III
Chi abbia vissuto per alcun tempo in
qualche piccolo paese saprà benissimo che, il più delle
volte, il sindaco ed il parroco sono tra di loro in aperta guerra,
specie quando, e ciò avveniva al paesello abitato da Ginevra,
sono entrambi dotati di carattere intollerante.
Il sindaco voleva far valere la sua
autorità, il parroco la sua influenza; il sindaco incolpava il
parroco di tutti i disordini, di tutti i pettegolezzi che avvenivano
in paese, il parroco insinuava che la grandine, le pioggie
prolungate, gli scarsi raccolti erano castighi inflitti da Dio al
paese, reo di sopportare un sindaco che aveva l'audacia di passare
innanzi alla chiesa senza nemmeno togliersi il cappello. Quando
arrivò Ginevra le ostilità erano giunte al massimo
grado di accanimento e la fanciulla, nuova a tali bizze meschine, non
sapeva a quale partito appigliarsi, poiché taluno la
consigliava di non frequentare la chiesa per non inimicarsi il
sindaco, taluno le suggeriva di non visitare il sindaco per non farsi
del parroco un secreto e temibile nemico.
Malgrado tutte queste chiacchiere la
domenica Ginevra andò alla messa, ed il mercoledì,
giorno di vacanza nelle scuole di campagna, si recò dal
sindaco per la visita di prammatica.
Il sindaco era un agiato possidente
che abitava colla moglie una villetta sita a mezzo chilometro circa
dal paese. Egli era un uomo sulla cinquantina abbastanza intelligente
e molto ignorante che aveva vissuto in Roma parecchio tempo e che,
durante la sua dimora nella capitale, aveva acquistato una certa
scioltezza di modi, molti vizi, un illimitato disprezzo pe' suoi
compaesani ed un altissimo concetto di se medesimo.
La moglie Geltrude era una buona donna
insignificante, che temeva il marito e lo ubbidiva senza discutere.
Quando Ginevra giunse alla villetta
Giacomo stava seduto al sole fumando la pipa e leggendo il
Messaggero.
Egli scorse da lontano la fanciulla e
indovinò ch'essa era la nuova maestrina, ma finse di non
averla veduta ed aspettò che la giovane gli volgesse la
parola.
«Ho l'onore di parlare col
signor sindaco, non è vero?» interrogò Ginevra
timidamente.
Giacomo, il quale piccavasi di
galanteria verso tutte le donne, si levò con premura affettata
e, stendendo la mano alla maestrina, la sollecitò ad entrare
in casa.
Il bravo sindaco, sazio ormai delle
robuste e grassoccie campagnuole, di cui poteva usufruire a suo
bell'agio, aveva un debole spiccatissimo per le donne magroline e
delicate, tantoché la sua giovane dipendente gli produsse
subito la più gradita impressione.
Giacomo non chiamò la moglie,
adducendo il pretesto ch'ella era troppo occupata in quel momento e
trattenne la fanciulla quasi due ore interrogandola su mille cose,
conducendola nel giardinetto attiguo alla casa e componendole egli
stesso un mazzolino di fiori.
Ginevra, non abituata a tanta
cordialità e parendole che il sindaco fosse un perfetto
gentiluomo, paragonato a tutti coloro con cui da otto giorni era
costretta a trattare, provò per lui una subita simpatia e si
mise a chiacchierare, a correre traverso le aiuole, a scherzare e
ridere come una bambina.
Quando si separarono Ginevra pensò
che il sindaco era proprio una brava persona, e Giacomo si disse che
la nuova maestra era tanto carina con quella vita snella, quei
dentini bianchi e quella voce fresca ed acuta come il pigolio di un
uccellino.
Il sindaco andava spesso a visitare
Ginevra, faceva nella scuola tutte le modificazioni ch'ella gli
suggeriva e le mandava sovente a regalarle qualche cestellino di
frutta qualche mazzo di fiori.
