Non
dia peso alle mie parole; sa bene, io sono impulsivo.
Il Tindari,
che batteva i denti come per febbre, disse quasi con dolcezza:
– Anzi
io la ringrazio; creda, la ringrazio. Ero un uomo cieco! Ma adesso è
un altro affare.
– Per
carità, rifletta bene prima di agire – l'altro supplicò
spaventato.
– Adesso
io vedo tutto. Non ho bisogno di riflettere. Vedo, vedo. – E
riprendendo con fare di automa le carte che il Brizzi non aveva
firmato, uscì dalla stanza, mentre Camillo annichilito cercava
intorno con lo sguardo se gli fosse possibile ritrovare tangibilmente
le proprie parole e riafferrarle; ma le parole erano volate,
disseminando una irrimediabile devastazione.
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