IV
In diligenza parve che Ginevra si
fosse un pochino calmata, ma, appena saliti in treno, ella dette
nuovamente in un pianto dirotto dicendo:
«Almeno avessi potuto vederla
un'ultima volta!».
Allora Carlo le narrò
minutamente com'erano andate le cose.
Maddalena accusava già da
qualche tempo un malessere indefinito che le toglieva il sonno,
l'appetito e perfino la voglia di lavorare, ma tutti attribuivano la
sua tristezza alla lontananza della figliuola, e non se ne davan
pensiero, finché il sabato precedente si mise a letto con una
febbre violentissima.
Il medico aveva dichiarato ch'era cosa
di lieve importanza, ma all'indomani la febbre era aumentata, e 12
ore dopo la poveretta era morta. Carlo aggiunse ch'erasi tentato il
possibile per salvare Maddalena, e ch'ella era stata amorosamente
assistita da una cugina, la quale, in seguito alla disgrazia, aveva
generosamente stabilito di restare con Giuseppe per custodirgli la
casa.
Quando arrivarono, Ginevra si gettò
tutta piangente nelle braccia del padre, il quale versò
qualche lacrima, disse molte parole in lode della morta e propose
infine di mangiare qualche cosa.
Ginevra non toccò cibo e,
quantunque completamente assorta nel proprio dolore, osservò
che la cugina faceva già con molta disinvoltura gli onori di
casa e si ricordò confusamente di una scena violenta avvenuta
molti anni addietro tra il babbo e la mamma a proposito di
Margherita. Andò a coricarsi e si addormentò subito,
affranta dalla stanchezza e dalle emozioni, ma nello svegliarsi sentì
più acuta l'amarezza della perdita fatta e pianse lungamente,
richiamandosi alla memoria tutt'i particolari degli ultimi giorni
trascorsi in quella povera casuccia che la presenza della mamma
abbelliva e rendeva allegra. Ripensava alle illusioni della povera
morta, ripeteva sottovoce le frasi che le erano abituali, chiudeva
gli occhi per vederla ancora e le pareva impossibile che fosse morta
davvero e che non dovesse rivederla mai più.
Fin dal primo giorno si avvide ch'ella
era ormai considerata come una estranea in quella casa. Margherita
faceva e disfaceva a suo talento senza il menomo riguardo verso di
lei, e Giuseppe si mostrò addirittura brutale, quando seppe
che Ginevra non poteva più tornare a fare la maestra.
«Che farai tu qui?» le
aveva detto «non puoi mica pretendere di vivere come una
signora senza far nulla!».
«Non dubitate, babbo, Iddio mi
provvederà. Desidero anch'io di andarmene ché mi fa
troppo male star qui dove ha vissuto la mamma, e vedere che tutti
l'hanno già dimenticata».
«Vorresti forse ch'io piangessi
eternamente?» borbottò Giuseppe alzando le spalle.
«Bisognerebbe non aver altro da
fare» osservò malignamente la cugina.
Ginevra non rispose punto e si chiuse
nella sua stanza per piangere liberamente.
Carlo erasi allontanato dopo la morte
di Maddalena e non mangiava nemmeno più in casa, perché
soffriva nel vedere la padronanza di Margherita e l'avvilimento di
Ginevra. Andava però a trovarla tutte le sere e passavano
lunghe ore insieme a parlare del passato ed a formare mille progetti
per l'avvenire. Carlo adorava la cugina, ma sentivasi tanto umile,
tanto piccino al suo confronto, indovinava una sì completa
indifferenza nelle fraterne espansioni di lei che non osava
dichiararsi e limitavasi a mostrarle il proprio interesse
secondandone le vedute, correndo per le agenzie nella speranza di
trovarle una occupazione qualsiasi, dando e ricevendo informazioni,
aspettando risposte che non venivano o venivano tardi e in senso
negativo.
Finalmente una sera egli recò a
Ginevra la notizia, che una ricca famiglia milanese desiderava tenere
in casa una maestra pei bambini.
Le condizioni erano buone, le
indicazioni date al commissionario combinavano coll'età, la
condizione e i titoli posseduti da Ginevra, onde v'era da sperare che
tutto sarebbesi combinato.