La fanciulla era grata al sindaco di tali premure e glielo diceva
con quel calore che le persone giovani e buone mettono sempre
nell'esprimere i loro sentimenti, non sospettando neppure che Giacomo
fosse guidato da intenzioni cattive e che altri potessero trovar da
malignare sulle innocenti gentilezze che un uomo quasi vecchio usava
a lei fanciulla, quasi bambina; ma il parroco aveva già
parlato in parecchie occasioni della tresca che il sindaco teneva
colla maestra e dello scandalo ch'essi davano a' suoi onesti
parrocchiani. Anzi una domenica, spiegando dall'altare un passo del
vangelo, com'è consuetudine nei parroci di campagna, alluse
apertamente alla scostumatezza di coloro, i quali si fanno esempio di
scandalo, mentre dovrebbero, per la posizione che occupano, essere
modelli di virtù.
Ginevra, che assisteva alla messa, non
comprese nulla e seguitò a tenere fisso il suo bello sguardo
limpido sul volto del dicitore. Ciò bastò perché
il parroco giudicasse che la maestra aveva perduto ormai ogni pudore
e che non sarebbesi mai più ravveduta.
La fanciulla, ignara delle infami
calunnie che correvano sul conto suo, conduceva una vita
ritiratissima, e adempiva il proprio dovere senza entusiasmo, ma
collo zelo più scrupoloso.
Uniche sue consolazioni erano le
lettere che il cugino le scriveva a nome dei suoi, uniche distrazioni
le visite del sindaco che per verità cominciavano a diventare
troppo lunghe e troppo frequenti.
Per solennizzare l'anniversario del
re, il sindaco dava tutti gli anni un banchetto al quale erano
ammessi i pochi eletti del paese, non escluso il parroco che deponeva
in quel giorno tutt'i rancori e compariva alla tavola del sindaco
ilare e sorridente, riserbandosi poi di riprendere all'indomani le
ostilità con nuova e più accanita energia.
Era una specie di armistizio che le
potenze belligeranti del paese si concedevano due volte all'anno; il
giorno dell'anniversario del re, in cui il parroco desinava in casa
del sindaco; il giorno del santo protettore in cui il sindaco
desinava in casa del parroco. In tali occasioni essi scambiavansi un
mondo di cortesie e spingevano la reciproca tolleranza fino al punto
che Giacomo si alzava in piedi quando al cominciare del pranzo, D.
Giovanni recitava il benedicite, e D. Giovanni vuotava d'un fiato il
proprio bicchiere quando Giacomo proponeva alle frutta un brindisi a
re Umberto. Né si creda che ciò li obbligasse a nulla
scambievolmente, come le cortesie cavalleresche che due generali
nemici si usano nei momenti di tregua, non li impegnano a
risparmiarsi nei giorni di battaglia.
Ginevra fu naturalmente invitata al
famoso pranzo e andò in casa del sindaco fin dal mattino per
prendere parte agli ultimi preparativi.
Giacomo, colla scusa di dirigere e
sorvegliare, stava sempre attaccato alle gonnelle di Ginevra, la
quale andava e veniva dalla cucina alla camera da pranzo prendendo
piatti e bicchieri dalle mani di Geltrude e disponendoli in
bell'ordine sulla tavola, con quella graziosa spigliatezza che la
rendeva adorabile.
Quel giorno indossava un abito di
panno bleu che le calzava come un guanto e che si addiceva a
meraviglia colla tinta fresca e rosea delle sue gote. Un grosso
geranio rosso, colto nel giardino del sindaco ed appuntato alla
cintola del vestito, spiccava allegro sul fondo bruno della stoffa e
metteva come una stonatura biricchina nella severa uniformità
del vestito scuro.
Giacomo la guardava con insistenza e
sentiva un desiderio pazzo ed irresistibile di stringere nelle
braccia quel corpicino flessuoso.
Non era amore, ciò si
comprende, era desiderio reso più pungente dall'immensa
disparità degli anni, dal riserbo che fino allora si era
imposto e dal contegno di Ginevra, a cui l'ingenua spensieratezza dei
suoi diciotto anni congiunta ad una innata riservatezza ombrosa, dava
un fascino da inebbriare.
Tutt'i preparativi essendo finiti,
Geltrude salì ad indossare il tradizionale abito di seta nera.
