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Clarice Tartufari
Maestra

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  • II
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II

 

All'indomani si levarono di buon'ora, quantunque il treno che doveva portare Ginevra sino a Frascati partisse solo alle dieci.

Credevano di aver tutto preveduto, eppure avevano dimenticato tante piccole spesuccie, trascurato tante di quelle inezie che divengono indispensabili nell'occasione di una partenza. Andavano, venivano con qualche oggetto in mano che deponevano su di una seggiola, dimenticando dove l'avevano lasciato e perdendo un quarto d'ora per ritrovarlo.

Avevano perduto completamente la testa; tantoché mancava poco all'ora della partenza, e Ginevra doveva ancora vestirsi.

Alla stazione gli addii furono brevi, affrettati, quasi freddi in apparenza, poiché tutti sentivano il bisogno di finirla, in quella guisa che il condannato sollecita col desiderio il momento del supplizio per abbreviare gli strazi della agonia.

Quando il treno sbuffando e fischiando, si mosse pesantemente sotto la tettoia Carlo credette di morire, e la povera Maddalena sentì al cuore una fitta così dolorosa che la fece vacillare, mentre Giuseppe andava borbottando: «Ecco che cosa ci abbiamo guadagnato a farle fare la maestra».

Maddalena affrettò il passo e, col viso chino, se ne tornò a casa, seguita da Carlo che, non sentendosi la forza di andare a lavorare, passò tutta la giornata seduto sul letticciuolo disfatto di Ginevra, in quella camera fredda e vuota che dopo la partenza della cugina era diventata la sua.

Ginevra intanto, trascinata dal vapore, colla testa appoggiata in un angolo dello scompartimento, dove trovavasi sola, provava come un vago senso di benessere, ed avrebbe voluto che quel viaggio non finisse più, che il vapore la trasportasse in paesi lontani, sconosciuti e bizzarri.

Il sole che entrava pel finestrino, scaldandole i piedi e le ginocchia, le sembrava di buonaugurio ed ella fu presa ad un tratto dal desiderio di fantasticare come quando a 15 anni frequentava il primo corso normale e passava talora tutto il tempo della ricreazione sola nella classe, colla fronte appoggiata ai vetri dell'ampio finestrone, architettando colla pazza testolina tanti castelli folgoreggianti, tante cose belle, ridenti e luminose come racconti di fate.

Tornava ottimista e le utopie già vagheggiate riprendevano per poco parvenza di realtà. Dimenticava le umiliazioni subite, i disinganni sofferti; pensava che avrebbe potuto farsi amare da' suoi piccoli alunni, farsi apprezzare dai superiori, e che in poco d'ora avrebbe trovato lodi, incoraggiamenti ed accoglienze festose dov'era stata per lo innanzi ricevuta con sussiego e freddezza; pensava che dopo breve tirocinio avrebbe potuto essere traslocata a Roma, tornare in famiglia, realizzare le speranze della mamma e farle trascorrere in una tranquilla agiatezza gli ultimi anni della vita travagliosa.

Le sue fantasticherie non si limitavano qui, e molto lontano, quasi nello sfondo di un orizzonte terso e trasparente vedeva guizzare, comparire e scomparire rapidamente nimbi dorati e figure luminose.

Non sapeva nemmeno lei che ci fosse o che cosa desiderasse in quel punto misterioso, ma era certa che laggiù trovavasi la felicità e che finalmente ella l'avrebbe raggiunta.

Fu richiamata alla realtà da una voce rauca e cadenzata che annunziava l'arrivo del treno a Frascati.

Dopo aver preso a stento con una mano la pesante valigia Ginevra scese dal vagone e si avviò verso l'uscita, volgendosi ad un impiegato per sapere dove trovavasi la diligenza che doveva condurla nel piccolo paesello a lei destinato.

Mentre aspettava che fosse pronto il veicolo primitivo si mise a passeggiare al sole, masticando alcuni biscotti comprati dal cugino prima della sua partenza, e seguitando a far cento castelli in aria, ché quella mite giornata d'autunno e l'aria balsamica che respirava influivano felicemente sul suo morale; ma quando si trovò nell'incomodo carrozzone insieme a due contadini che fumavano nella pipa e discutevano dei loro affari, mischiando al discorso esclamazioni brutali e sconcie bestemmie, quando cominciò a sentire le ossa indolenzite per gli sbalzi della carrozza e la testa assordata dal rumore delle ruote, quando l'aria si fece rigida pel tramontare del sole, Ginevra si strinse nello scialletto bigio che teneva sulle spalle e vide svanire ad una ad una tutte le larve ridenti che fino allora le avevano allietata la noia del viaggio e mitigato il dolore della separazione.

Il fumo del tabacco la soffocava.

Provò ad aprire lo sportello della carrozza, ma dovette rinchiuderlo quasi subito perché l'aria era diventata frizzante, ed anche perché i suoi compagni di viaggio ne borbottavano fra di loro.