Difatto le trattative vennero condotte
per lettera rapidamente, ed in capo ad una settimana tutto era stato
discusso e concluso.
I nuovi padroni di Ginevra la
sollecitavano ad affrettare la partenza, ed ella dal canto suo
desiderava vivamente di abbandonare quella casa che non poteva più
considerare come sua, onde i preparativi vennero sbrigati colla
massima rapidità.
La mattina della partenza Carlo e
Giuseppe l'accompagnarono alla stazione, il primo colla morte
nell'animo, ma sereno in volto per non attristare la cugina, il
secondo triste in apparenza, ma in realtà molto soddisfatto di
sbarazzarsi di Ginevra, la quale non avrebbe mai potuto intendersela
con Margherita ch'egli intendeva di sposare.
Anche questa volta il viaggio riuscì
piacevole a Ginevra. L'idea di vedere nuove cose, l'orgoglio di
bastare a sé stessa, la speranza di rendersi utile e cara alla
famiglia che l'aspettava, tutto contribuiva ad allietare la fanciulla
ed a renderla confidente nell'avvenire.
Giunta a Milano Ginevra credeva di
trovare qualcuno alla stazione, ma l'ora essendo già
inoltrata, non si meravigliò molto che nessuno stesse ad
aspettarla e, salita in vettura, si fece condurre in una modesta
locanda per passarvi la notte.
All'indomani mattina uscì verso
le dieci ed a forza d'indicazioni giunse a raccapezzarsi ed a trovare
la dimora dei padroni che abitavano un vasto appartamento di un
imponente palazzo. Quando il servo andò ad aprire Ginevra
rimase meravigliata nel vedere l'anticamera piena di fiori, di
piante, di gingilli in modo da somigliare ad uno splendido salotto.
Ginevra dette al servo il proprio
biglietto, pregandolo di consegnarlo alla signora e, trascorsi pochi
minuti, il servo tornò dicendo che la signora aveva da due
giorni telegrafato alla signorina per avvisarla che si era già
provveduta di altra maestra.
Ginevra diventò smorta in viso
e, credendo di non avere ben compreso, si fece ripetere l'ambasciata.
«Ma io non ho ricevuto nessun
telegramma».
Il servo si strinse nelle spalle.
«Non potrei almeno parlare colla
signora?» chiese Ginevra supplichevole.
Il servo, un buon diavolo di
giovanotto, rimase commosso dall'agitazione che leggevasi sul volto
della fanciulla e si decise di partecipare alla signora il desiderio
di lei.
La signora stava col marito a prendere
il thè nel salotto da pranzo e rispose impazientemente di non
aver nulla da aggiungere a quanto aveva già detto, ma il
marito le fece osservare ch'era meglio dare esplicite spiegazioni per
evitare noie ulteriori, e Ginevra venne introdotta.
La figura gentile, la semplicità
elegante del vestito, l'aria timida e smarrita del volto le
conciliarono subito la simpatia del padrone di casa, ma la signora
non la guardò nemmeno e, colla fredda cortesia che hanno le
grandi dame quando trattano con persone di molto inferiori a sé,
le disse:
«Voleva risparmiarle una
spiegazione dolorosa, signorina, ma, giacché la desidera, le
dirò francamente che mi sono giunte pessime informazioni dal
paesello ov'ella è stata per parecchi mesi».
«Ma la signora mi scrisse che
tutto era combinato e m'ingiunse di partire!».
«Allora non sapevo ciò
che so oggi. D'altronde confesso di essere stata troppo corriva e mi
spiace davvero di averla inutilmente disturbata».
Quest'ultima frase sembrò
ironica e crudele al marito che, fissando in volto Ginevra,
avvedevasi di quanto soffriva la povera fanciulla, onde, voltosi alla
moglie, chiese:
«Sei certa che le informazioni
ricevute sul conto della signorina sono veritiere?».
«Sono calunnie» esclamò
Ginevra con forza «sono calunnie!».