Giacomo rimase solo con Ginevra, chiacchierando ed aspettando
l'arrivo degl'invitati. A Ginevra venne detto che non aveva mai
veduto dei marenghi. Giacomo, che da tanto tempo ne portava sempre
uno nel taschino del panciotto, lo trasse fuori per mostrarglielo.
Ginevra, dopo averlo girato e rigirato
fra le dita, lo lasciò cadere per udirne il suono metallico, e
mentre Giacomo si chinava a raccoglierlo, ella, scherzando, vi mise
il piede sopra e disse:
«È sparito, non c'è
più!».
Giacomo prese nella mano il piedino di
lei e, stringendolo in modo da stritolarlo, mormorò:
«Oh! se voleste, ben altro vi
darei!».
Ginevra si fece di porpora, vide negli
occhi del sindaco un lampo che le fece ribrezzo e indovinò ciò
che fino allora non aveva nemmeno sospettato.
Gl'invitati giunsero bentosto ed alle
due si misero a tavola, tutti con un appetito formidabile e disposti
ad onorare il lauto pranzo che l'ospite aveva loro imbandito.
Nei pranzi di campagna si mangia molto
e si chiacchiera poco, tantoché le portate si succedono le une
alle altre senza interruzione; i bicchieri si colmano e si vuotano
frequentemente ed in mezzo al tintinnio dei piatti che si urtano, dei
bicchieri che cozzano, si ode solo di tanto in tanto qualche
esclamazione di meraviglia alla vista di una nuova pietanza, qualche
debole protesta delle donne se i vicini fanno loro delle porzioni
troppo formidabili, qualche scherzo generalmente brutale, seguito da
una risata unanime e rumorosa, a cui fanno eco anche coloro, i quali
non hanno inteso.
Alle frutta il sindaco si alzò
e, levando in alto il bicchiere, esclamò con enfasi:
«Alla salute del re!».
«Alla sua salute!»
gridarono tutti ed i bicchieri, urtandosi, lasciarono cadere ondate
di vino sulla tovaglia, sulle salviette, sui piatti, sui vestiti.
Ginevra si portò il bicchiere
alle labbra e lo depose quasi pieno.
Durante il pranzo ella sentivasi
triste, aveva perduta la sua bella serenità, presentiva che la
simpatia e la protezione del sindaco si sarebbero bentosto convertite
in odio e persecuzione. Mangiò pochissimo e gl'invitati
sentenziarono che lo faceva per mostrarsi preziosa e rendersi
interessante.
Finirono di pranzare alle cinque e
Ginevra voleva andarsene a tutti i costi, ma proprio in quella che si
aggiustava lo scialletto sulle spalle, cominciò a cadere una
pioggerella fitta fitta che si convertì bentosto in un solenne
acquazzone.
Fu costretta a rassegnarsi e si mise
anche lei intorno alla tavola per giuocare la solita e noiosissima
tombola, risorsa di tutte le riunioni campagnole. Verso le sette la
pioggia cessò, ma era già completamente buio e la
maestrina non poteva tornarsene a casa sola.
Giacomo propose di accompagnarla e,
quantunque ella se ne schermisse, Geltrude insistette così
vivamente che la fanciulla si vide obbligata ad accettare per non far
nascere sospetti con un rifiuto ostinato ed inconcepibile.
Quando furono in istrada Giacomo le
offrì il braccio e rimase in silenzio durante tutto il
tragitto, tantoché Ginevra cominciò a sperare di
essersi ingannata; ma, arrivati in casa, Giacomo entrò e, dopo
aver accesa la candela con un cerino, rimase fermo, guardando
fissamente la fanciulla ch'era assalita di nuovo da tutt'i suoi
timori e che tremava come una foglia.
«La ringrazio tanto tanto,
signor sindaco, ora non ho proprio più bisogno di nulla!».
Ma Giacomo sedette e finse di non
comprendere che la fanciulla lo licenziava.
«Vi faccio dunque molta paura,
Ginevra! Eppure non vi voglio male!».
«Paura? No davvero, sarebbe come
se avessi paura del mio papà!».
«Sono molto vecchio lo so, ma
Ginevra, sentite, io ho bisogno di finirla. Voi mi avete stregato!».