Domandò timidamente se il paesello era lontano ancora e mise un respiro di sollievo quando uno dei contadini le rispose che starebbero poco ad arrivare. Difatto, dopo una buona mezz'ora che le sembrò lunga ed interminabile come una intiera giornata, giunsero a destinazione senza che Ginevra nemmeno se ne avvedesse, perché non avrebbe mai immaginato che quel misero gruppo di case potesse usurpare il nome di paese.

La diligenza si fermò innanzi ad una bottega dove si vendeva di tutto, dal tabacco al pane, dall'anisetta alla fettuccia, dal pepe alla carta, dalle penne al sale, allo zucchero ed ai confetti.

La padrona della bottega, tutta affaccendata a ricevere dalle mani del vetturino le provvigioni di ogni genere ch'egli le portava da Frascati, non prestò nessuna attenzione a Ginevra, che, per farsi indicare dove trovavasi la scuola, fu costretta ad entrare nella bottega, in un angolo della quale vi erano parecchi tavolini dove il medico, lo speziale, il segretario ed altre due o tre notabilità del paese passavano regolarmente una parte della serata a giuocare la solita partita od a chiacchierare sempre delle stesse cose e delle stesse persone.

L'entrata della maestra produsse un certo effetto, e i giuocatori rimasero un istante colle carte in mano per isquadrare la nuova arrivata con quello sguardo di curiosità insolente che tanto umilia ed offende.

Il medico, meno zotico degli altri, rispose a Ginevra che per la quinta volta chiedeva l'indirizzo della scuola e propose di accompagnarla; ma i suoi compagni di giuoco protestarono in coro, dicendo che la maestra poteva benissimo farsi condurre dal garzone della bottega.

La scuola trovavasi all'estremità del paese, in casa di una vecchietta, la quale, essendosi già coricata, tardò un buon quarticello prima di decidersi ad aprire.

Il pianterreno della casa era tutto occupato da una stanza piuttosto ampia che serviva di scuola e da una stanzuccia più piccola destinata alla maestra.

Ginevra licenziò il ragazzo che l'aveva accompagnata, mentre la vecchia intirizzita di freddo, le raccomandava ripetutamente di tener ben chiusa la porta e di non aprire la finestra durante la notte per paura di qualche sorpresa. Le portò un paio di lenzuola, aspettò che la nuova ospite togliesse dalla valigia ed accendesse una candela, dopo di che se ne tornò a letto, dicendole che all'indomani avrebbero guardato insieme se tutto era ben disposto.

La scuola era intieramente occupata da quattro file di banchi, da una cattedra vecchia e polverosa, un cartellone ed una lavagna. Sulla parete principale erano appesi un crocifisso tutto annerito ed un ritratto del re.

Ginevra depose il lume sulla cattedra e si mise a sedere su di un banco, terminando di mangiare i pochi biscotti che le rimanevano, il che non valse certo ad acquietarle l'appetito, ma in quel luogo ed in quell'ora dovette rassegnarsi.

«Potessi almeno dormire» disse ad alta voce ed entrò nella stanza che doveva ormai diventare la sua abituale dimora.

Quantunque abituata alla meschinità della sua casa, la poverina rimase dolorosamente sorpresa nel vedere la miseria della camera a lei destinata.

Un letto tanto grande che avrebbe potuto comodamente servire per due; un tavolo inverniciato con sopra un vecchio mobile che aveva la pretesa di somigliare ad uno specchio; due seggiole impagliate, tre o quattro chiodi disposti in fila sulla parete e che dovevano servire per appendervi i vestiti, ne formavano tutto l'arredo.

Ginevra posò la valigia su di una seggiola, fece il letto e si spogliò in fretta, parte per la stanchezza, parte per ispegnere il lume e non vedere più quelle pareti nude e giallognole che davano alla camera l'apparenza di una prigione. Mentre stava per coricarsi le tornarono in mente le raccomandazioni della vecchia e, scalza, tremante, andò a vedere di nuovo se la porta e la finestra fossero ben chiuse, assalita improvvisamente da una pazza e fanciullesca paura.

Spense il lume, cacciò il capo sotto le coltri, ma non poté prendere sonno. Sentiva freddo e non aveva coraggio di scendere dal letto per gettarsi indosso qualche cosa; si rannicchiava, si ripeteva ch'era una sciocca, provava a pensare ciò che avrebbe fatto la mattina di poi durante la sua prima lezione, ma erano inutili tentativi. Le parole della padrona di casa le tornavano alla mente con insistenza; rammentava tutte le orrende storie di delitti e di assassini lette altravolta nella cronaca del Messaggero, e batteva i denti pel freddo e per la paura.

Maddalena intanto piangeva silenziosamente nel suo letto, e Carlo, voltandosi e rivoltandosi sotto le coltri, provava, malgrado il dolore acuto che lo tormentava, una specie di consolazione al pensiero che gli era dato di riposare su quel letto stesso dove Ginevra aveva dormito per tanti e tanti anni.




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