Quand'anche la signora avesse provato
per Ginevra un senso di compassione, la simpatia che il marito
dimostrava alla maestrina sarebbe bastata a rendergliela
insopportabile, onde concluse seccamente:
«Sarà benissimo,
signorina, ma a quest'ora ho già in casa un'altra maestra!».
Ginevra, comprendendo l'inutilità
d'ogni preghiera, chinò il capo in segno di commiato ed uscì.
«Eppure giurerei ch'è una
buona ragazza» disse il marito.
«Può essere»
rispose la signora «ma non mi piace punto» e non ci
pensarono più.
Ginevra uscì di quella casa
colla morte nell'animo. La gente che passava o affaccendata od
allegra le faceva pensare che in quella grande città, in mezzo
a tanta folla non v'era nemmeno una persona a cui potesse rivolgersi
per protezione e consiglio nell'orribile posizione in cui si trovava.
Camminò lungo tratto a casaccio e fu costretta infine di
salire in una vettura.
Giunse all'albergo colla testa confusa
e le gambe che le si piegavano; salì in fretta nella sua
stanza, e si gettò su di una poltrona, decisa a riflettere
freddamente su quanto le convenisse di fare.
Estrasse il denaro dal borsellino, non
le rimanevano che due carte da dieci lire e pochi spiccioli, nemmeno
la somma sufficiente per tornarsene a Roma. D'altra parte questo era
l'ultimo partito a cui si sarebbe appigliata.
Tornare a Roma perché?
Esigere nuovi sacrifizi dal cugino?
Sottoporsi di nuovo ai rimbrotti del
padre ed agli sgarbi di Margherita?
Non se ne sentiva il coraggio e,
qualora l'avesse tentato, sarebbe stata tollerata per qualche tempo,
eppoi avrebbe dovuto tornar da capo. Quanto ad un posto di maestra
non era più il caso di pensarci. Il fatto della mattina
dimostravale evidentemente che il sindaco e l'ispettore le avevano
dichiarato una guerra ad oltranza.
Si affacciò alla finestra ed
ebbe per un momento la tentazione di gettarsi nella strada e farla
finita, ma se ne ritrasse subito e disse ad alta voce:
«No, voglio lottare fino
all'ultimo. Ci sarà poi sempre tempo!».
Suonò il campanello, si fece
portare da pranzo in camera, chiese l'indirizzo di un'agenzia e vi si
recò appena mangiato.
«Che posto desidera, signorina!»
domandò premurosamente il commissionario, un buon uomo sui
quaranta, cordiale e chiacchierone.
«Bambinaia, governante, maestra,
cameriera, sono disposta a tutto, purché io possa combinare
subito!».
«Vediamo il registro. Una
vecchia signora cerca una dama di compagnia; un vedovo chiede una
governante per due bambini. Le condizioni sono eccellenti in ambi i
casi; ma si esigono le più ampie informazioni e le spiegazioni
più minuziose».
«Non è il mio caso»
rispose bruscamente Ginevra.
«Vi è un signore celibe;
un colonnello in ritiro che desidera una governante giovane e di
bell'aspetto. E disposto a chiudere un occhio sui precedenti, ma
...».
«Ebbene?».
«Non voglio ingannarla ragazza
mia, ne ho mandate quattro, e nemmeno troppo schifiltose a quanto
pareva, eppure, dopo una residenza più o meno breve si sono
tutte licenziate».
Ginevra arrossì ed accennò
colla mano che proseguisse.
«Vediamo, vediamo» disse
il commissionario, fermandosi ad un tratto sulla seguente annotazione
che lesse ad alta voce:
«Signore scapolo desidera una
cameriera pel governo della casa. Si esige una relativa educazione.
Onorario da convenirsi». Seguiva il nome e l'indirizzo.
Ginevra esitò! Far la cameriera
ed in casa di uno scapolo le sembrava enorme, onde pregò il
commissionario di guardare ancora se ci fosse qualcosa di meglio.
Questi, dopo avere sfogliato
inutilmente tutto il registro, insistette perché la fanciulla
accettasse ciò che la buona fortuna le presentava. Altronde
quando la necessità s'impone non è il caso di avere
tanti scrupoli, consigliava l'agente e, qualora non ci si trovasse
bene, sarebbe sempre a tempo di venirsene via.