«Lei scherza!».
«Oh! no, non ischerzo!»
disse lui animandosi ed incapace di frenarsi più oltre.
L'incidente della mattina, il vino
bevuto che gli scaldava il sangue e gli annebbiava leggermente le
idee, il trovarsi solo di notte colla giovinetta in quella stanza
fiocamente illuminata dalla candela, tutto contribuiva ad esaltarlo
ed a togliergli la ragione.
Ginevra, spaventata dall'espressione
strana che il viso di Giacomo veniva assumendo, volle chiudersi nella
sua stanza; ma egli, indovinandone l'intenzione, le sbarrò il
passo e se la strinse al seno sollevandola come una piuma.
«Mi lasci, mi lasci»
supplicava lei, colla voce strozzata dall'emozione, ma egli reso
frenetico, non l'ascoltava ed aveva preso a baciarla furiosamente sui
capelli, sul collo e sulle guancie. Gli sforzi stessi che Ginevra
faceva per isvincolarsi lo irritavano e gli davano le vertigini.
«Cara, cara» mormorava
affannoso «abbi pietà di me, non vedi che divento
matto?».
Con uno sforzo disperato ella giunse a
guizzargli dalle braccia e, rapida come un lampo, corse nella sua
stanza e vi si chiuse al buio.
Giacomo seguitava a supplicarla,
invocandola coi nomi più dolci e le parole più
appassionate, mentre lei, non paga di aver chiuso la porta col
chiavistello, vi trascinava davanti il tavolino, le seggiole, la
valigia, tutto ciò che le capitava sotto le mani.
La vecchia intanto, che dormiva nel
piano superiore, fu destata da tutto quel baccano e gridò dal
letto:
«Signora maestra, che succede
dunque?».
«Scenda, scenda!» gridò
Ginevra, sperando che la presenza della vecchia decidesse il sindaco
ad andarsene finalmente.
Giacomo difatto tornò subito in
sé e, temendo di venire sorpreso in quella situazione brutta e
ridicola, uscì rapidamente, tantoché quando la vecchia
discese egli non era più là.
«Vergine santa, ditemi che cosa
è stato!».
«Siete sola?» domandò
Ginevra, sempre barricata nella sua stanza.
«E con chi volete ch'io sia?».
«La porta di casa è ben
chiusa?» insistette la fanciulla.
«È chiusa, ma ditemi
almeno di che si tratta!».
«Mi era parso di sentire del
rumore ed ho avuto paura» rispose Ginevra che non voleva
mettere la donna a parte del suo segreto.
«Santa Vergine, valeva proprio
la pena di farmi alzare per così poco» borbottò
la vecchia e se ne tornò a letto.
All'indomani Giacomo ebbe l'audacia di
presentarsi ancora; ma Ginevra, resa brutale dal vivissimo desiderio
di liberarsene, gli disse:
«Rammenti che, qualora la scena
ridicola di ieri sera dovesse rinnovarsi, mi volgerei all'ispettore,
narrandogli come lei, vecchio e sindaco, osi insultare una ragazza
senza protezione, una maestra che da lei dipende!».
«Ginevra!» interruppe lui
fremente.
«Mi chiami signorina e non mi
secchi più colle sue visite!». Ciò detto gli
voltò le spalle, lasciandolo pallido di collera per la dura
lezione ricevuta.
Da quel giorno tutti si volsero contro
la povera fanciulla. Il sindaco cominciò prudentemente ad
insinuare ch'egli erasi ingannato nel giudicare favorevolmente la
nuova maestra, il parroco rincarò la dose delle sue calunnie
e, siccome il medico assunse un giorno la difesa della giovinetta, vi
fu taluno che asserì di averlo veduto uscire a notte fatta
dalla casa della maestra, la quale col medico non aveva mai scambiato
più di dieci parole.
Perfino i ragazzi che frequentavano la
scuola si credevan lecito di trattare la maestra dall'alto al basso,
ed una volta che Ginevra rimproverò acerbamente uno dei più
grandi, perché le aveva mancato di rispetto, dicendole una
impertinenza grossolana, quegli rispose senza scomporsi:
«Lo ha detto anche la mamma».
La vita di Ginevra era divenuta
insopportabile. Tolte le ore di scuola ella stava sempre sola nella
sua stanza a leggere, a lavorare, a piangere il più delle
volte. Quelle piccole persecuzioni a colpo di spillo l'avvilivano e
le toglievano il coraggio. L'accanimento del sindaco le dava una
triste esperienza della vita, mostrandole che non basta esser
virtuosi per essere rispettati e che la virtù è nelle
donne una colpa che gli uomini difficilmente perdonano.
Un giovedì Ginevra faceva
scuola, ripetendo macchinalmente le stesse cose e lasciando che gli
alunni si sbizzarrissero a piacer loro. Era tristissima e domandavasi
con terrore se tutta la sua gioventù sarebbesi appassita in
mezzo a quelle pareti nude e ingiallite, se tutta la sua esistenza
sarebbe trascorsa in quel paesello pettegolo e andava mentalmente
ripetendo i versi del Leopardi:
Qui passo gli anni, abbandonata,
occulta,
Senz'amor, senza vita, ed aspra a
forza
Tra lo stuol dei malevoli divengo!
In quella si aprì la porta che
dava sulla strada ed entrò Carlo. Ginevra lo vide e gettò
un grido di gioia, precipitandosi dalla cattedra e tempestandolo di
domande affannose:
«Perché sei venuto? Come
sta la mamma? Ed il babbo? Sei arrivato proprio adesso? Quando
partirai?» e, dimenticando gli alunni lo trascinava nella
propria stanza, mentre Carlo ripeteva ad intervalli:
«Ginevra! Oh! Ginevra, cugina mia!».
Quando si furono un pochino calmati
Carlo guardò Ginevra e si avvide del cambiamento avvenuto in
lei nello spazio di pochi mesi. Era più magra, più
pallida, aveva l'occhio abbattuto ed il sorriso tristissimo.
Sederono entrambi sulla sponda del
letto, tenendosi per le mani, e Ginevra narrò confusamente al
cugino tutt'i suoi dolori, tacendogli solo l'episodio del sindaco.
Carlo, vinto da immensa pietà
per quella fanciulla, ch'egli adorava, e che gli altri non
comprendevano, commosso all'idea della notizia tremenda che veniva a
recarle, cercava di consolarla con buone parole, mentre lei,
confortata dalla presenza del cugino che amava come un fratello, gli
si era messa vicino vicino e gli appoggiava il capo sulla spalla.
Tutti immersi nei loro discorsi non
avevano osservato che al chiacchierio confuso e baldanzoso degli
alunni era successo un silenzio profondo, e videro comparire
inaspettatamente sulla soglia della porta il sindaco e l'ispettore.
«Brava, signorina» disse
severamente quest'ultimo «ne avevo già sentite di belle
sul conto suo, ma fino a tal punto in verità non l'avrei
supposto».
«È mio cugino»
balbettò Ginevra confusa, poiché comprendeva che le
apparenze erano in quel momento contro di lei.
«Fosse anche suo padre, lei
durante le ore di scuola deve occuparsi esclusivamente de' suoi
alunni. Altronde il signor sindaco mi ha già parlato di lei e
so benissimo cosa pensarne».
Ginevra lanciò su Giacomo uno
sguardo d'indicibile disprezzo ed ebbe per un istante la tentazione
di smascherarlo, ma, pensando che forse non l'avrebbero creduta, si
limitò a rispondere:
«Il signor sindaco deve
certamente conoscermi e giudicarmi meglio di qualunque altra
persona».
L'ispettore che non comprese questa
frase a doppio senso, credette che la maestra avesse voluto dargli
una lezione, e s'inviperì più che mai:
«Rammenti che lei parla ad un
superiore e che, quando si abbandonano in classe i propri alunni per
chiudersi in camera con un cugino, si deve per lo meno avere il buon
senso di sopportare i rimproveri senza discutere».
«L'essere mio superiore non le
dà il diritto d'insultarmi» rispose Ginevra, resa audace
dalla propria innocenza.