Ginevra spinta dall'urgenza di
collocarsi e mezzo stordita dalle parole del commissionario, si
lasciò indurre a farsi condurre subito in casa del signor
Ercolani che abitava poco lontano.
Andò ad aprire un vecchio
servitore che aveva l'incarico di accudire alle faccende più
grossolane della casa, e che introdusse Ginevra ed il commissionario
nel gabinetto del padrone.
Rodolfo Ercolani era un giovanotto sui
trentacinque anni, alto, elegante, dalla fisionomia un po' severa, lo
sguardo acuto ed il sorriso ironico. Della vita aveva tutto studiato,
tutto goduto, tutto sofferto, onde, malgrado le molte occupazioni e
le moltissime distrazioni, veniva assalito talora da una noia
profonda di tutto e di tutti.
Non era cattivo.
Facile ad esaltarsi, facile a
dimenticare, rideva oggi di quello che ieri gli aveva forse strappato
una lacrima e ciò senza ostentazione di cinismo o di
sentimentalismo.
Esprimeva sempre ciò che
sentiva e sembrava nobile, perché possedeva una natura di
artista fine ed impressionabile.
Rodolfo fissò in volto Ginevra
e le domandò:
«Sei milanese?».
«Nossignore, sono romana».
«E come dunque ti trovi qui?».
Il commissionario venne in aiuto della
fanciulla, inventando con molta disinvoltura una storiella
commovente.
Ginevra tentò di protestare; ma
non ne ebbe il tempo, poiché il commissionario concluse in via
di perorazione:
«Il signore può
ciecamente fidarsi delle informazioni da me assunte (la conosceva da
un'ora appena) e son certo che la ragazza riuscirà un'ottima
cameriera».
Rodolfo non credette punto alle
proteste dell'agente, ma era seccato di veder sempre nuovi visi e
decise di prendere la ragazza anche perché gli sembrava
abbastanza bruttina.
Difatto Rodolfo, che si conosceva, non
aveva mai osato prendere in casa una cameriera piuttosto bella,
poiché il giovane signore sapeva benissimo che innanzi ad un
bel visino avrebbe finito coll'obbedire anziché comandare.
Dopo una breve discussione tra Rodolfo
ed il commissionario venne fissato che Ginevra resterebbe lì
addirittura, e che l'agente stesso si prenderebbe l'incarico di
andare all'albergo per ritirare la valigia di Ginevra.
Rodolfo chiamò il servo,
gl'ingiunse di far conoscere alla fanciulla le abitudini e la
disposizione della casa e si rimise a scrivere.
Ginevra si trovò subito ad agio
in quella casa elegante ed all'indomani mattina si dette attorno per
assettarla, che in verità ve n'era proprio bisogno.
Cominciò dalla stanza di
Rodolfo e non poté fare a meno di sorridere nel vedere il
disordine che vi regnava. Pettini, spazzole, spazzolini, cerette pei
capelli, cosmetici per la barba stavano alla rinfusa sul tavolo di
toilette, mentre nel cassettone erano accatastati guanti e mutande,
cravatte e camicie da notte, colli, calze, fazzoletti, bigliettini
sgualciti, fiori appassiti e pezzi di sigaro.
Ginevra riordinò tutto con
esattezza scrupolosa, ripiegò i calzoni ed il soprabito che
stavano ammucchiati su di una seggiola, socchiuse la finestra, rialzò
graziosamente le cortine e spazzolò i mobili in modo da
renderli lucidi come fossero nuovi.
Rodolfo rincasando andò
direttamente nel salotto da pranzo, e vide che Ginevra stendeva
allora la tovaglia, onde le disse con rudezza:
«Che hai fatto dunque tutta la
mattinata per ridurti a preparar la tavola a mezzogiorno? Bada che
intendo trovar sempre tutto pronto quando torno a casa».
Ginevra tacque e Rodolfo, quando entrò
in camera, comprese che la ragazza non era rimasta inoperosa e si
pentì quasi di averla rimproverata.
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