Carlo che fino allora aveva taciuto,
per paura di dir troppo e compromettere la cugina, non potette più
stare alle mosse e, forzandosi di parer calmo, disse all'ispettore:
«Per giudicare una persona ci
vogliono almeno delle prove».
«Ne ho una e mi basta!».
«Va bene, in tal caso mia cugina
verrà subito via con me questa sera».
«Non è lei che se ne va,
siamo noi che la cacciamo!».
Carlo che schizzava fuoco dagli occhi
stava per ribattere le dure parole dell'ispettore, ma Ginevra lo
trattenne, dicendogli:
«Il signore ha in parte ragione
e non è sua la colpa delle mie disgrazie. D'altronde la
residenza in questo paese mi era divenuta insopportabile e
l'incidente di oggi ha solo affrettato ciò che presto o tardi
doveva accadere» .
Giacomo stava sui carboni ardenti.
Temeva che Ginevra parlasse, e poi non avrebbe voluto condurre le
cose a tal punto, perché aveva sempre nutrita la secreta
speranza di vincere finalmente Ginevra colle persecuzioni, non avendo
potuto convincerla colle lusinghe. Disse adunque con tono
conciliativo:
«Non è necessario
prendere tali risoluzioni precipitose. La condotta della signorina è
stata biasimevole, ma il signor ispettore ed io non vogliamo
rovinarla, e potrebbe darsi che la lezione di oggi la consigliasse a
ravvedersi».
«La ringrazio, signor sindaco,
ma non mi ravvederò mai» rispose Ginevra con ironia «ed
è meglio per tutti farla finita».
«Lo credo io pure»
concluse seccamente l'ispettore, e se ne andò con Giacomo
lasciando i due cugini a fare i preparativi della partenza.
Ginevra era quasi lieta dell'accaduto.
Sarebbe tornata a casa, avrebbe riveduto il babbo, riabbracciata la
mamma, e ciò la compensava di tutto.
Carlo invece era preoccupatissimo.
Il diverbio coll'ispettore avevagli
fatto per un momento dimenticare la sventura che doveva partecipare a
Ginevra; ma era urgente dirle tutto e non sapeva con quali parole
attenuare la gravità della notizia.
«Perché stai così
serio» chiese Ginevra «si direbbe che ti spiace di
condurmi via».
Carlo crollò leggermente il
capo senza rispondere.
«Figurati la mamma come sarà
contenta! Non se l'aspetta davvero, povera mamma».
«La mamma è un po'
ammalata» balbettò Carlo.
«Ammalata!» esclamò
Ginevra, spiegandosi d'un tratto il perché dell'improvvisa
venuta del cugino. «Molto ammalata non è vero?».
«Sì, molto ammalata, mia
povera Ginevra».
«Carlo, Carlo» gridò
lei, tremando d'indovinare la verità «Carlo, tu non mi
dici tutto!».
Egli tacque.
«Ma dunque la mamma?» e
gli sollevò con una mano il mento che egli teneva inchiodato
sul petto.
Si guardarono per un secondo, gli
occhi di lei sbarrati, interrogando ansiosamente, gli occhi pietosi
di lui confermando la trista verità.
Ginevra, quantunque avesse
perfettamente compreso, rimase qualche minuto come istupidita, si
passò due o tre volte la mano sulla fronte, eppoi mise uno
strido acutissimo, e ruppe in singhiozzi, ripetendo frasi incoerenti,
chiamando insistentemente la mamma, quasi che le sue invocazioni
possedessero la virtù di farla rivivere.
Il cugino, seduto vicino a lei, non
aveva il coraggio di volgerle la parola, e aspettava che la violenza
stessa del dolore facesse succedere un istante di calma.
«Ginevra» diss'egli
finalmente «tuo padre ti aspetta, vogliamo partire?».
Ella accennò di sì e
lasciò guidarsi come un automa, tenendo il fazzoletto sugli
occhi ed appoggiandosi al braccio del cugino.
I buoni abitanti del paese, già
istruiti di quanto era avvenuto nella scuola, si fecero tutti sulla
porta per veder partire la maestra e sentenziarono ch'ella fuggiva
coll'amante e che teneva il fazzoletto sul viso per la vergogna.
Con tali criteri si giudicano talora
uomini e cose.
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